America

Viaggio al Center for Heterodox Economics di Tulsa, nel cuore del Midwest trumpiano

Siamo a Tulsa, Oklahoma, nel cuore di quel Midwest americano solidamente trumpiano. All’interno del dipartimento di Economia è stato inaugurato un nuovo centro di ricerca, si chiama CHE, Center for Heterodox Economics. Un’occasione per discutere di macroeconomia e lavoro

24 Febbraio 2025

Comincia con una rumorosa dissonanza fuori dal galateo accademico, che rende subito evidente la misura di una sfida parecchio ambiziosa. Siamo a Tulsa, Oklahoma, nel cuore di quel Midwest americano solidamente trumpiano. All’interno del dipartimento di Economia, dal 5 al 9 febbraio si è inaugurato un nuovo centro di ricerca. Si chiama CHE, che sta per Center for Heterodox Economics. “Eterodossa” perché si propone di esplorare nuovi orizzonti teorici attraverso un robusto ritorno ai classici per costruire un paradigma alternativo a quello che da oltre un secolo è dominante in economia. 

A dirigerlo è stata chiamata un’italiana, Clara Mattei, già professoressa di Economia alla New School for Social Research di New York, il cui lavoro ha ricevuto ampio riconoscimento internazionale. Il suo libro The Capital Order è stato inserito dal “Financial Times” tra i dieci titoli di economia più influenti dell’anno (pubblicato da University of Chicago Press nel 2022, in italiano è stato tradotto da Einaudi con il titolo Operazione Austerità). Il pamphlet L’economia è politica (Fuoriscena 2023), suo primo libro scritto in lingua italiana, è diventato un piccolo bestseller più volte ristampato. Sarà pubblicato negli Stati Uniti e in UK nel gennaio 2026 rispettivamente da Simon & Schuster e Allen Lane (Penguin-Random House). 

L’avvio è di rito, con l’intervento del presidente dell’Università di Tulsa, Brad R. Carson. Comincia raccontando di sé e della sua formazione, prima negli Stati Uniti poi a Oxford. Ringrazia i presenti, arrivati da varie parti del mondo – dall’India al Brasile all’Europa (Islanda, Italia, Inghilterra, Germania, Grecia), e ovviamente Stati Uniti, da Berkeley (California) a Houston, da New York a Dallas. Sottolinea l’importanza di questo nuovo centro di ricerca. Infine, esprime il suo fermo disaccordo su uno dei panel previsti, dedicato a un tema che giudica troppo caldo e sensibile. Il panel in questione s’intitola: La politica economica nel Territorio palestinese occupato. Sarà uno dei più seguiti. 

La conferenza entra nel vivo con l’intervento di due grossi nomi. “Auguro al CHE di diventare la nuova Mecca per la ricerca economica indipendente negli Stati Uniti”, dice James Galbraith, cattedra ad Austin (Dallas) e una vita contrassegnata da una lunga lista di incarichi pubblici. Non solo. Il padre, John Galbraith, è stato tra i più influenti economisti del Novecento, autore di libri che sono diventati dei classici, tra cui Il Grande Crollo, sulla crisi americana del 1929 (pubblicato nel 1954, in Italia è nel catalogo Bur-Rizzoli). Anwar Shaikh, professore emerito alla New School for Social Research (New York), ricorda la sua formazione alla Columbia University negli anni della contestazione e della guerra in Vietnam: “Spero che sappiate trovare la strada per avere un impatto nella società e nella vita reale, nella battaglia per la giustizia economica”. Gli otto panel che si susseguono vanno da: “La politica economica di Marx” a “Inflazione, austerità e conflitto di classe”; da “Approcci alla storia economica e alla storia del capitalismo” a “Organizzazione sociale e coscienza di classe”. 

Ciò che emerge con evidenza dagli interventi sono anzitutto due punti. Il primo: l’economia nasce grande. Camminiamo sulle spalle di giganti. All’inizio della Rivoluzione industriale e ancora nei decenni successivi, ci hanno fornito la lente per decifrare la realtà: una lente che può ancora aiutarci a interpretare il presente con forza, efficacia e profondità. Ma quei giganti li abbiamo rinnegati. I loro testi ridotti a studio storico come reperti archeologici. E non è capitato per caso. Una rivoluzione silenziosa avvenuta a fine Ottocento, che ha attraversato tutto il Novecento arrivando fino a oggi, ha avuto un ruolo decisivo buttando al vento quel patrimonio che ci servirebbe ancora. Per esempio: ha buttato via l’idea di lavoro come sfruttamento, e con essa ogni prospettiva di cambiamento, descrivendo il mercato – che poi è l’ambiente in cui si strutturano le nostre esistenze (basti pensare a depressioni e malattie mentali che può innescare) – come spazio neutro dentro al quale individui atomizzati (solo individui esistono e non classi) perseguono la massimizzazione del proprio interesse personale. E tutto questo l’ha chiamato Macroeconomia.

