America
Trump abbandonato dai repubblicani: e se per salvarsi aprisse a sinistra?
La recente bocciatura alla Camera della proposta di riforma sanitaria avanzata dai repubblicani ha aperto una crisi politica non di poco conto. Non soltanto perché lo smacco riguarda uno dei cavalli di battaglia di quello che è stato il Grand Old Party negli ultimi sette anni: il picconamento dell’Obamacare. Ma anche – e soprattutto – perché il boicottaggio principale è sorto in seno alle stesse file repubblicane: sono stati infatti i deputati radicali del Freedom Caucus a far mancare i numeri dell’approvazione, portando così la proposta di legge al naufragio.
A ben vedere, non si tratta di una situazione nuova per l’elefantino. Da anni, soprattutto alla Camera, il partito risulta caratterizzato da una guerra intestina tra l’establishment e le ali oltranziste più legate al Tea Party. Una guerra costante che, nell’autunno del 2015, portò alle dimissioni dello Speaker della Camera, John Boehner, sostituito poi da Paul Ryan. E proprio Paul Ryan risulta oggi il principale sconfitto per la bocciatura della riforma sanitaria. Non solo infatti era stato l’ideatore e il principale promotore del provvedimento. Ma, dato il suo ruolo, proprio a lui spettava la responsabilità maggiore per arrivare a un voto favorevole. Con questo fallimento, Ryan si è mostrato fondamentalmente incapace di tenere unito il partito. E i malumori sul suo operato iniziano a serpeggiare sempre più insistentemente. I mugugni sono molti. E qualcuno – a mezza bocca – comincia già a ventilare ipotesi di dimissioni. Insomma, l’ombra di Boehner torna a farsi sentire. E in questo momento la posizione di Ryan si sta facendo più debole che mai.
E Trump? La responsabilità del fallimento della riforma da parte sua è limitata. Ma non certo assente. Innanzitutto perché comunque il neo presidente – seppure con un po’ di ritardo – aveva dato pieno appoggio a quel disegno di legge. In secondo luogo, poi, per giorni si era personalmente speso in trattative serratissime per arrivare a un accordo tra le correnti belligeranti in seno al Partito Repubblicano. Anche sotto un profilo di immagine quindi, la figura – da lui spesso enfatizzata – di abilissimo negoziatore esce non poco azzoppata da questa burrascosa vicenda. Perché, al di là delle responsabilità oggettive, spesso è il percepito quello che conta. E l’attuale percepito di Trump ci racconta di un presidente che non sembra avere la più pallida idea di come governare una nazione complessa quale è l’America. Trump questo l’ha capito. Ma la domanda centrale resta una soltanto: come pensa di correre concretamente ai ripari?
Per il momento il futuro non appare troppo chiaro. All’interno dell’elefantino la situazione è a dir poco tumultuosa. Qualche deputato repubblicano vorrebbe ritornare sulla riforma sanitaria ma pare che il neo presidente non ne abbia la minima intenzione: ha già detto di considerare la questione un capitolo chiuso, che l’Obamacare imploderà da sé e che vuole adesso occuparsi della riforma fiscale. Un altro punto delicatissimo: per quanto i dettagli non siano ancora stati resi noti, il magnate vorrebbe avanzare una proposta vertente su una radicale defiscalizzazione. Ma i nodi non sono pochi. Innanzitutto, non è ancora chiaro come Trump potrà coprire una simile politica: al netto di tutti i difetti possibili, la riforma sanitaria targata Ryan permetteva un risparmio pubblico di 337 miliardi di dollari: un risparmio che adesso è saltato. Inoltre, è pur vero che nella proposta di budget avanzata qualche settimana fa dal neo presidente siano previsti numerosi tagli a vari dicasteri particolarmente dispendiosi. Ma i malevoli fanno notare che, se non è riuscito a far passare la riforma sanitaria, non si capisce per quale ragione dovrebbe essere in grado di far approvare la sua proposta di budget. Tanto più che l’attuale rallentamento di Wall Street pare principalmente legato ai dubbi sull’effettiva capacità che il neo presidente avrebbe di governare. Oltre che di gestire le relazioni con i rami del legislativo.
