America
Congresso USA, il dilemma di Paul Ryan
E alla fine ha accettato. Dopo settimane di manfrine e dinieghi, il repubblicano Paul Ryan ha acconsentito ad essere eletto come sessantaduesimo Speaker della Camera dei Rappresentanti. Con la sua ascesa, si chiude il periodo convulso apertosi a seguito delle dimissioni di John Boehner: un periodo aspro di conflitti che hanno portato all’improvviso ritiro del suo più papabile successore, Kevin McCarthy, letteralmente abbattuto dall’ostracismo della destra radicale, organizzata alla Camera nel piccolo (ma agguerrito) Freedom Caucus.
Non a caso Ryan ha tentennato a lungo prima di accettare un incarico, ritenuto da molti maledetto. Non soltanto difatti è dai tempi di James Polk che uno Speaker della Camera non riesce più a diventare presidente degli Stati Uniti. Ma, alla luce del presente scontro interno al Partito Repubblicano tra l’establishment e l’ultraconservatorismo, la carica di Speaker è ormai considerata una specie di graticola su cui rosolare, in attesa di essere politicamente silurati sotto il fuoco incrociato delle frange radicali. Lo Speaker viene ormai in altre parole direttamente inteso come emanazione dell’odioso establishment, rivelandosi quindi il bersaglio preferito di destre religiose e Tea Party.
Adesso tocca a Ryan il periglioso compito di guidare alla Camera un partito alle prese con una guerra civile. Giovane, cattolico, liberista e duramente conservatore sui temi etici, fu scelto da Mitt Romney come candidato alla vicepresidenza nel 2012, proprio per cercare di accattivarsi i voti di quelle frange destrorse che giudicavano il mormone troppo blando e centrista.
In virtù di tutto questo, almeno in teoria Ryan sembrerebbe avere le potenzialità per federare un Elefantino spaccato, mediando tra le sue varie (e contrastanti) anime. Un compito tanto più importante, se letto alla luce delle imminenti elezioni presidenziali del 2016: elezioni in cui il GOP non può permettersi di arrivare frantumato, con il rischio di regalare l’ennesima vittoria all’Asinello. E difatti il nuovo Speaker avrebbe promesso al suo partito di garantire processi legislativi inclusivi e condotti alla luce del sole, evitando così le opacità e i segreti della presidenza Boehner.
Sennonché bisognerà poi vedere che cosa Ryan sarà realmente in grado di fare. Anche Boehner, quando fu eletto Speaker, vantava un curriculum conservatore di tutto rispetto (e sotto molti punti sostanzialmente simile a quello di Ryan): ma questo non lo ha preservato dalle critiche dei radicali, che lo hanno costantemente accusato di inciucio col nemico democratico e di eccessiva indulgenza al compromesso.
E – guarda caso – dopo aver de facto ricevuto il sostanziale benestare da parte degli ultraconservatori, Ryan ha cercato di alzare un po’ i toni, dapprima avanzando qualche critica al predecessore e poi attaccando il budget deal (giudicato dai radicali come eccessivamente dispendioso). Sennonché, poco dopo, il nuovo Speaker ha iniziato ad ammorbidirsi, sostenendo comunque la necessità di approvare il nuovo piano di budget. E proprio oggi Politico parla del feeling che ci sarebbe tra Ryan e il presidente Barack Obama, basato su stima e simpatia reciproca. Proprio il genere di notizie che offrono sovente spunto alla destra radicale per intraprendere il suo sport preferito: il tiro al piccione.
Siamo ancora all’inizio. Ma la sensazione è che la tregua armata tra moderati e radicali in seno al GOP possa riesplodere da un momento all’altro. Ryan a questo punto ha davanti a sé due strade: o l’equilibrismo che, cercando di non scontentare nessuno, scontenti tutti. O la mossa energica di garantire – come promesso – processi legislativi chiari: impedendo gli inciuci dell’establishment alla McConnell ma mettendo al contempo le destre davanti alle loro responsabilità, scongiurando così un’ulteriore radicalizzazione del partito.
Qui si giocherà la discriminante. Cadere ingloriosamente nel dimenticatoio della Storia o ambire a qualcosa più in alto del Congresso.
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