America
Chi sceglierà Trump come segretario di Stato?
L’amministrazione Trump sta lentamente prendendo forma. Eppure, dopo più di un mese dalle elezioni, una poltrona fondamentale resta ancora vacante: quella del segretario di Stato. All’inizio, sembrava che la questione si sarebbe risolta in pochi giorni, visto che il nome più papabile era quello dell’ex sindaco di New York, Rudy Giuliani. Grande sostenitore di Trump da mesi, sembrava essersi automaticamente conquistato i galloni per ottenere l’incarico forse più delicato all’interno dell’amministrazione. Ma le cose non sono andate così lisce. Complice un potenziale conflitto di interessi (date le sue attività di lobbista per varie organizzazioni sparpagliate per il mondo), la sua quotazione è scesa rapidamente, aprendo di fatto una lotta sotterranea che sta vedendo protagoniste varie correnti interne al Partito Repubblicano. Improvvisamente è difatti spuntato il nome di Mitt Romney: fatto un po’ inopinato, visto che l’ex governatore del Massachusetts è stato tra i più accaniti avversari di Trump nel corso delle primarie repubblicane. Ciononostante, proprio per questo il miliardario starebbe considerando il nome di Romney: per cercare, cioè, di ricucire gli strappi con la fazione avversa, riportando un po’ di armonia in seno al litigioso partito dell’elefante. Il punto è però che i trumpisti della prima ora non sembrano aver preso granché bene l’ipotesi: in particolare l’ex Speaker della Camera, Newt Gingrich, non ne vorrebbe sapere di vedere Romney come segretario di Stato. Anche per questo, secondo i beninformati, starebbe cercando in ogni modo di sostenere la candidatura di Giuliani.
Tuttavia, per quanto questi siano i nomi di maggior peso, la sfida per il Dipartimento di Stato non si starebbe giocando a due. Anche perché, pur di uscire dallo stallo dello scontro tra Romney e Giuliani, il miliardario potrebbe alla fine puntare su un terzo nome. Svariate sarebbero quindi le figure in lizza. Andiamo dall’ex ambasciatore statunitense all’ONU, John Bolton, all’ex governatore dello Utah, Jon Hunstman, passando per il generale David Petraeus. Altri nomi che circolano sono poi quelli del senatore Bob Corker, del chief executive di Exxon, Rex Tillerson, e dell’ex numero uno di Ford, Alan Mullaly. Addirittura circolerebbe il nome di un democratico destrorso come il senatore Joe Manchin. Una rosa ampia che potrebbe includere ulteriori ipotesi. Fattore, questo, che apre degli scenari piuttosto spinosi. Non tanto perché i nomi in ballo sono oggettivamente molti. Ma soprattutto perché – come ha recentemente ravvisato Politico – queste figure esprimono orientamenti politici e ideologici talvolta profondamente distanti tra loro. Una confusione che potrebbe dirla lunga sull’attuale chiarezza di idee del presidente in pectore in materia di esteri.
Dalla sua discesa in campo, Donald Trump ha proposta una prospettiva di foreign policy in profonda discontinuità col recente passato del Partito Repubblicano. Il magnate ha difatti duramente criticato la politica interventista e aggressiva di matrice neoconservatrice. Ha attaccato l’intervento bellico in Libia del 2011 e la stessa guerra in Iraq, non risparmiando incandescenti accuse alla dinastia Bush, da lui più volte tacciata di essersi rivelata inutilmente guerrafondaia. In tal senso, Trump ha più volte proposto un’idea di distensione nei confronti della Russia di Vladimir Putin, entrando per questo in collisione con la rivale democratica Hillary Clinton. D’altronde, sotto questo aspetto, il miliardario non ha fatto che replicare la strategia elettorale adottata da Barack Obama nel 2008: l’elettorato americano, come allora, è preda di una profonda sindrome del Vietnam, dovuta alla guerra in Iraq. Anche per questo il magnate ha sposato una linea isolazionista, sempre più popolare nella base elettorale statunitense. Il punto sarà allora capire se Trump abbia realmente intenzione di attuare quanto promesso in campagna elettorale. Fattore, questo, che resta un mistero, data la suddetta girandola di nomi in lizza per il Dipartimento di Stato. E difatti le linee non sono troppo omogenee.
Prendiamo la Russia. Se Mitt Romney e – soprattutto – John Bolton hanno spesso usato parole di fuoco contro Vladimir Putin, Rudy Giuliani si attesta su una posizione più ambigua. Bob Corker, dal canto suo, si è speso molto nel sostenere l’Ucraina in funzione anti-russa, mentre Tillerson è generalmente considerato piuttosto morbido verso il Cremlino. D’altronde, non dimentichiamo che – sulla questione russa – la confusione aumenti se consideriamo i nomi scelti per gli altri incarichi chiave in materia di politica estera: il segretario alla Difesa James Mattis è difatti un accanito oppositore di Putin, mentre il National Security Advisor, Michael Flynn, è generalmente considerato un fautore del presidente russo. In tal senso, è difficile capire se il miliardario sarà veramente in grado di perseguire la sua idea di distensione con Mosca.
