America
Gli USA e il mondo dopo il 5 novembre. La politica estera di Trump e Harris
Come accade sempre una volta ogni quattro anni, il mondo attende con trepidazione il primo martedì di novembre, giornata al termine della quale, salvo sorprese, conoscerà l’uomo o la donna destinata a guidare per il successivo quadriennio la più grande superpotenza della Terra. Quest’anno non vi è dubbio che la competizione elettorale oltre Atlantico assuma una valenza ancor più cruciale che in passato, in virtù di un sistema internazionale alle prese con almeno due conflitti bellici di notevoli proporzioni e pericolosità, oltre che con altre situazioni di tensione in giro per il globo. Sia la guerra in Ucraina, che le operazioni militari israeliane contro l’Iran e i suoi alleati in Medio Oriente, coinvolgono in misura elevata gli USA, quali alleati e senior partner di una delle parti in causa, nonché fornitori di appoggio diplomatico, equipaggiamento militare e, nel caso di Kiev, sostegno finanziario. In un tale complicato e delicato contesto geopolitico, determinato sempre più dalla contrapposizione tra blocchi di potenze tra loro ostili, e da un ritorno ad una sorta di guerra fredda 2.0, a contendersi la Casa Bianca saranno due personalità quanto più possibile diverse l’una dall’altra, con alternative e contrastanti idee su quale debbano essere il ruolo e le azioni degli USA nel mondo. Se una presidenza di Kamala Harris verrebbe percepita in sostanziale continuità con l’amministrazione di Joe Biden, è innegabile che un’eventuale vittoria di Donald Trump riaccenderebbe i timori in varie parti del pianeta, e soprattutto tra gli alleati dell’America, riguardo la sua volontà di mantenere le alleanze politico-militari e i rapporti commerciali in essere, o almeno sulla misura del suo impegno in tal senso. Comunque sia, in un mondo che, durante questo decennio, ha dovuto riprendere a fare i conti in misura importante con la guerra e con le minacce di estensione della stessa a livelli sistemici, il prossimo 5 novembre sarà cerchiato in rosso sui calendari di tutti i policymakers.
Chiunque sarà in Campidoglio a giurare fedeltà alla Costituzione il prossimo 20 gennaio, dovrà gestire la politica estera a stelle strisce in modo da condizionare positivamente l’andamento del conflitto russo-ucraino e la situazione nel vicino Oriente. In entrambi i casi l’imperativo strategico per Washington sarà giungere alla stabilizzazione degli scenari e alla cessazione delle ostilità militari, alle migliori condizioni possibili. Troppo pericoloso rischia infatti di essere il persistere degli attuali focolai di guerra, a causa degli imprevedibili effetti che ne possono conseguire, sia in relazione ai relativi contesti regionali, che alla posizione, alle azioni e agli obblighi di natura strategica in capo alla superpotenza stessa. Il problema si porrà sul come riuscire a raggiungere un tale obiettivo, tenendo conto della complessità degli scenari e della ormai assodata ritrosia degli USA ad impegnarsi direttamente e pesantemente nei conflitti armati, o anche solo minacciare di farlo. In Ucraina, nonostante la valorosa resistenza del paese aggredito e nonostante le enormi difficoltà incontrate dai Russi sui campi di battaglia, l’esercito di Mosca sembra avere ormai intrapreso un’offensiva che, se continuata il prossimo anno, potrebbe portarlo a conquistare l’intero Donbass, mentre a Kiev si fatica a rimpiazzare i soldati in trincea e a evitare il crollo dell’intero fronte orientale. In Medio Oriente le operazioni militari di Israele iniziate dopo il 7 ottobre non accennano a fermarsi, e alla guerra di Gaza si sono aggiunti un attacco, se pur non in grande stile, contro Hizbullah nel sud del Libano e un nuovo scambio di colpi con l’Iran, a suon di lanci di missili e incursioni aeree. In entrambi i fronti, del resto, gli apparati americani riscontrano evidenti ostacoli ad incidere con efficacia: nel primo caso per l’incapacità di ribaltare, con le forniture militari proprie e degli alleati, le sorti della guerra, oltre che per la difficoltà a mantenere il supporto delle opinioni pubbliche al sostegno a favore di Kiev; nel secondo a causa della sostanziale impotenza nello spingere lo stato ebraico a cessare o anche a non allargare un conflitto da esso percepito con in palio la propria sopravvivenza. La gestione di tali conflitti dovrà essere inoltre