America

Fare pace con l’America. Parte prima, la minestra di cime di rapa con le patate

3 Febbraio 2023

“A parte la figlia, nella vita due sole cose non mi avevano ancora deluso: lo stipendio e l’America. Per me l’America è stata l’inflessione di Ed Koch che annuncia, – Ladies and gentlemen, Simon and Garfunkel -, era la prospettiva sul mondo osservato da Asbury Park e la Nissan Altima bordeaux che avevo scelto all’aeroporto di Los Angeles, ancora incredulo per il fatto che Los Angeles esistesse e ci si potesse arrivare per davvero”. A raccontarmi questo per telefono era Girolamo Vago, con quella sua capacità di rendere il senso delle cose, attraverso la lingua disciplinata del matematico che parla al laico, dove ogni idea è seguita da un esempio che le dia una forma condivisibile. “New York, la Death Valley, il Grand Canyon e le Sequoie giganti… Li ho visti in qualche vacanza estiva di quando ancora viaggiavo per ferie. Sono probabilmente il meglio che ci sia in quella nazione o forse ho solo avuto la fortuna di vederle per prime quelle cose, come se fosse naturale partire da lì, dopo quarantacinque anni di briciole d’America, disseminate nell’immaginazione dal cinema, dalla musica e dalla fotografia”. Lo sentivo interrompersi, esitare dall’altra parte del telefono, tra frasi dette d’un fiato, sospensioni e gruppi di parole lente, scelte per non perdersi in argomentazioni laterali, fuorvianti rispetto al discorso principale. “Però sono state conferme che mi avevano convinto che l’America l’avrei amata in qualunque modo, fosse pure dal ciglio di una strada, seduto sul marciapiede ad aspettare un autobus o contemplando il nulla, e soprattutto che l’avrei amata per sempre”. Lo ascoltavo attento e non sapevo cosa dire, anche se a un certo punto qualche frase l’avrei voluta formulare, per non dare l’impressione che stessi facendo altro; Girolamo però mi parlava, pensai, per ricomporre in una qualche forma le proprie intuizioni ed emozioni, non per dialogare. E poi come avrei potuto replicare, se non con affermazioni qualunque circa i momenti della vita, la grande varietà di quel Paese o l’esperienza accumulata dal suo primo incontro con gli USA? Quindi ho preferito tacere, segnalando la mia presenza solo con qualche intercalare di poche sillabe, tipo, “certo…”, “ricordo…”, oppure  “capisco…”. E lui, inconsapevole dei miei pensieri, ha continuato a discorrere preciso, fino a una prima conclusione, “questa volta però sui cigli delle strade ad aspettare gli autobus schiantato dal caldo, ci sono stato a Nashville come a New Orleans; il nulla che pensavo avrei potuto contemplare all’infinito l’ho contemplato in Alabama, Georgia e attraversando il Delta del Mississippi. Ma tutto questo e altro ancora, è restato in silenzio. L’America ha smesso di parlarmi e non capisco ancora se è lei a essere diventata più muta o sono io che ci sento sempre meno. O forse, più semplicemente, è solo che nella vita le cose importanti, come l’amore e la verità, possono arrivare quando smettono di esserlo.”