Una situazione in parte analoga la abbiamo con l’Iran, Stato particolarmente vicino all’orbita russa. Nel corso della campagna elettorale, il miliardario ha generalmente tenuto una posizione sfumata in relazione all’accordo sul nucleare con Teheran, voluto dall’amministrazione Obama. Trump ha costantemente ripetuto di voler rinegoziare l’accordo ma non ha mai esplicitamente affermato di volerlo stracciare. E anche su questo argomento, i vari nomi in lizza per il Dipartimento di Stato, non sembrano pensarla allo stesso modo. Il falco Bolton vuole smantellare l’accordo. Giuliani e Romney si dicono possibilisti in tal senso, mentre Corker (che pure al Congresso lo ha avversato) si dice scettico sul beneficio di una sua eventuale abolizione. Senza poi contare la schiera di coloro che (da Huntsman a Petraeus) non hanno una posizione definita sul tema, preferendo al momento fluttuare tra le onde dell’ambiguità.
Infine abbiamo lo scottante fronte cinese. Notoriamente, Trump non ha mai avuto parole troppo tenere per Pechino, da lui tacciata nel corso della campagna elettorale di essere tra le responsabili della crisi lavorativa statunitense. Per questo, il miliardario ha più volte minacciato di voler avviare una guerra commerciale con la Cina. Senza poi dimenticare l’incidente diplomatico avvenuto la settimana scorsa, quando Trump ha ricevuto la telefonata di congratulazioni della presidentessa di Taiwan. La cosa è stata prontamente interpretata da Pechino come una violazione della politica dell’unica Cina, portata avanti dagli Stati Uniti dal 1979.
Un fatto grave ma non certo casuale, con cui Trump ha voluto evidentemente mostrare i muscoli, per quanto non si capisca al momento quale sia la sua strategia. Nonostante le parole, non soltanto i rapporti di forza non permettono a Washington una eccessiva libertà (visto che gran parte del debito statunitense si trova nelle mani di Pechino). Ma, al di là di questo, non dimentichiamo che Trump si sia sempre scagliato contro i trattati internazionali di libero scambio: a partire dalla Trans Pacific Partnership. Quella Trans Pacific Partnership la cui eventuale abolizione avrebbe come diretto beneficiario proprio la Cina. E alle ambiguità del nuovo presidente, anche qui si aggiungono le linee contraddittorie dei candidati al Dipartimento di Stato. Mitt Romney appare più tendente ad incarnare la figura del falco, mentre Huntsman (che è stato ambasciatore statunitense in Cina) si muove più cautamente, dicendo di temere una guerra commerciale con Pechino. Una posizione condivisa anche da Corker, che paventa ripercussioni negative per l’economia americana. Una linea morbida che Trump potrebbe alla fine condividere, visto anche il recente ritorno in campo di Henry Kissinger. Grande architetto dell’apertura degli Stati Uniti a Mao negli anni ’70, l’ex segretario di Stato di Richard Nixon si sta difatti impegnando in prima persona per arrivare a una mediazione con Xi Jinping dopo l’incidente diplomatico di Taiwan. Senza dimenticare il recente incontro avuto da Kissinger con lo stesso Trump, che avrebbe manifestato una certa consonanza tra i due.
Al di là delle singole questioni, bisognerà allora capire, se il miliardario sceglierà di affidarsi al realismo politico kissingeriano o se – di contro – opterà per un ritorno all’interventismo duro e puro dell’ideologia neoconservatrice. In questo senso, la figura di Kissinger potrebbe giocare ancora un ruolo fondamentale nella politica americana: non soltanto nelle relazioni con la Cina ma anche in quelle con la Russia. L’ascesa di Reagan nel 1980 segnò la conquista del Partito Repubblicano da parte dei neocon e la conseguente defenestrazione della classe dirigente nixoniana che vedeva nello stesso Kissinger uno dei suoi leader. Le cose stanno cambiando nel Grand Old Party? E’ ancora presto per dirlo. La confusione è tanta. E non è ancora detto che Trump abbia scelto che direzione prendere. Per il momento riflette, discute e tratta. Perché si sa: lui è un pragmatico. E – come tutti i pragmatici – è riuscito ad attrarre voti trasversali da parte di elettori stanchi delle manfrine ideologiche e della politica tradizionale. Ma attenzione: perché in politica il pragmatismo deve sempre accompagnarsi a una visione. Altrimenti rischia di restare sterile, grezzo, caotico. E inconcludente.
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