attuata in considerazione della necessità per gli USA di focalizzare l’attenzione strategica sulla Cina e sulla relativa sfida alla propria egemonia globale, che è la questione al primo punto dell’agenda di politica estera a Washington, e su cui, prima di ogni altro dossier, si misurerà l’operato del prossimo inquilino della Casa Bianca. Al fine di evitare pertanto la dispersione di forze e risorse su troppe aeree geografiche, rimarrà fondamentale continuare a mantenere, rivitalizzare e se possibile incrementare, i sistemi di alleanze, in modo da attuare una più efficiente divisione del lavoro tra partners. Obiettivo, questo, la cui realizzazione sarà però strettamente legata al grado di fiducia che l’America, e in prima battuta il prossimo presidente, saprà infondere nei propri alleati, a cominciare dagli Europei. Sopra ogni cosa, chi trionferà alle urne, dovrà cercare di invertire l’impressione di relativa debolezza percepita dal resto del mondo negli ultimi anni, che ha favorito l’emergere di minacce e focolai di violenza in diverse aree calde del globo.
Sono forti i timori di molti osservatori internazionali riguardo agli effetti di una nuova ascesa alla presidenza da parte di Donald Trump sul complicato contesto geopolitico globale. Il magnate newyorkese minaccia di irrompere nuovamente sulla scena con la sua retorica incendiaria e soprattutto con iniziative agressive in politica estera e commerciale, sia verso potenze competitors, prima tra tutte la Cina, che verso gli alleati. Irriducibile oppositore di praticamente tutte le decisioni dell’amministrazione Biden, Trump, in caso vincesse la battaglia elettorale di martedì prossimo, si troverebbe in primo luogo a dover mettere in pratica la promessa di mettere fine (“in un giorno”, sic!) alla guerra in Ucraina. Da quel che è dato capire dalle sue dichiarazioni, dalle recenti indiscrezioni di Financial Times e dal piano anticipato dal vice-presidente in pectore, J.D. Vance, un simile risultato sarebbe ricercato esercitando forti pressioni sulla leadership di Kiev per accettare un piano di pace con un assetto territoriale che rispecchi sostanzialmente le posizioni degli eserciti sul campo, quindi con importanti amputazioni per l’Ucraina. Tali perdite non sarebbero peraltro compensate dalla fornitura di garanzie da parte di Washington riguardo la futura integrità territoriale del paese, né tanto meno dalla prospettiva di ingresso nella Nato. Le idee del Tycoon prevederebbero insomma il minor coinvolgimento possibile per gli USA, anche in tema di supporto finanziario, che sarebbe delegato agli europei, come pure lo sarebbe l’onere di supervisionare il rispetto dell’accordo. Non è difficile immaginare che, in caso di rifiuto da parte di Zelenskyj di fronte a simili proposte, la risposta di Trump sarebbe il blocco o la forte restrizione degli aiuti militari, già da lui sostenuta nelle trattative in Congresso dell’ultimo anno sugli stanziamenti a favore di Kiev. Sostanzialmente un invito alla resa, quindi, secondo molti analisti e critici, ma anche l’unica strada percorribile, per altri. Un tale progetto sarebbe in linea con le simpatie e le affinità ideologiche già espresse dall’ex presidente per Putin in passato, e con la strategia mirante a recuperare il rapporto con la Russia, anche e soprattutto in funzione anti-cinese. Non è chiaro quanto queste idee siano accettate dal Partito Repubblicano e dagli apparati diplomatici e militari di Washington, tradizionalmente sospettosi e ostili di fronte a politiche troppo accondiscendenti con Mosca, ma è plausibile pensare che, questa volta, Trump sia maggiormente preparato ed equipaggiato agli inevitabili scontri con quello che i suoi sostenitori chiamano il deep state, rispetto alla precedente esperienza al vertice del governo. Un ulteriore dubbio si potrebbe porre nel caso le sue proposte non fossero accettate dalla controparte russa, la quale mantiene comunque l’obiettivo di annettere tutto il Donbass, non ancora ottenuto militarmente. In tal caso, non sarebbe da escludere la possibilità che il neo presidente rivolga la sua retorica contro Mosca, finanche a minacciare un aumento del sostegno a Kiev, con annesso innalzamento delle tensioni tra le due superpotenze nucleari. In tutto questo ci sono pochi dubbi sul fatto che pochissimo spazio di manovra sarebbe lasciato agli Ucraini, e ancor meno agli Europei.