Trump appare accerchiato. I rapporti con buona parte della magistratura sono tesissimi. L’intelligence non lo sopporta. Anche con l’FBI non corre buon sangue. Al Congresso, poi, deve fronteggiare una fortissima opposizione interna. Non solo alla Camera, dove – come abbiamo visto – i libertari radicali portano avanti battaglie di principio spesso autolesioniste. Ma soprattutto al Senato, dove un manipolo di repubblicani frondisti è pronto a tutto pur di farlo fuori. Tra l’altro, le ipotesi di impeachment non fanno che sprecarsi: per ora una simile eventualità è fantapolitica. Ma – visto il clima vendicativo che si respira al Congresso – l’ipotesi non è del tutto peregrina. La situazione è poco piacevole. E Trump rischia ogni giorno di più di trasformarsi in un’anatra zoppa (posto che non lo sia già). E allora la domanda è: ma c’è una possibilità di rompere questo accerchiamento? Forse sì. Ed è un’ipotesi paradossale.
E se Trump aprisse ai democratici? Un’assurdità? Pensiamoci un attimo e cerchiamo di vedere la cosa sotto più punti di vista. Innanzitutto, facciamo una considerazione banalmente parlamentare: la spaccatura tra establishment e Tea Party in seno all’elefantino è fondamentalmente insanabile. Se Trump non vuole rimanere ostaggio dei libertari radicali, deve trovare nuovi numeri. E nuovi numeri non può che trovarli nel campo avverso. In secondo luogo, guardiamo all’aspetto più squisitamente politico-ideologico. Si dirà: ma che cosa c’entra Trump con il programma dei democratici? Se osserviamo bene, qualcosa c’entra. Il miliardario è spesso stato considerato dal suo stesso partito come un repubblicano fasullo, non in linea con gli autentici valori del Grand Old Party. Soprattutto sulle tematiche del lavoro, Trump è molto più vicino a Bernie Sanders di quanto non possa a prima vista apparire. Sulla questione della Corte Suprema, poi, parrebbe che qualche senatore democratico di area moderata possa decidere di votare a favore del giudice conservatore Neil Gorsuch, nominato dallo stesso Trump. Singoli punti di convergenza non sarebbero allora impossibili da trovare. Infine, guardiamo alla Storia. Negli anni ’80, Ronald Reagan fu in grado di portare avanti alcune sue posizioni in politica estera, grazie all’appoggio – più o meno tacito – dello stesso Partito Democratico, in quegli anni guidato alla Camera da Tip O’Neill, che intratteneva un rapporto di amore-odio con lo stesso Reagan. Si tratta di un precedente importante, che Trump non sembra affatto ignorare. Come riporta Politico infatti, il neo presidente starebbe cercando proprio in queste ore un disgelo con Chuck Schumer, leader della Minoranza al Senato. Un caso? Difficile da credersi.
Ma in definitiva: un’apertura a sinistra è realmente fattibile? Di certo non è semplice. Al di là delle divergenze politiche, il Partito Democratico in questo momento vede nell’opposizione a Trump l’unico fattore coesivo nella sua attuale lotta intestina tra moderati e radicali. Ciononostante, come abbiamo visto, un disgelo non è impossibile. Magari non un disgelo costante ma – per così dire – “saltuario”. Perché alla fine è proprio questo il punto principale: per la sua natura politica ondivaga e fuori dagli schemi, se vuole effettivamente combinare qualcosa, Trump dovrà affidarsi a maggioranze variabili, senza preclusioni o preconcetti. In una simile ottica, il magnate sa perfettamente che un ponte a sinistra deve in qualche modo gettarlo: cercando i punti in comune, laddove ci siano. Difficile? Certamente. Ma se vuole rompere l’accerchiamento in cui è piombato, questa è l’unica strada percorribile. Trump sembrerebbe averlo capito. Il problema è che potrebbe essere già tardi.
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