America
C’era una volta l’urlo di Dean. E l’America di Trump
Nel 2004, nella corsa per la candidatura democratica alla Casa Bianca, sembrava esserci un favorito assoluto: Howard Dean. Brillante governatore del Vermont aveva raccolto 40 milioni di dollari in Rete, attraverso il Web, aveva mobilitato schiere di entusiasti attivisti. Sembrava inarrestabile. E tutti pensavano che sarebbe stato lui a sfidare il presidente uscente George W. Bush per governare gli Stati Uniti. Invece, dopo essere finito al terzo posto nei caucuses dell’Iowa, pensò bene di galvanizzare i suoi elettori snocciolando tutto l’elenco degli Stati in cui erano in programma le consultazioni Dem e garantendo che avrebbe trionfato un po’ ovunque prima di concludere con un urlo possente a favor di microfoni e telecamere. Mal gliene incolse. Quell’urlo – ricordo bene vivendo e scrivendo allora da New York – fu l’inizio della sua fine. Uno che urla – benché quell’urlo sembrasse il più classico degli auto-incoraggiamenti in stile calcistico o baskettaro – come potrà guidare il primo Paese al mondo? Cominciarono a chiedersi editorialisti, commentatori, semplici cittadini, avventori della Rete. Vent’anni fa un urlo, un banale urlo, costò a Dean l’investitura democratica: si ritirò, lasciando campo aperto a John Kerry, poi sconfitto da Bush. Era sembrato – per quel grido – un politico poco equilibrato, inopportuno. Fosse stato in gara oggi, probabilmente, quell’urlo lo avrebbe lanciato nell’Empireo. Altro che grida e strepitii abbiamo sentito in questa campagna presidenziale americana. Una delle più misere di sempre, quanto a contenuti, ma specchio reale di quello che in questi venti anni siamo diventati. Tutti. Abituati dai social ad accettare risse verbali, faziosità, falsità, senza battere ciglio. A rispondere e ad attaccare a testa bassa chiunque non la pensi come noi. A considerare l’insulto, l’insolenza come la normalità, anzi il modo comune di rapportarsi. Vent’anni fa una figura come quella di Trump difficilmente avrebbe trovato spazio nell’agone politico. Sarebbe stato considerato – con tutto quello che ha detto e fatto nelle sue campagne elettorali – quantomeno inappropriato. Ora ha vinto, anzi, stravinto. E per la seconda volta. C’erano pochi dubbi sul suo successo – salvo per noi europei che trasformiamo costantemente ‘wishful thinking’ in convinzioni assolute -: ‘The Donald’ non parla alla pancia degli americani come s’usa dire, ‘The Donald’ pensa come una gran parte degli americani. E non si vergogna se quei pensieri un tempo erano inconfessabili. Anzi. E’ lo specchio perfetto di un Paese mai così diviso, cattivo e arrabbiato. Trump è l’America. O quel che è diventata.
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