L’erraticità e l’imprevedibilità sono due aspetti del comportamento di Trump coerenti con l’aspirazione a ristabilire da parte degli USA un maggior grado di deterrenza nei confronti del potenze ostili o potenzialmente tali. Come ha scritto recentemente su Foreign Affairs Robert C. O’Brien, già Consigliere per la Sicurezza Nazionale con Trump alla Casa Bianca dal 2019 al 2021, in quello che potrebbe essere un vero e proprio manifesto di politica estera, gli USA devono tornare ad infondere paura per ristabilire la “pace attraverso la forza”. Nell’ottica dell’ex presidente, che si iscriverebbe nella tradizione della scuola jacksoniana, dovrebbero essere potenziate le forze armate, inclusa la triade nucleare, e dovrebbe essere mantenuta una postura maggiormente assertiva nei confronti degli stati ritenuti una minaccia per l’America o per i suoi interessi, abbandonando i progetti di accordi diplomatici e non disdegnando di impiegare la forza con decisione, se necessario. Solo così essi sarebbero in grado di mantenere la pace. Alle proprie condizioni, naturalmente. Uno di questi paesi è senz’altro l’Iran, ritenuto dai Repubblicani la vera fonte delle attuali esplosioni di violenza in Medio Oriente, anche attraverso i propri proxy. Una presidenza Trump, con ogni probabilità, seppellirebbe qualsiasi residuale possibilità di ripresa del dialogo sul nucleare iraniano, e fornirebbe un più deciso sostegno ad Israele contro di esso. Le preoccupazioni per le vittime civili dei bombardamenti israeliani passerebbero in secondo piano, salvo probabilmente casi di particolari eccessi, come diminuirebbero le pressioni sul governo di Gerusalemme per riprendere il negoziato di pace con l’Anp per la Cis-Giordania. L’attenzione verso il rispetto dei diritti umani e delle minoranze, similmente, scenderebbe di grado, nei rapporti con paesi amici e alleati, rimuovendo il precario equilibrismo, tipico delle amministrazioni democratiche, con stati quali l’Arabia Saudita, ma anche l’Egitto e la Turchia, per reclutarli pienamente ai fini della contrapposizione a Teheran. La postura maggiormente aggressiva tornerebbe ad essere assunta naturalmente anche nei confronti della Cina, l’unico soggetto realmente candidato a sostituire gli USA nel primato mondiale, come a Pechino hanno già sperimentato nel primo quadriennio di Trump al potere. Il candidato repubblicano in campagna elettorale ha promesso di aumentare i dazi al 60% su tutte le merci provenienti dal gigante asiatico, fantasticando addirittura di eliminare l’imposta sul reddito con i proventi delle tariffe sui beni importati. E’ facile immaginare che, se attuata, una tale minaccia farebbe riprendere la guerra commerciale tra i due paesi e rischierebbe di rivitalizzare l’inflazione mondiale, oltre ad esacerbare le tensioni tra Pechino e Washington, già al limite del livello di guardia con quel che accade nello stretto di Taiwan e nel Mar Cinese Meridionale con le Filippine. In particolare, dubbi si pongono riguardo al comportamento del futuro possibile presidente in caso di attacco cinese a Taipei, tanto più che in passato Trump ha più volte ribadito la necessità che gli alleati, inclusa l’isola al largo della Cina, contribuiscano maggiormente alla loro difesa, e fatto balenare l’idea che un intervento militare americano a supporto non debba essere dato affatto per scontato. Rimane perciò cruciale l’interrogativo su quale politica il tycoon saprà impostare con i tradizionali partners, sia con quelli asiatici in funzione anti-cinese, a cominciare da India, Giappone e Corea del Sud, sia con gli stati europei, nel contesto delle relazioni economiche e del contenimento della Russia. La prima volta furono tweet incendiari e rapporti complicati, ma nella squadra di Trump dovrebbero essere consapevoli che per fronteggiare adeguatamente le minacce e le sfide globali, gli USA non possono fare a meno di coinvolgere i paesi amici, in un’ottica di efficiente divisione del lavoro. Certamente, le trattative commerciali tornerebbero a essere sotto pressione, e i governi dei paesi Nato sarebbero ruvidamente spinti ad incrementare le spese militari, magari sotto la minaccia di “lasciar fare a Putin quel che vuole con loro”, come affermato dal candidato repubblicano alcuni mesi fa.
