America

curb your enthusiasm – trattenete l’entusiasmo

22 Febbraio 2016

Per capire quello che sta accadendo dopo la vittoria di Hillary Clinton in Nevada, bisogna partire da quella che solo cinque settimane fa era la situazione nello Stato del Black Desert, dove tutte le estati va in scena il rito pagano del Burning Man

A metà gennaio Hillary era in testa in tutti i sondaggi, con un vantaggio su Bernie Sanders che variava dai 25 punti in quelli commissionati da soggetti a lei più vicini fino ai 20 punti del sondaggio della Fox. Ebbene, cinque settimane dopo, la vittoria su Sanders avviene per circa due punti, e questo nonostante un impegno finanziario messo in campo dal clan Clinton spropositato, se si tiene conto del numero limitato di delegati in palio.

Il Nevada, inoltre, era lo Stato in cui più di ogni altro la vittoria di Hillary appariva segnata. Su un elettorato composto al 50% da cittadini non-bianchi, ancora provato dalla crisi del 2008, era facili immaginare che gli appassionati j’accuse di Sanders contro Wall Street avessero poca presa. Altro che junk-bond: diversamente che a Manhattan, qui lo spauracchio si chiama deportazione, e il sogno non è una carriera in finanza o nel cinema, ma una Green Card e un posto di lavoro nella caffetteria del Casinò o dell’MGM Hotel.

E infatti la Clinton, la cui capacità di connettere con gli strati più deboli della popolazione non è mai stata in discussione, non è andata per il sottile: la sua foto mentre consola una donna latina in lacrime, spaventata all’idea che l’Homeland Security potesse attenzionare i suoi genitori, è stata agitata dai votanti come un santino.

Aggiungiamoci poi, le stesse condizioni di voto: in uno Stato desertico in cui il 25% della popolazione vive isolata dai centri urbani, sulla partita ha inciso la rete logistico-organizzativa dei due candidati. E qui, stante la sproporzione delle forze finanziarie in campo, la Clinton ha avuto campo libero: mentre i volontari di Sanders offrivano strappi  con le proprie auto fino al seggio alle persone che altrimenti avrebbero dovuto guidare almeno un’ora per votare, quelli della Clinton disponevano di una flotta di pullman tipo tour operator.

Una vittoria annunciata, quindi, che non modifica lo scenario di fondo (quanto a delegati, il punteggio ora e’ in perfetta parità, 51 a 51) e che anzi, conferma l’incredibile rimonta messa in atto da Sanders a febbraio. Eppure, una vittoria che fa scrivere al New York Times (ripreso poi dai giornali di mezzo mondo) che secondo alcuni “analisti” – rimasti anonimi – la vittoria del Nevada ha il potere di interrompere il momentum di Sanders e di mettere Hillary su un “un percorso più sicuro per arrivare alla nomination“.

Sembra di rivivere le atmosfere dello scorso ottobre, quando dopo il primo dibattito democratico i grandi media dissero all’unisono che la vittoria di Hillary era stata “sweeping” (“schiacciante”). Quella volta i social esplosero, gridando al complotto contro Sanders (che era apparso ai più come il netto vincitore del confronto) e denunciando il conflitto di interesse dei networks liberal con la Clinton, da cui spesso sono stati finanziati e di cui poi sono diventati finanziatori. Certo, solitamente il NYT è al di sopra di ogni sospetto, ma resta l’impressione che questa generale celebrazione di una vittoria annunciata e tutto sommato trascurabile, abbia come unico intento quello di spezzare l’incantesimo dentro cui Sanders sta vivendo da almeno due settimane. La verità, come al solito, la dirà il Super Martedì del primo marzo.

Mentre non c’e’ stato bisogno del primo marzo per intonare il Goodbye Jeb, e rendersi conto per l’ennesima volta di quanto, nella coscienza nazionale americana, la guerra in Iraq del 2003 rappresenti una pagina di sangue e di dolore ormai alla pari, se non superiore, a quella del Vietnam. Jeb Bush – di gran lunga l’intelligenza politica migliore in una famiglia che però, quanto ad intelligenza, non si può dire brilli – sconta colpe non sue ma del suo cognome, macchiatosi di un’onta che resterà indelebile. E mentre in queste ore il telefono del nuovo candidato ufficiale dell’establishment, il senatore Marco Rubio, starà probabilmente impazzendo, chissà cosa starà passando nella testa di Donald Trump: si è beccato una scomunica papale come non accadeva dai tempi di Filippo il Bello, e invece che vincere per i cinque punti che gli assegnavano i sondaggi, ha vinto di dieci – oltre ad aver fatto balzi in avanti nei sondaggi proveniente dal Nevada e da molti Stati in cui si voterà nel Super Martedì.

Che strani, questi Americani: hanno il vizio di odiare le ingerenze della religione e di considerare la laicità dello Stato un valore non negoziabile. Incredibile, da un orizzonte italiano,  quanto avvenuto a scomunica avvenuta, con gli avversari di Trump – gli stessi Bush e Rubio – che invece di strumentalizzare la vicenda per tentare un recupero al foto-finish, hanno indetto una conferenza stampa per dichiarare che gli Stati Uniti hanno il diritto di gestire la politica sui propri confini “in modo libero e senza subire l’ingerenza di nessuno”.

Can you dig it, Francis? La prossima volta invece che oltre oceano, meglio guardare oltre Tevere: li almeno fanno ancora come vuoi tu.

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