America

Donald Trump e il fallimento dei media

28 Febbraio 2016

A cosa serve l’Industria della Grande Informazione se si dimostra incapace di leggere la realtà?

E’ questa la grande domanda che alleggia come un gigantesco spettro sulle primarie in corso negli Stati Uniti.

Nell’Italia del conflitto di interesse, dei giornali governati dalle banche, della carriera in RAI solo tramite tessere di partito, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a un tiro al bersaglio contro i media di casa nostra, accusati di essere parziali, servili, assoggettati ora a questo ora a quel centro di potere economico. Incapaci, insomma, di raccontare la realtà per motivi di mero interesse particolare. Di contro, si sono sempre esaltati i cosiddetti “campioni del giornalismo anglosassone”, a cominciare dalla CNN, il New York Times e poi via via tutti gli altri, descritti come esempio di un’Informazione libera, capace di assolvere a quelle funzioni essenziali cui la stampa è necessariamente preposta in una società democratica.

Però poi, nel luglio 2016, scoppia il fenomeno Donald Trump.

Un candidato esterno al partito Repubblicano, dal profilo assolutamente originale per gli standard della politica americana, che non ha nulla a che spartire con regole e cerimoniali del GOP e che anzi viene apertamente ostacolato e ripudiato dal partito stesso, si piazza in testa a tutti i sondaggi.

Ce ne sarebbe di che stupirsi e provare a capire il perchè. Perché milioni di americani che la mattina comprano le ciambelle da Dunkin Donuts e la sera sono incollati alla TV davanti a Duck Dinasty fanno la fila per vedere dal vivo il miliardario con la pettinatura più improbabile nella storia dell’Unione. Ma invece che cercare di capire, le reazioni della Grande Stampa Americana, bianca e politicamente corretta fino al parossismo, che la mattina si sveglia all’alba per fare yoga, mangia smoothie a mezzogiorno e la sera si guarda un documentario su Netflix, sono unanimi.

“Una farsa collaterale, buona per farsi una risata estiva“, secondo il New York Times.

“Un buffone da non prendere sul serio“, secondo il Washington Post.

“Un joke che sparirà in autunno” secondo la CNN.

E lasciamo pure stare la FOX, la TV dell’establishment repubblicana, che al primo dibattito d’agosto, tramite la giornalista Megyn Kelly, gli disse – chiaramente – di non ritenerlo degno di stare su quel palco.

Tuttavia Trump, da allora, è continuato a salire nei sondaggi, e poi a vincere sul serio. Nel frattempo i candidati che la Grande Stampa Americana indicava come i reali contendenti alla nomination, a cominciare da Jeb Bush, sono spariti uno dopo l’altro oppure si trovano ad inseguire un miracolo elettorale che col passare delle ore risulta sempre più improbabile.

Eppure lo storytelling su Donald Trump, che dagli Stati Uniti si diffonde in tutto il mondo, non è cambiato di una virgola (con l’unica eccezione di NBC). Ancora a gennaio, si parlava di “Trump’s bubble”, la bolla Trump destinata evidentemente ad esplodere quando il gioco si sarebbe fatto serio.

Si è continuato a scrivere che Trump “insulta gli ispanici”, ma ci si è dimenticato di specificare che Trump non insulta gli ispanici in quanto tali, ma insulta gli immigrati clandestini ispanici, quelli che con la sanatoria promessa dall’amministrazione democrat beneficeranno di una Green Card. E ci si scorda di aggiungere che è proprio nell’insultare costoro che Trump incassa il sostegno di buona parte degli immigrati ispanici regolari, che vedono come fumo negli occhi la possibilità che gli ultimi arrivati godano dei benefici che a loro sono costati una vita di sacrifici.

Si diceva che Trump fosse ridicolo quando attaccava la Cina e non tenesse conto delle dinamiche del sistema economico globale, e probabilmente a ragione; ma bisognava allora domandarsi che cosa fosse stato fatto per le decine di migliaia di lavoratori lasciati a casa nell’ultimo decennio come conseguenza della delocalizzazione, gente che ora sbarca il lunario nelle maniere più improbabili (raccontate, per quanto riguarda la Louisiana, dal magnifico documentario “The Other Side” dell’italiano Roberto Minervini) e che sono completamente spariti dal dibattito pubblico.

Insomma, si è continuato a deridere Trump per l’assurdità delle sue risposte ma si è ignorato, o si è fatto finta di ignorare, come Trump fosse l’unico a porre le domande giuste. E il continuo e totale ignorare queste domande da parte dei media ha permesso a Trump di realizzare il paradosso per cui lui, uno degli uomini più ricchi d’America, può presentarsi e raccontarsi come il campione della gente comune, l’unico in grado di rapportarsi e capire i bisogni di tutti gli average Joe d’America.

Sul perché questo sia successo, l’interpretazione è libera. Interesse economico – alla faccia dell’indipendenza? Incapacità, dai loro uffici disegnati da Renzo Piano in pieno centro a Manhattan, di leggere le ansie e le attese dell’America profonda – alla faccia della competenza? O tutte e due?

La domanda iniziale resta. Se l’Industria della Grande Informazione Americana non è riuscita minimamente a prevedere e spiegare il fenomeno politico più incredibile della storia recente, fallendo quindi nel dotare – o nel cercare di dotare – l’opinione pubblica degli anticorpi necessari a contrastare un ciclone populista di dimensioni bibliche, a che cosa serve? Che senso ha? Perché continuare a seguirla?

Domande che nei ristoranti più in di Soho, del Village o dell’Upper West Side in molti dovrebbero farsi.

 

 

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