Sarebbe senza dubbio meno traumatica una transizione di poteri tra Biden e la sua attuale vice-presidente, Kamala Harris. La ex senatrice della California si muoverebbe nel mondo in sostanziale continuità con l’operato dell’attuale amministrazione, alla cui definizione ha lei stessa contribuito, pur non senza imprimere rettifiche in linea con la sua visione del mondo. La candidata democratica continuerebbe pertanto a dirigere la superpotenza seguendo i principi del multilateralismo e del dialogo costruttivo e cordiale con gli alleati, allo scopo di tutelare l’ordine internazionale basato sulle regole, tenuto in alta considerazione a maggior ragione da lei, che detiene una formazione di tipo giuridico. Rispetto al suo predecessore verrebbe probabilmente meno un certo grado di retorica riguardo la contrapposizione tra democrazie e sistemi autoritari, essendo la Harris convinta che gli USA si debbano impegnare nel dialogo con tutti, sfuggendo al rischio di manicheismo viziato da moralismo e ipocrisia in cui poteva incorrere la visione di Biden. Kamala Harris è cresciuta professionalmente nel mondo post guerra fredda, negli anni del wilsonismo trionfante in un ambiente iperprogressista, e in lei, come ha scritto Ian Bremmer sul Corriere della Sera, sono più presenti la disillusione verso i vecchi ideali e la consapevolezza dei limiti della democrazia nel paese, che la fede nell’eccezionalismo americano. Dubbi potrebbero essere sollevati sulla sua esperienza in politica estera, praticamente nulla fino a quattro anni fa, ma il ruolo di vice-presidente l’ha fatta prendere contatto con tutti i dossier di politica internazionale, e lei stessa ha preso parte alle riunioni di sicurezza nella sala ovale e agli incontri con i capi di stato stranieri alla Casa Bianca. La pressochè totale continuità con la strategia della presidenza Biden sarebbe la cifra del suo approccio alla Cina, come ha recentemente potuto assicurare il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, nel suo viaggio a Pechino. La candidata democratica continuerebbe a mantenere il dialogo sui temi economici e sui grandi problemi globali, quali il clima e il rischio epidemie, ma ribadirebbe le misure drastiche in vigore su tutte le questioni concernenti la sicurezza, inclusi i divieti alle esportazioni di tecnologie avanzate. Rispetto a Trump, punterebbe al contenimento di Pechino cercando maggiormente di valorizzare i sistemi di alleanze, piuttosto che con i dazi e la retorica aggressiva. A tal proposito, l’attuale vice-presidente ha effettuato durante il suo mandato diversi viaggi nella regione Asia-Pacifico, dove ha potuto instaurare un buon rapporto con le leadership locali. Un analogo approccio costruttivo, Kamala Harris lo avrebbe con i partner europei, i quali sarebbero senza alcun dubbio più felici di avere a che fare con lei che con Trump, salvo forse qualche eccezione. Con lei alla Casa Bianca sarebbe certamente più facile per l’Unione Europea portare avanti il dialogo in materia di cooperazione commerciale e finanziaria, e ancor più in tema di lotta al cambiamento climatico, che invece, con un’eventuale vittoria del candidato repubblicano, rischierebbero di entrare pericolosamente in crisi.
