America
C’era una volta lo ‘Yes, we can’
Una delle ultime cose che mi capitò di seguire come corrispondente dagli Stati Uniti, prima di rientrare in Italia, furono le presidenziali del 2004, quelle che videro fronteggiarsi George W. Bush e John Kerry. Alla convention democratica, a Boston, il discorso inaugurale lo tenne un giovane Barack Obama, fino ad allora conosciuto ma non troppo. Finito il discorso fu chiaro a tutto il mondo democratico che sarebbe stato la ‘next big thing’ della politica americana. Alle primarie del 2008, si trovò di fronte Hillary Clinton e, penso, non ne fu affatto dispiaciuto.
Hillary – per quanto abile, abituata al gioco politico, preparata – non piace troppo all’elettorato. Non riesce ad entrare in sintonia, sopratutto – incredibilmente – con le donne. È percepita distante, poco interessata alla gente comune, rappresentante delle elite. Questo valse, alle primarie del 2008. Quelle che incoronarono Obama. Rischia di valere anche ora.
A prescindere dalle indagini dell’Fbi sul cosiddetto ‘mail-gate’, chiuse senza alcuna incriminazione per la ex First Lady . Donald Trump, che sembrava il concorrente ‘improponibile’, quello più adatto per vincere – senza penare troppo – la corsa alla Casa Bianca, alla fine è riuscito a trascinarla sul suo terreno: quello della rivendicazione becera e qualunquista, con il corollario della peggiore campagna elettorale americana dei tempi moderni. E il voto, ormai in dirittura d’arrivo, rischia di essere davvero impronosticabile. Al di là dei sondaggi.
Chè Trump – entrato dalla Tivvù nelle case degli americani, nel 2004, con il suo ‘The Apprentice’ e il giudizio ‘You’re fired’ divenuto un mantra ‘viralissimo’ – non piace più di tanto all’americano (quanto di più distante da lui si possa immaginare) ma rappresenta, per tutti i cittadini ai margini o che si sentono tali, l’occasione per un ‘schiaffone’ all’establishment.
Persone – che, diversamente da quanto successo in Italia con la fascinazione esercitata dalla figura di Berlusconi – non sognano, nè vogliono essere come lui. Non credono al ‘se ha fatto i soldi per se come imprenditore, sarà capace di stimolare e rilanciare l’economia come presidente’, ma vedono in lui quello che dice ‘io, caro americano, sono il tuo dito medio ben rivolto in faccia al potere’. Per molti una cosa seducente. Più che seducente.
D’altronde il suo plausibile bacino elettorale, quel ‘dito medio’ vorrebbe davvero sventolarlo davanti alle elite che guidano il Paese. E lo vorrebbe fare per quella faglia profonda, generata dalla disuguaglianza sociale – tra super ricchi (di cui per altro Trump fa parte) e ‘resto del mondo’ – in cui è caduta buona parte della ‘classe di mezzo’. Bianca, più o meno scolarizzata. Che pensava di non dover sentire il morso delle difficoltà economiche e finanziarie e che, invece, si è scoperta a doverne fare i conti, nonostante le illusioni di inizio Anni Duemila.
Già, perchè è proprio la ‘middle class’ quella che si era fidata delle seduzioni fatte balenare dal mercato del credito: mutui per la casa concessi a tutti a prescindere dalle garanzie prestate; offerta continua di carte di credito, con tanto di nuove carte emesse per pagare i debiti di quelle precedenti; investimenti, spacciati per garantiti, con il miraggio di crescite a doppia cifra.
Tutto cancellato, in un amen, dal crollo di Lehman Brothers, dalla vicenda dei mutui-subprime. Che hanno lasciato macerie in diverse aree dell’Unione e, soprattutto, una ‘paura diffusa’ di non potercela fare a risalire, seppellendo per sempre l’American Dream’. Di cui, secondo la ‘classe di mezzo’, ha buona colpa la grande finanza, quella che siede a Wall Street. Quella acquartierata nelle stanze dei bottoni di Corporate America e che, agli occhi di questa parte dell’elettorato, non pare troppo distante dalla politica clintoniana.
Quanto basta – stante la tradizionale presenza dei cosiddetti ‘swing state’, gli stati ancora in bilico alla vigilia del voto – per rendere ancora aperta la sfida tra Clinton e Trump a poche ore dal ‘redde rationem’. Che potrebbe risolversi in un testa a testa all’ultimo voto, un po’ come avvenne, nel 2000, tra Gore e Bush. In una elezione, allora, chiusa tra i veleni con il sospetto – fatto balenare dai duellanti – di brogli ed errori. Cose – ipotetici brogli e sospetti – di cui si è già parlato, pure abbondantemente, in questa di campagna elettorale, una delle più brutte di sempre. Se non la più brutta in assoluto.
A ‘sto punto, che bei tempi quelli dello ‘Yes we can’. Tutta un’altra cosa.
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