Era tornato in Italia da due mesi, dopo oltre tre anni di assenza ininterrotta, dovuti alla decisione presa oltre cinque anni prima di usare ogni accredito della pensione, per percorrere un pezzo di strada nel mondo e vivere fino all’assegno successivo. Al mensile sommava i proventi dell’affitto di un bilocale di proprietà nella periferia di Milano e tanto gli bastava, anche perché aveva ridotto al nulla tutte le spese di casa, avendo lasciato alla figlia Lia l’appartamento e l’automobile. Così si era dapprima diretto in direzione del sud dell’America e poi, dopo quasi due anni, ripassando per l’Europa, aveva viaggiato in Asia. Per muoversi approfittava di offerte, basse stagioni e dei collegamenti regionali che esistono tra luoghi che sulla mappa del normale turista viaggiatore nemmeno compaiono. Mentre per alloggiare ricorreva a ciò  che ogni posto consentiva alle sue possibilità. A Hội An dove trascorse tre mesi, per esempio, arrivò partendo dalla Turchia che aveva raggiunto dall’Italia con un volo low cost; lì aveva attraversato in pullman la frontiera con l’Iran, che in quel periodo era ancora accessibile per quella via, e proseguendo era arrivato poi a Kabul tra taxi collettivi e torpedoni, entrando  in Afghanistan quando il Paese ancora non era ricaduto nell’isolamento del potere dei ṭālebān. Di lì con mezzi simili aveva attraversato il Pakistan e poi l’India, il subcontinente dell’inverosimile, che aveva girato per tutto il dannato 2020, per poi procedere verso il Vietnam, cercando nelle opportunità che si presentavano, la possibilità di proseguire ogni volta che pensava ne fosse giunto il tempo. La verità che nei fatti aveva compreso, era che fuori dall’Occidente, sotto la superficie istituzionale delle regole, della rete dei trasporti, degli alloggi e dei luoghi dell’alimentazione visibili alla nostra società, esistono seconde e terze società informali, precarie a cavallo tra le frontiere, che contano miliardi di persone che tutto questo lo improvvisano ogni giorno. Essersi liberato dell’urgenza del tempo e non avvertire nulla come imprescindibile né obbligatorio, al di fuori della sicurezza e di una ragionevole condizione igienica, rendevano Girolamo coi suoi duemila e trecento euro mensili, un privilegiato nella maggior parte del mondo che visitava. E occasionalmente poteva viaggiare anche in paesi ricchi, dove invece erano il low cost, i discount, i servizi pubblici e le periferie ad accoglierlo e sostenerlo.

