America
Dove va il Partito Democratico americano dopo Hillary?
Tra i tanti sconvolgimenti che ha determinato la vittoria elettorale di Donald Trump, un’attenzione particolare la merita la situazione interna al Partito Democratico. Dato da quasi tutti i sondaggi come il grande favorito per ritornare alla Casa Bianca, ha subìto un doppio smacco. Non soltanto la dolorosa sconfitta di Hillary Clinton ma anche il fallimento nel riuscire a riconquistare almeno uno dei due rami del legislativo. Alle mid term elections del 2014, i democratici avevano infatti perduto la maggioranza sia alla Camera che al Senato. Stavolta, le rilevazioni sondaggistiche avevano sostenuto che il partito dell’Asino potesse avere delle speranze di riprendersi almeno il Senato: ma così non è stato. In tal senso, i democratici si trovano davanti a una delle peggiori crisi politiche della loro storia. Non solo per aver perso praticamente tutto ma anche perché sono stati sconfitti da uno schieramento diviso, in mano a un leader atipico e – a tratti – impresentabile.
Hillary Clinton, la grande sconfitta, difficilmente riuscirà a riemergere. Non tanto per questioni anagrafiche, quanto per il fatto di aver all’attivo ormai ben due clamorose disfatte (nel 2008 e nel 2016), al netto della potenza politico-finanziaria di cui disponeva. Una figura divisiva, che l’elettorato non ha mai mostrato di amare più di tanto e che ha di fatto spaccato il Partito dell’Asino tra una fazione moderata e una radicale. E d’altronde, nonostante le dichiarazioni di facciata inneggianti all’unità, all’interno dello stesso establishment democratico Hillary non era granché amata. Basti pensare che una parte di esso, alla fine dell’estate del 2015, sperava in una candidatura dell’attuale vicepresidente, Joe Biden: candidatura poi mai concretizzatasi.
Ma è stata comunque la corrente radicale l’irriducibile nemica dell’ex first lady: quei sandersiani che non hanno accettato di appoggiarla e che l’8 novembre o si sono astenuti o hanno votato per Donald Trump, turandosi il naso. In attesa che Chelsea Clinton si candidi al Senato tra due anni, la grande sconfitta resta non solo Hillary (per i suoi scandali e per il mondo che rappresentava) ma anche la ricetta programmatica da lei proposta: quella Third Way clintoniana che un elettorato storicamente democratico come quello della Rust Belt ha visto come il fumo negli occhi, preferendo premiare il radicale protezionismo avanzato da Trump. E adesso, mentre il nome dei Clinton vacilla, si apre un problema di leadership non indifferente. Un problema di leadership che riguarda più settori del Partito Democratico. Una compagine che non è riuscita granché a rinnovarsi e che ha evidentemente scontato un eccessivo scollamento dalla propria tradizionale base elettorale: che l’8 novembre le ha non a caso voltato le spalle. Anche per questo, almeno per ora, Bernie Sanders non sembra essersi propriamente stracciato le vesti per la vittoria di Trump. In questo senso, sono due i fronti caldi di maggiore interesse in seno al partito: due fronti che esemplificano la lotta tra establishment e radicali in corso ormai da mesi.
Il primo fronte è quello dello scontro per l’incarico di leader della minoranza alla Camera. Al momento, il duello si gioca tra Nancy Pelosi e Tim Ryan. Lei ricopre il ruolo ininterrottamente dal 2003, è una delle donne più potenti del Partito Democratico. Cattolica, storicamente vicina alla corrente liberal del partito, ha sempre prestato il proprio sostegno politico a Barack Obama. Ryan, dal canto suo, non ha esattamente i caratteri dell’outsider. Classe 1973, è stato dapprima deputato nel Senato dell’Ohio per poi diventare membro della Camera dei Rappresentanti dal 2003. Inizialmente contrario all’aborto, si è spostato col tempo su posizioni pro-choice. Si è inoltre distinto per le sue critiche all’amministrazione di George Walker Bush sia sul fronte economico che su quello di politica estera. E’ sceso ufficialmente in campo per contendere alla Pelosi il ruolo di leader della minoranza, invocando la necessità di un cambiamento deciso (soprattutto in seguito alla vittoria di Trump). Probabilmente Nancy non se lo aspettava più di tanto, anche perché, dal 2003, solo una volta qualcuno ha cercato di contenderle l’incarico: nel 2010, il democratico centrista Heath Shuler ci provò ma venne sonoramente sconfitto. Lei comunque non ci sta a fare la parte di quella attaccata alla poltrona e controbatte a Ryan, intestandosi il merito di aver riconquistato per i democratici la Camera ai tempi delle mid term elections del 2006. Basterà questo a riconfermarle l’incarico?
L’altro fronte di combattimento riguarda invece la presidenza del Democratic National Committee: una poltrona divenuta particolarmente scomoda proprio in questi ultimissimi mesi di campagna elettorale. L’ex presidente, Debbie Wasserman Schultz, si è dimessa nel luglio scorso, a seguito delle accuse piovutele addosso di aver favorito Hillary Clinton durante le primarie a discapito del rivale Bernie Sanders. Al momento, il candidato più forte ad occupare la carica sembrerebbe Keith Ellison: musulmano, molto vicino all’ala sinistra del partito, è fortemente sostenuto dallo stesso Bernie Sanders. Qualora dovesse essere lui a vincere, la macchina organizzativa democratica abbandonerebbe la sua attuale impostazione moderata e particolarmente vicina all’ideologia clintoniana. Ciononostante, per quanto forte, non è assolutamente scontata una sua vittoria. Non soltanto, perché, in generale Ellison è molto spostato a sinistra. Ma anche per le sue posizioni sul tema del conflitto israeliano-palestinese, che sembra non abbiano riscosso il gradimento di buona parte del mondo ebraico. In terzo luogo, non è ancora chiaro quanti e chi saranno i suoi avversari. Per il momento, sembrerebbe quasi certo scenderà in campo Howard Dean: ex governatore del Vermont, si presentò alle primarie democratiche del 2004. Tutti i sondaggi lo davano come vincitore papabilissimo vista la sua fama tra il popolo di Internet: previsioni sbagliate, dato che venne elettoralmente annientato da John Kerry nel caucus dell’Iowa. Dean comunque non sparì dalla scena politica, rimediando anzi proprio la presidenza del partito dal 2005 al 2009. Altri nomi che circolano sono poi quelli di Joe Biden e dell’ex governatore del Maryland, nonché ex candidato presidenziale, Martin O’ Malley.
Il caos, come si vede, non è poco. Tanto più alla luce del fatto che la maggior parte di questi nomi non possano certo dirsi particolarmente nuovi e freschi. Un problema non di poco conto, per un partito che – dopo il trionfo di Obama nel 2008 – ha commesso l’imperdonabile errore di addormentarsi sugli allori, evitando un ricambio generazionale nei suoi vari rami. In quest’ottica, la sinistra sandersiana può vedere rafforzata la sua posizione interna, evidenziando la necessità di rinnovamento e di rottura con un passato ormai del tutto fallimentare. Per ora la confusione è tanta, soprattutto dopo la batosta presa. E adesso i democratici devono fare di tutto per riprendersi. Con coraggio. Determinazione. E un pizzico di umiltà.
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