Anche Kamala Harris, in caso venga eletta presidente, sarà però attesa al varco su come intenderà impostare il ruolo degli USA nelle due guerre in corso. L’attuale numero due dell’amministrazione Biden continuerebbe a sostenere Kiev, ribadendo il principio dell’inaccettabilità dell’invasione russa. Sebbene la diplomazia americana, anche con lei alla Casa Bianca, cercherebbe molto probabilmente di arrivare ad una cessazione delle ostilità, la Harris sembrerebbe non aver intenzione di avviare trattative con Putin alle spalle del governo ucraino. I problemi maggiori, in tal caso, saranno quelli di riuscire a sostenere efficacemente Kiev, rifornendola di ingente equipaggiamento militare, e metterla in condizione di poterlo utilizzare al meglio delle proprie possibilità, senza troppi caveat. Non sarebbe un compito facile, ancor meno di fronte ad un Congresso in mano ai Repubblicani, anche solo in una camera, come è stato negli ultimi due anni, ed estremamente ostile allo stanziamento di fondi per sostenere l’Ucraina. Se in merito a Cina e Russia la politica di Kamala Harris non si distanzierebbe particolarmente dalla presidenza di Joe Biden, una maggior discontinuità si riscontrerebbe, verosimilmente, sullo scenario mediorientale, nel quale verrebbero prese in più elevata considerazione le voci critiche verso Israele all’interno della società americana, e anche alla stessa amministrazione democratica. Pur continuando a ribadire il sacro principio del diritto dello stato ebraico alla propria difesa, e a condannare le azioni dell’Iran e dei suoi alleati nella regione, la candidata californiana ha fatto capire che sarebbe più risoluta dell’attuale presidente nel pretendere da Gerusalemme un più alto grado di attenzione alle sorti dei cittadini palestinesi, nel corso delle sue operazioni belliche. Una nuova presidenza democratica si impegnerebbe con ogni probabilità alla ripresa del processo dei c.d. Accordi di Abramo, soprattutto ai fini del coinvolgimento dell’Arabia Saudita, ma non è da escludersi anche un approccio più morbido anche con l’Iran, sulla scia del JPCOA di obamiana memoria, in caso Teheran accettasse di ridurre il volume di attività dei suoi proxy, oltre che di mettere in ghiaccio il proprio programma nucleare. Il Medio Oriente è la vera spina nel fianco della politica estera del Partito Democratico, preso in mezzo tra la tradizionale vicinanza alla comunità ebraica americana, particolarmente influente nella società, quanto generosa nei contributi elettorali, e l’ala radical del partito, i cui attacchi a Israele sono stati nell’ultimo anno estremamente duri. La reazione israeliana dopo il 7 ottobre sembra aver fatto emergere definitivamente la spaccatura generazionale che affligge il partito dell’asinello e la stessa opinione pubblica americana, con le classi più mature portate a difendere lo stato ebraico, e i nati dagli anni ’80 in poi decisamente schierati a favore della causa palestinese, accomunata spesso a battaglie in favore di minoranze o altre teoriche categorie di oppressi dal capitalismo occidentale, tipiche dell’ideologia woke. E’ un fatto, comunque, che il difficile equilibrismo, tentato da Biden sul conflitto israelo-palestinese, stia rischiando di alienare alla sua vice i voti di una parte dell’elettorato ebraico, il cui gradimento verso Trump è in forte crescita, e ancor più quelli delle minoranze arabe e musulmane. Queste ultime, pur enormemente inferiori per numero rispetto a quella ebraica, rischiano infatti di essere decisive in Michigan, swing state che potrebbe essere decisivo per la vittoria finale, dove sono presenti in gran quantità a Detroit, e hanno a lungo minacciato di astenersi dal voto, negandolo quindi a Kamala Harris, nonostante la loro tradizionale preferenza per il Partito Democratico.
