America

Contro gli eccessi di Trump non bastano i Trudeau. Il valore del pragmatismo

29 Gennaio 2017

Mai come in queste ore la distanza siderale tra il profilo politico e l’immagine pubblica del neo Presidente degli Stati Uniti Donald Trump e del Primo Ministro canadese Justin Trudeau è stata evidente e appassionatamente dibattuta. Non è una questione di stile o di banale età anagrafica: nel delicatissimo momento di passaggio in cui l’immobiliarista di New York è riuscito nell’impresa di conquistare la Casa Bianca infrangendo ogni schema e facendo della provocazione la cifra caratteristica del suo stesso porsi sulla scena politica, il carisma del giovane e affascinante Trudeau emerge ancor più come contraltare naturale agli eccessi dell’omologo statunitense. Ma siamo sicuri che sia l’unica alternativa?

La decisione, senza dubbio scellerata e irrazionale, di firmare un ordine esecutivo che blocca il trasferimento negli Stati Uniti dei richiedenti asilo e vieta l’ingresso ai cittadini di alcuni Paesi a maggioranza musulmana è arrivata come un fulmine a ciel sereno, nonostante Trump avesse ampiamente anticipato l’eventualità di misure simili durante i lunghi mesi di campagna elettorale. Una sortita che giunge al termine di una settimana contraddistinta dalla surreale polemica sulla distribuzione dei costi per costruire l’ormai celeberrimo “muro” che dovrebbe impedire i flussi di immigrazione clandestina dal vicino Messico. Alla rozzezza dei tweet del Presidente Trump, 140 caratteri fulminanti e feroci attraverso cui raccontare senza filtri le proprie decisioni e i propri malumori, ha risposto con stile l’osannato leader liberale canadese Trudeau, ribadendo con una fotografia emblematica l’apertura del suo Paese a tutti i rifugiati e rimarcando il valore della diversità come fonte di ricchezza anziché di destabilizzazione.

Scontato l’apprezzamento per il deciso intervento di Trudeau, la cui popolarità, in oltre un anno di mandato, ha assunto caratteri di vera e propria ossessione da rockstar. Figlio di un ex Primo Ministro e talmente fotogenico da aver tentato anche la carriera di attore, il giovane leader ha conquistato fan in tutto il mondo con una serie di decisioni e apparizioni ormai iconiche: l’attenzione maniacale per la diversità dimostrata dalla composizione multietnica del suo Gabinetto, la scelta di farsi ritrarre in situazioni insolite (abbracciato ad alcuni cuccioli di panda, in bilico sulla scrivania in una acrobatica posizione di yoga, impegnato a fare le flessioni assieme ad alcuni veterani), la capacità di comunicare alla comunità internazionale i valori che rendono unico il Canada, in un mix di coolness e idealismo. La “Trudeaumania”, fenomeno ormai consolidato e senza frontiere, non è stato certo scalfito da episodi minori (come la gomitata ad una parlamentare durante un dibattito in Aula, per cui ha chiesto ripetutamente scusa), che difficilmente hanno travalicato i confini canadesi. Per molti in tutto il mondo Trudeau è il politico liberal e sexy che ha accolto personalmente un gruppo di richiedenti asilo siriani all’aeroporto dando loro il benvenuto in Canada. Lo stesso Canada che i media americani, orfani di Obama, hanno iniziato a decantare come una Camelot 2.0 di kennediana memoria e come la nuova patria della libertà (copyright dell’Economist) in un continente in cui la fiaccola degli Stati Uniti sembra aver perso momentaneamente lucentezza.

Scontato dunque che, in un momento in cui prendere le distanze da Trump è diventato un atto quasi dovuto per rimarcare il proprio pedigree democratico, la foto e lo statement di Trudeau siano diventati virali, spingendo molti commentatori nostrani a rivendicare prese di posizione più assertive e “inspirational” anche da parte dei leader europei. In linea con il proprio stile (analizzato minuziosamente da Marco Damilano sull’ultimo numero de L’Espresso) il Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni ha pubblicato un tweet in cui, senza attaccare frontalmente Trump, si fa portavoce di un’Italia “ancorata ai propri valori” di apertura, tolleranza e non discriminazione. Parlare di eccesso di cautela sembra quasi irriguardoso nei confronti di un uomo che, anche nella difficile gestione della crisi legata al sisma in Italia centrale, ha dato ad intendere di non essere particolarmente attratto dalle sirene della retorica. Certo, l’incisività e la determinazione ad esprimere a viso aperto i propri valori sono qualità fondamentali per qualunque leader politico, ma evitare volutamente la postura o la frase acchiappa-like non è per forza sinonimo di arrendevolezza. Il protagonismo di un uomo come Gentiloni si esplica con tutta probabilità “dietro le quinte” ed assume in tal caso le caratteristiche di una silenziosa ma ferrea determinazione alla ricerca dei compromessi e alla definizione di soluzioni efficaci. Non è casuale che gli indici di popolarità dei membri del Governo premino, ad esempio, una figura poco appariscente e di comprovata esperienza come il Ministro degli Interni Marco Minniti, in prima linea nella gestione di un dossier scottante come quello dei flussi migratori e delle minacce terroristiche.

Contrapporre dunque lo stile mediatico e appariscente di Trump e Trudeau ad un approccio più pragmatico e sottotono non è una bestemmia, ma l’interpretazione di atteggiamenti che non sono per forza auto-escludenti. Tra gli altri, è stato l’editorialista della rivista Esquire Stephen Marche a identificare nella propensione a rendere virale tutto ciò che li riguarda il vero punto di contatto tra il palazzinaro diventato presidente e l’aitante canadese. Una capacità che fa ovviamente leva sui social network e sull’abilità nel manovrare a proprio vantaggio le reazioni degli utenti: se il primo ha utilizzato Twitter per parlare direttamente agli elettori con formule dirette e poco elaborate, il secondo è stato in grado di costruirsi un’immagine pubblica talmente inattaccabile da smussare eventuali criticità delle proprie proposte politiche e di facilitarne il recepimento presso il pubblico e i media. Due storie di successo, ma che non devono per forza mettere all’angolo chi non si sente adatto o non vuole far uso di queste tattiche mobilitanti.  L’esempio forse più interessante è quello della Cancelliera tedesca Angela Merkel che, seppur pagando un prezzo altissimo in termini di popolarità e di coesione del proprio blocco politico di riferimento (con l’inevitabile ascesa di un nuovo partito di estrema destra in competizione con i suoi cristiano-democratici), ha saputo mantenersi fedele alla propria decisione di aprire le porte della Germania ai rifugiati provenienti dalla Siria.

Il pragmatismo merkeliano è senza dubbio adatto alle regole del gioco del contesto politico tedesco, ma questo non significa che non sia altrettanto efficace nel porre un freno agli eccessi della narrazione populista di Trump e dei suoi epigoni. In fondo, per il bene di tutti, basta che funzioni.

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