A fargli decidere di partire, anni prima, è stato constatare che con il ritiro dalla vita lavorativa, l’assenza della routine del fare, dettata da casa,  impegni domestici, scuola e programma scolastico, lo aveva privato di qualsiasi scansione della realtà. Con la pensione aveva cominciato a discendere in un nulla composto di indolente indifferenza e uniformità dei giorni. Si era accorto, per esempio, che se cercava le chiavi di casa, come  capita di fare tastando nelle tasche, solo per assicurarsi che ci fossero, non trovandole immediatamente, veniva distratto dall’incontro con il pacchetto di chewing gum o del portafogli e perdeva di vista l’intento iniziale. I pensieri sfumavano, la motivazione svaniva e qualche altra effimera tentazione prendeva il sopravvento. Poi però improvvisamente si spaventava, perché le chiavi gli sarebbero potute servire, per questo si era messo a cercarle, o così almeno supponeva, quindi l’istinto ad abbandonare l’intento, svelava una deriva del comportamento grave e forse anche pericolosa. Lasciare tutto e cominciare a viaggiare, pensò allora, sarebbe servito anche a restare vigile, perché le piccole routine non avrebbero avuto il tempo di diventare assuefazioni senza significato e le questioni da affrontare sarebbero state sempre fondamentali: dove andare, come arrivarci, mangiare, dormire, come ripartire e così via. Una vita che nei suoi aspetti basilari si sarebbe sciolta e ricomposta continuamente, facendo così appello alla sua presenza e attenzione. Prima ancora di questo però, la principale motivazione era in ciò che aveva capito per caso, quando aveva ormai cinquantaquattro anni, durante il tempo che trascorreva nella Libreria Severa, dove passava le frequenti ore buche tra le lezioni. Era informatissimo su tutti i libri e le novità editoriali, perché le sondava accuratamente, alla ricerca di risposte a domande di intrattenimento quali, “cosa dice di uno scrittore il numero di pagine di un libro?”. “La prima frase di un romanzo deve essere fulminante?”. “Esistono ancora abbastanza prime frasi fulminanti per quanti erano i libri continuamente pubblicati? Oppure le avevano ormai esaurite i grandi scrittori che erano stati i primi a scrivere?”. “Cronaca e immaginazione quanto contano per un racconto o un romanzo?”. E ovviamente non c’era che passarli in rassegna, fare confronti, prendere appunti per costruire libro per libro, frammento per frammento, le risposte che cercava. Naturalmente non li leggeva tutti, ma procedeva a caso dedicando qualche minuto a ogni volume, soppesandolo, cercando di comprenderne la lingua e individuarne l’architettura, leggendo l’incipit e aprendolo casualmente in un paio di punti.  Nel fare questo, una mattina di gennaio di fronte alla frase che conteneva le parole “mentre saliva a Gerusalemme”, sentì sciogliersi intorno alla gola quel nodo ormai cronico di freddo e mancanza di speranza, che attribuiva ai propri fallimenti e all’età ormai troppo avanzata per porre loro rimedio, e gli sembrò bello e sconcertante che la sola evocazione di un luogo attraverso le parole lo rendesse possibile. Fu così che da allora, alle sue ricerche tra i volumi, si aggiunse anche quella di queste evocazioni. Cosa che però complicava moltissimo il compito di assecondare la propria ossessione. Aumentò il numero di ore che passava in libreria, dove prese a trascorrere anche molti pomeriggi, perchè la faccenda non funzionava con le guide e i libri di viaggio, ma solo con le cose vere, cioè frammenti di letteratura, frasi in cui qualcuno faceva qualcosa di appropriato nel luogo giusto e qualcun altro lo aveva raccontato adeguatamente. Cosa poi fosse giusto, appropriato o adeguato a evocare in Girolamo la speranza, non era riuscito a capirlo a priori nemmeno lui, anche perché in seguito a quella scoperta, le poche volte che accadde ancora, coincisero con i posti più disparati, dove le umane faccende narrate erano le più varie. Per cui, per esempio, dopo “salire a Gerusalemme” era accaduto con, sostare in attesa sulla Scala di Camondo, descrivere due anziani nel giardino pubblico di Trieste, percorrere in automobile Città del Messico, andare a Bucarest per un funerale in dicembre, telegrafare da Macondo durante la pioggia e poche  altre. Raggiunti gli anni della pensione, gli era quindi sembrato sensato trasferire questa pratica dall’esplorazione letteraria all’azione, intraprendendo una vita itinerante per verificare nella realtà se questi luoghi della speranza esistessero davvero. Una domanda che smise di porsi dal primo viaggio perché andare fu da subito tutta un’altra cosa, piena di abbandono e perdizione. E più incline all’approssimazione che alle categorie assolute, nacque in lui il sospetto che si stesse muovendo verso quell’asintoto che è la libertà.

Negli USA, mi stava raccontando quella mattina al telefono, era tornato per un caso fortuito. Il biglietto gli era stato offerto a maggio di quest’anno dalla famiglia di un diplomatico Vietnamita prossima a spostarsi al seguito del padre, assegnato al Consolato di Houston. Gli avevano chiesto di dare al figlio ripetizioni quotidiane di matematica e aiutarlo, una volta arrivati, a prepararsi per l’ammissione a una università americana. “Un compito facile, che avevo assolto alla fine di luglio, anche perché quel ragazzo aveva talento ed era stato educato col crudele rigore di cui sono capaci solo in Asia”. Li aveva quindi lasciati e deciso di approfittare delle circostanze per visitare prima il Delta del Mississippi, poi il Sud della nazione, da New Orleans fino all’Atlantico.