Questa, che sta per terminare, è probabilmente la campagna elettorale più povera di contenuti che la storia ricordi, disputata tra una donna catapultata alla nomination democratica nel giro di poche settimane, dopo anni in cui veniva definita deludente e inadatta al ruolo, e un uomo alla soglia degli ottant’anni, che va diffondendo i soliti slogan e miraggi di otto anni fa, a cui però aveva fatto seguito già una presidenza incapace di realizzarli, terminata con l’incredibile e inquietante assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Chiunque dei due sarà a varcare la soglia della Casa Bianca all’inizio del prossimo anno, si troverà in ogni caso a guidare una nazione pericolosamente divisa tra due blocchi contrapposti che si rifiutano ormai di riconoscersi reciprocamente la legittimità di rappresentare il popolo americano. Un’America spaccata su linee di divisione ideologica e, addirittura, si potrebbe dire, esistenziale, in preda agli estremismi contrapposti del movimento Maga e della galassia woke, rischia di condizionare pesantemente la capacità della superpotenza di mostrarsi forte e coesa di fronte a rivali che fremono per sfidarla e minarne il ruolo di egemone globale. Una nazione introvertita, afflitta da comprensibile stanchezza imperiale, disillusa verso le trionfanti prospettive di benessere generalizzato del post ’89 e inferocita con le proprie classi dirigenti dell’ultimo trentennio, che con le loro politiche hanno contribuito a modificare, per molti negativamente, il tessuto produttivo e sociale del paese, difficilmente riuscirà ad impegnarsi con costanza ed efficacia oltre oceano per mantenere gli equilibri internazionali stabiliti dopo il crollo dell’Urss. Gli americani si libererebbero volentieri del fardello dell’egemonia globale, per dedicarsi completamente al loro stessi, ma il problema sta nell’impossibilità di farlo, senza rinunciare alla loro capacità di determinare gli assetti del sistema economico globale e di garantire la loro stessa sicurezza. Come ha scritto Robert Kagan, una superpotenza non può andarsene in pensione. I prossimi anni diranno come gli USA sapranno sciogliere tale dilemma, e, più prosaicamente, quale equilibrio sapranno trovare tra il soddisfacimento delle esigenze primarie della propria popolazione e l’adempimento degli obblighi imposti al numero uno globale. Sempre che a Washington qualcuno non decida di riversare al di fuori dei propri confini quell’onda di rabbia e violenza che si sta accumulando in questi difficili anni. Non va dimenticato che l’America, per quanto ripiegata su se stessa e depressa, mantiene tra i propri cittadini, o almeno in gran parte di essi, un elevato grado di patriottismo e orgoglio nazionale, e sovente, quando viene sfidata, risponde con dimostrazioni di forza soverchiante. Chiedere a Germania, Giappone, Iraq, ma la lista sarebbe lunga. Ad ogni modo, se il mondo va verso un sistema multipolare, come ormai è di moda affermare, con nazioni asiatiche e del sud globale pronte a sfidare Washington, i relativi poli non sarebbero certo di eguale stazza, ma due sarebbero molto più grandi degli altri, e tra i due, uno, protetto da due oceani, spiccherebbe sull’altro per potenza militare, industriale e tecnologica, ancora per molti anni. Donald Trump o Kamala Harris saranno chiamati a governare la superpotenza e impersonare il ruolo dell’uomo, o donna, più potente della Terra. C’è da augurarsi, ai fini del mantenimento dell’ordine internazionale liberale, e nei limiti che comunque sono posti al potere in capo alla carica presidenziale, che sappiano guidare la loro comunità nazionale con saggezza e lungimiranza, riuscendo ad abbassare il livello dello scontro interno e delle tensioni geopolitiche. In altre parole, che si rivelino adeguati al ruolo.
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