America
Facebook, Cambridge Analytica e il capitalismo della sorveglianza
Sull’onda dello scandalo Cambridge Analytica che ha recentemente travolto Facebook, centinaia di milioni di utenti della piattaforma si sono chiesti quanto davvero l’azienda di Menlo Park sappia di noi e delle nostre abitudini digitali. Molto, ma questo già lo sapevamo. L’azienda di Zuckerberg raccoglie continuamente dati dai post che pubblichiamo, i nostri “mi piace”, le nostre foto e addirittura quello che iniziamo a scrivere e cancelliamo senza pubblicare. Facebook estrapola dati rilevanti su di noi anche dai nostri amici e attraverso questi “blocchi” di informazioni può dedurre, tra le altre cose, il nostro ceto sociale, il nostro orientamento sessuale, le nostre convinzioni politiche, le nostre preferenze da consumatori e molti altri tratti delle nostre personalità. Tutto questo, occorre ribadirlo, anche se non abbiamo mai completato in prima persona uno dei test della personalità sviluppato da Cambridge Analytica.
Ma per ogni articolo, editoriale, monologo-turpiloquio sul comportamento inquietante e scorretto di stalker dell’azienda di Menlo Park (spesso pubblicato incoerentemente su Facebook stesso) migliaia di altre aziende – della Silicon Valley e non – stanno tirando un sospiro di sollievo collettivo. Perché sia chiaro: Facebook è si uno dei più grandi players in questo spazio ma ci sono migliaia di altre società che ci spiano e che raccolgono i nostri dati a nostra insaputa per trarne un profitto.
Shoshana Zuboff, professore della Harvard Business School, lo chiama “capitalismo della sorveglianza “.
Nell’era del “capitalismo della sorveglianza” aziende come Facebook e Google (ma anche Uber, Snapchat, Twitter e moltissime altre poco conosciute al grande pubblico) offrono servizi gratuiti in cambio dei nostri dati. La sorveglianza di Google, per esempio, è sorprendentemente intima e raggiunge livelli estremi perchè, riflettiamoci un attimo, non mentiamo mai al nostro motore di ricerca preferito. I nostri interessi e le nostre curiosità, le speranze e le paure, i desideri, le inclinazioni sessuali, sono tutti freddi dati, raccolti, salvati e poi rivenduti dal colosso di Mountain View. Aggiungete a tutto ciò ovviamente i siti web che visitiamo e che Google traccia attraverso la sua rete pubblicitaria, i nostri account di posta Gmail, i nostri spostamenti seguiti passo passo da Google Maps e le richieste rivolte all’assistente vocale Google Home, dalla scorsa settimana disponibile anche in Italia.
Ci sono tra i 2.500 e i 4.000 broker di dati negli Stati Uniti la cui attività consiste essenzialmente nell’acquistare e rivendere i nostri dati personali ad aziende disposte a comprarli.
Il “capitalismo della sorveglianza” permea la maggior parte dei servizi solo all’apparenza gratuiti.
Il suo obiettivo è la manipolazione psicologica, sotto forma di pubblicità personalizzata e finalizzata a persuaderci a comprare un prodotto o, decisamente assai più pericoloso, ad alterare le dinamiche decisionali in sede di voto (si vedano il voto Brexit e le elezioni presidenziali americane del 2016). E mentre la manipolazione individualizzata dei profili Facebook esposta nel caso di Cambridge Analytica sembra aberrante, in realtà non è diversa da ciò che la maggioranza delle aziende che operano nel mondo digitale fa quotidianamente con i nostri dati.
Niente di tutto ciò è nuovo, sia ben chiaro.
Il “capitalismo della sorveglianza” è profondamente radicato nella nostra società sempre più informatizzata e se venisse alla luce la vera portata del controllo tentacolare che molte aziende che operano nello spazio digitale hanno sui nostri dati, ci sarebbero ampie richieste di nuovi limiti e di regole. Ma poiché questo settore può operare ancora in gran parte in segreto e solo occasionalmente viene esposto dopo una violazione dei dati o un rapporto investigativo, rimaniamo per lo più all’oscuro delle sue dinamiche intrinseche.
Nel 2016, l’Unione Europea ha approvato il “Regolamento Generale sulla protezione dei dati”, o GDPR. Il regolamento impone, tra le altre cose, che i dati personali dei cittadini dell’UE possano essere raccolti e salvati solo per “scopi specifici, espliciti e legittimi” e solo con il consenso esplicito degli utenti stessi. Il consenso, per intenderci, non può essere sepolto nei termini e nelle condizioni d’uso che nessuno, siamo intellettualmente onesti, legge.
Il primo passo è ovviamente la trasparenza. Noi fruitori, consumatori, investitori, il mercato stesso (inclusa Wall Street naturalmente), possiamo infatti fare pressione affinchè il controllo sui nostri dati personali si allenti costringendo l’industria intera a uscire dall’ombra e a rispettare un quadro normativo di regole ferree. Chi ha i nostri dati? Che dati sono? Che cosa ci stanno facendo? A chi vengono venduti? Come vengono protetti?
Il “capitalismo della sorveglianza” ha operato senza restrizioni per troppo tempo ed i progressi nell’analisi del “big data” e dell’intelligenza artificiale renderanno le applicazioni di domani molto più inquietanti e invasive di quelle odierne. La regolamentazione, appare evidente, è l’unica risposta per frenarne l’avanzata selvaggia.
Nel frattempo ci pare evidente che l’avventura politica del fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, mai ufficialmente iniziata ma certamente discussa e ritenuta imminente qui negli Stati Uniti, possa attendere tempi migliori.
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