Era passata una buona mezz’ora dall’inizio di quella telefona quando Girolamo mi disse, “senti Gerineldo, so che sono stato io a chiamare, ma mi pare di perdere vita a parlarci così, al telefono, anche perchè da che sono partito è solo così che parlo con le mie persone. Ora però sono a Milano. Perché non mangiamo insieme una sera che sei lì da solo e ti fai una delle tue cose?”. La naturalezza di quell’uscita mi illuminò inaspettatamente lo spirito, “oramai più nessuno si invita da sé”, constatai in silenzio, e quando qualcuno viene invitato, è sempre ossessionato dal dovere di ricambiare. “Certo”, ho replicato senza esitazione, “ti aspetto questa sera stessa, e so anche cosa fare da mangiare, visto che è quello che sto già preparando”. Senza obiettare, né chiedere cosa fosse quanto stavo cucinando, Girolamo ha solo precisato, “se ci riesci devi fare due cose per me, farmi tornare in Italia e farmi fare pace con l’America. Vedi tu come, ma non ce n’è come l’odore di una cucina e il sapore in bocca per fare certi miracoli”. L’aveva detto con consapevole ironia, e ora ero io a ridacchiare apertamente per questa fiducia un po’ eccessiva nel potere della cucina, “la prima parte è facile, per la seconda dovrei davvero pensarci. E’ gennaio, fa freddo, la stagione offre poco: in Italia ti riporto con una minestra di patate con le foglie di cime di rapa…”. “Foglie-di-cime-di-rapa”, ha scandito lui a ruota, “vedi che sei la persona giusta? Sono distinzioni speciali, che riesco a sentire solo parlando con te”. “Non c’è niente di speciale”, ho replicato, “sono quelle che vendono a Milano, nei supermercati. Le cime prevedono la presenza di cime, che qui non si trovano quasi mai, se non cercandole bene dagli ambulanti nei mercati. Ciò che solitamente viene venduto sono le foglie, indicate come cime. Per me è ancora un mistero constatare quanto poco del meglio arrivi a Milano”. “Va bene, va bene!”, ha concluso lui con una nota di allegria, “le mangerò, non capirò la differenza, perchè da milanese vero, saranno quelle che ho sempre conosciuto e intanto se vorrai, ti racconterò del mio dissidio, dopo questo viaggio attraverso il Delta del Mississippi e poi verso Ovest fino all’Atlantico”.

Minestra di cime di rapa con le patate

E’ invernale, è calda, ma si può mangiare anche fredda, e si presta alle cene progressive, quando si mettono lì le robe e poi un po’ per volta si mangia. Può essere conservata fino a tre giorni in frigo. Non la surgelo mai perché soprattutto le patate perdono consistenza, ma se necessario non ne soffre eccessivamente, poiché sono comunque già molto cotte. Minestre e zuppe fatte da me non sono mai particolarmente liquide, quindi il termine può apparire improprio. Essendo però una cosa che per quanto densa, accade per combinazione di acqua e pochi ingredienti, penso che minestra sia l’approssimazione migliore.

Ingredienti.  Per 4 persone. 500/700g di rape già pulite; 500/700g di patate, un peperoncino piccante, oppure un po’ di peperoncino macinato, due spicchi di aglio, olio extra vergine di oliva e sale.

Procedimento. Taglio le patate a cubetti non eccessivamente grandi. In una casseruola, meglio se col coperchio pesante, faccio imbiondire l’aglio e poi aggiungo il peperoncino e dopo un minuto le patate che mescolo per un altro minuto. Quindi aggiungo acqua calda fino a ricoprire le patate a filo, copro e faccio cuocere. Dopo circa un quarto d’ora quando sono cotte e cominciato a sfaldarsi sui bordi aggiungo le cime, le quali oltre che pulite, dovranno essere tagliate in pezzi della lunghezza di cinque centimetri al massimo. Chiudo col coperchio pesante, faccio andare per circa cinque minuti, quindi mescolo anche per verificare che l’acqua, che deve essere sempre poca, ma ci deve essere, non sia completamente evaporata. In questo caso l’aggiungo. Reiterando queste attenzioni ogni cinque minuti, attendo la completa cottura delle rape, regolo di sale e la considero pronta.

(Segue su Gli Stati Generali)

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