America

Donald Trump, un Presidente sopraffatto dalla sua stessa retorica

12 Gennaio 2021

Donald Trump ha probabilmente terminato la carriera politica il 6 gennaio 2021, ma il suo populismo rimane vivo e in splendida forma. Politicamente, il 2020 sarà probabilmente ricordato sia come l’annus horribilis del magnate newyorchese, che come la conferma del declino delle democrazie occidentali. Il mix incendiario tra pandemia e populismo ha infatti creato un corto circuito tra democrazia e leader sovranisti che ha inevitabilmente penalizzato entrambi.

L’establishment democratico appare da anni incapace di fornire risposte alla popolazione, perché la politica rimane assoggettata ai potentati economici. Le leadership populiste hanno sfruttato tale crisi, incarnando la voce del popolo contro le élite. Donald Trump, in particolare, ha solleticato il suo popolo con una retorica incendiaria che parla alla pancia dell’America più furiosa, senza mutare indirizzo economico. I primi tre anni della presidenza Trump hanno difatti realizzato tradizionali politiche conservatrici, come la diminuzione delle tasse per i ricchi e le coccole alle multinazionali dell’high tech.

In politica estera, il Presidente ha continuato il contenimento della Cina avviato da Obama, mentre consolidava l’alleanza con Israele e Arabia Saudita, e additava l’Iran come nemico pubblico numero uno. Il 2020 avrebbe potuto rappresentare l’anno della sua placida rielezione, grazie a un popolo che ne adora le parole, mentre le élite sono confortate dalle politiche fiscali.

Al contrario, il 3 gennaio 2020 Donald Trump è passato dalle parole ai fatti, bombardando il generale iraniano Qasem Soleimani. L’azione di guerra avrebbe potuto avere conseguenze gravi se un mese dopo non fosse scoppiata una pandemia globale che ha piegato prima l’Iran e poi gli Stati Uniti. L’impero americano aveva i mezzi finanziari e militari per porre a freno l’epidemia, ma il Presidente ha preferito una retorica che predicava ottimismo interno, mentre continuava ad accusare Pechino, spesso senza uno straccio di prova.

Il continuo scaricabarile ha irritato i mandarini cinesi molto più rispetto all’azione di contenimento, ai loro occhi fastidiosa ma blanda. Contemporaneamente, il magnate newyorchese ha criticato la scienza ufficiale per rincorrere ogni teoria salvifica, rivelatasi poi inefficace, come l’utilizzo dell’idrossiclorochina.

Al momento dell’esplosione della questione razziale, il Presidente ha sostenuto le milizie armate che avrebbero voluto ripristinare l’ordine sulla pelle dei dimostranti. Nei mesi prima delle elezioni, mentre buona parte della cittadinanza si preparava al voto per corrispondenza, ha depotenziato il sistema postale per poter gridare ai brogli. A seguito della sconfitta, ha continuato a delegittimare gli avversari, insistendo con la frottola della frode elettorale, sapientemente preparata nei mesi precedenti.

La mattina del 6 gennaio, le ossessioni di Trump hanno contribuito alla sconfitta repubblicana alle cruciali elezioni in Georgia, consegnando a Joe Biden due anni di maggioranza democratica nei due rami del Parlamento. La sera dello stesso giorno si è consumato l’inevitabile epilogo di un Presidente che non ha fatto altro che dividere il paese. Dimostrazione di quanto insulti, attacchi e bufale non possono essere considerati strumenti utili a superare la melassa del politicamente corretto, ma elementi destinati a ritorcersi contro gli stessi propinatori.

In questo senso, l’attacco al Congresso non appare un golpe, quanto un episodio di sovversione innescato da una retorica tanto compromessa da viaggiare autonomamente. Le parole e le bufale hanno prevalso sulla realtà, tramutandosi in fatti. Un uomo ha soffiato sul fuoco tanto da essere incapace di fermarsi di fronte al crollo delle stesse istituzioni democratiche che avrebbe dovuto difendere. Per qualche ora, ha preferito sacrificare le istituzioni, anziché perdere la faccia di fronte ai suoi sostenitori.

Messo alle strette dai fatti compiuti, Donald Trump ha infine dovuto cedere, perdendo l’aura mitica che i complottisti come QAnon gli hanno affibbiato, descrivendolo come il generale capace di portare a termine la tempesta che fermerà i crimini dei potenti. L’immagine di Trump appare così compromessa, rimasto in mezzo al guado tra cospirazionisti traditi dalla mancata rivoluzione e un establishment infuriato.

Ma il popolo di esagitati non morirà certo con il suo comandante in capo e sarà determinante a formare il volto futuro dell’America. Joe Biden dovrà svolgere un lavoro apparentemente impossibile per ricucire il tessuto sociale. L’unico espediente per recuperare la solidarietà nazionale potrebbe essere una guerra calda, al prezzo del terrore per il mondo intero.

In definitiva, il declino trumpiano ci insegna che in democrazia le parole contano tantissimo. Chi ha asserito per anni che i democratici sono solo il volto buono dei repubblicani, oggi deve ricredersi. Il sonno dettato da fiumi di parole scellerate, ha generato mostri.

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