America

E se Paul Ryan si dimettesse?

4 Novembre 2016

Nel caos generale della campagna per le presidenziali statunitensi, ecco che spunta un’ipotesi abbastanza inquietante. Secondo i beninformati, lo Speaker della Camera, Paul Ryan, potrebbe decidere di dimettersi dopo l’ufficializzazione dei risultati elettorali: una possibilità riportata – tra gli altri – dalla testata online The Hill. Qualora l’eventualità dovesse concretizzarsi, presenterebbe delle implicazioni non di poco conto. E, a ben vedere, non risulta neppure del tutto escludibile, per quanto debbano essere considerati alcuni fattori decisivi.

Il prossimo 8 novembre non si voterà difatti soltanto per il successore di Barack Obama alla Casa Bianca, ma anche per il rinnovo totale della Camera e di un terzo del Senato. Ora, secondo i sondaggi, è abbastanza probabile che il Partito Repubblicano riesca a mantenere la maggioranza nella camera bassa, nonostante si preveda una forte riduzione del numero di seggi in suo possesso. A questo si aggiunga che, dagli anni ’50, la Camera cambi maggioranza esclusivamente in occasione delle elezioni di medio termine e non quindi negli anni delle presidenziali.

Ciononostante, una conferma di Ryan a Speaker non sarebbe automatica. Il prevedibile ridimensionamento del numero di deputati repubblicani gli renderebbe infatti più difficile raggiungere il quorum di 218 voti necessario per essere riconfermato. Anche perché la nuova composizione repubblicana continuerebbe parzialmente ad essere costituita da rappresentanti appartenenti al Freedom Caucus: un’organizzazione di deputati radicali, vicini al Tea Party e storici nemici dell’establishment. Gli stessi che hanno avuto anni di rapporti tortuosi col precedente Speaker, John Boehner: costretto fondamentalmente da loro alle dimissioni un anno fa. Dopo una girandola di ipotesi e un braccio di ferro intestino al partito, fu scelto proprio Ryan come successore: cattolico, conservatore, ultraliberista,  sembrava il profilo migliore per cercare di riunire moderati e radicali in seno a un GOP sempre più tendente alla guerra civile. Vicino agli ambienti del Tea Party e candidato alla vicepresidenza nel 2012 a fianco del centrista Mitt Romney, si credeva che la sua figura potesse portare pace in un partito spaccato. Eppure, la diffidenza dall’area radicale nei suoi confronti non è mai venuta meno. Il tutto, mentre l’ascesa elettorale di Donald Trump ha reso ancor più delicata la sua posizione, costantemente in bilico tra ambizioni politiche e necessità istituzionali.

Tuttavia il Freedom Caucus non costituirebbe l’unica spina nel fianco dell’attuale Speaker. Anche diversi deputati moderati potrebbero negargli il proprio voto: soprattutto negli Stati meridionali, molti di loro sono infatti sostenuti da un elettorato particolarmente vicino a Trump. Un elettorato che ha mal digerito le continue polemiche succedutesi nei mesi tra il miliardario e lo stesso Ryan. E che vede per questo l’attuale Speaker oggi come il fumo negli occhi.

Inoltre, anche qualora dovesse trovare i numeri per la riconferma, i problemi per Ryan potrebbero comunque persistere. Innanzitutto dovrebbe continuare a mediare nell’estenuante scontro tra moderati e radicali interno al Partito Repubblicano, con il rischio di finire sulla graticola come accadde al suo predecessore. In secondo luogo, un’eventuale vittoria di Trump, potrebbe porlo nell’imbarazzo di una diarchia in seno al GOP: una sorta di riedizione dei contraddittori tira e molla verificatisi tra i due negli ultimi mesi. Una situazione evidentemente scomoda che comprometterebbe forse irreparabilmente le evidenti ambizioni presidenziali nutrite da Ryan per il 2020. In tal senso, è altamente probabile che lo Speaker voglia smarcarsi da ogni possibile frangente sgradevole, evitando di esporsi troppo e scommettendo segretamente nel disastro politico-elettorale del miliardario newyorchese.

Senza poi contare che diversi deputati repubblicani alla Camera sembrerebbe abbiano intenzione di avviare un procedimento di impeachment contro Hillary Clinton, qualora arrivasse alla Casa Bianca. Un procedimento che potrebbe rivelarsi tra l’altro inutile, dal momento che un Senato a eventuale maggioranza democratica molto probabilmente lo affosserebbe. Si tratterebbe comunque di un’ipotesi delicata, che potrebbe mettere in serio imbarazzo un Ryan alla ricerca di caratura moderata e presidenziale. A questo poi si aggiunga il dato storico, visto che l’ultimo Speaker della Camera a guidare una richiesta di impeachment contro un presidente fu Newt Gingrich nel 1998: una figura le cui ambizioni presidenziali sono miserevolmente naufragate nelle primarie repubblicane del 2012. Senza infine dimenticare che l’ultimo Speaker a diventare presidente fu James Polk nel 1845: non esattamente un ottimo auspicio per il giovane e rampante Ryan, che non ha evidentemente alcuna intenzione di affondare nella palude del Congresso.

Eppure, anche qualora avesse seriamente intenzione di dimettersi subito dopo il voto, da Speaker Ryan potrebbe trovarsi davanti a un ultimo scoglio. Non dimentichiamo che, secondo la Costituzione, per arrivare alla Casa Bianca un candidato debba conseguire un quorum di 270 voti elettorali. Nel caso ciò non si verificasse, spetterebbe alla Camera stabilire il vincitore tra i primi tre classificati. Ora, è abbastanza improbabile che una situazione del genere possa aver luogo il prossimo 8 novembre. Tuttavia mai dire mai. Non solo perché – soprattutto se Trump riuscisse a conquistare Ohio e Florida – un pareggio del magnate con Hillary (269 a 269) non sarebbe del tutto escludibile. Ma anche perché, secondo qualche sondaggio, terzi incomodi come Evan McMullin e Gary Johnson risulterebbero competitivi in alcuni Stati (rispettivamente Utah e New Mexico): e qualora riuscissero a conquistare qualche voto elettorale, la frammentazione dei delegati potrebbe portare al mancato raggiungimento del quorum da parte dei contender più forti (come accadde, per esempio, nelle elezioni del 1824, quando fu appunto la Camera a doversi pronunciare). In tal caso, il ruolo di Ryan risulterebbe centrale, in una situazione assolutamente complicata da gestire.

Come che sia, le eventuali dimissioni di Ryan aprirebbero un ulteriore scenario di divisione, in seno a un contesto politico già profondamente spaccato. Chiunque conquisterà la Casa Bianca il prossimo 8 novembre si troverà infatti alle prese con una nazione frantumata. E a questo potrebbe aggiungersi una Camera (prevedibilmente repubblicana) acefala, pronta a ripiombare nel caos delle faide partitiche: anche perché, stando a Politico, i nomi in circolazione per un’eventuale succesione sarebbero già molti. Non certo una bella notizia per un Paese in cui la fiducia nelle istituzioni è ai minimi storici.

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