La scuola di pensiero neoclassica vincente ha stabilito che una rivoluzione c’è stata, si chiama rivoluzione borghese e ha lo spazio che merita nei libri di storia. Grazie a essa siamo liberi. Il ritorno ai classici (Smith, Ricardo, soprattutto Marx – continuamente citato nei vari interventi – ma anche chi intellettualmente onesto ha continuato a lavorare all’interno del loro paradigma, Piero Sraffa, Joan Robinson…) è essenziale se si vuole demitizzare il senso di questa libertà che è solo formale. Contro l’onda neoclassica dominante. 

Il secondo punto che emerge con forza dalle giornate di Tulsa è legato alla presenza di panel di attivisti impegnati in battaglie civili e sociali, per la casa, per la terra, per il lavoro non schiavizzato, per i diritti. L’obiettivo non è invitare i professori a far da maestri secondo un meccanismo top down, è invece quello di riaprire e rinforzare uno spazio dialogico tra teoria e pratica coltivandolo per costruire un sistema che possa diventare un punto di riferimento per la comunità. 

Thiago Vasconcelos vive in Brasile, a San Paolo. È uno dei referenti regionali del movimento Mst Workers (Movimento dei lavoratori agricoli senza terra) che da anni difende il territorio divorato dalle multinazionali. “Questo distacco forzato dalla terra – sottolinea Mattei –, cioè dalle risorse per sopravvivere, è alla base dello sfruttamento di classe, e rappresenta quello che già Marx descrisse come origine del capitale nel processo di accumulazione originaria.” Il cosiddetto land grabbing simula perfettamente quello che Marx vedeva e che descrisse come processo di appropriazione originaria. La terra serve alle grandi multinazionali della logistica, un settore che è sempre più centrale nella nostra economia e ha bisogno di spazi. La terra serve alle multinazionali del cibo, per sfruttarla in modo intensivo. “Ma la terra – dice Vasconcelos – e l’Amazzonia non sono a disposizione. La terra è nostra e questo principio ispira la mobilitazione del Mst.” Parliamo di oltre un milione di persone che abitano in due tipologie di territori: encampment (le terre occupate non ancora riconosciute dallo Stato, qui gli aderenti di Mst rischiano la vita ogni giorno) e settlement (terre riconosciute dallo Stato). La più grande produzione di riso biologico di tutto il Brasile arriva da Mst. “Il movimento – sottolinea Vasconcelos – sa di operare all’interno di uno sistema capitalistico, conosce bene quanto il Brasile sia legato e dipendente dalla politica e dagli interessi internazionali, per questo non parliamo mai di fine del capitalismo ma della necessità di una democratizzazione dell’economia. Parafrasando Margareth Thatcher: non è vero che non c’è alternativa, è vero invece che non c’è una sola alternativa. La politica di pressione sul governo fatta da Mst è legata alla battaglia per implementare la nostra alternativa dentro il complesso sistema capitalistico.” 

Mentre parla JoAnn Lum, insegnante d’inglese e attivista del movimento “No more 24!” che a New York combatte contro i casi più estremi di lavoro sfruttato e sostiene la battaglia degli immigrati, principalmente donne, costrette a lavorare senza sosta 24 ore al giorno nella cura domiciliare delle persone bisognose, il pensiero corre a un altro mondo e a un’altra rivoluzione, la cui eco arriva forte e chiara dallo stesso complesso in cui si svolge la conferenza. Un edificio all’incrocio tra Archer Street e Martin Luther King Jr Street, all’interno del Tulsa Arts District, raccoglie una storia che attraversa quasi un secolo. Una storia che ci parla di noi e della società in cui viviamo. L’Oklahoma è la terra di Woody Guthrie, l’artista e songwriter che più di ogni altro ha influenzato la scena musicale del secolo scorso, da Bob Dylan a Leonard Cohen, da Joan Baez a Bruce Springsteen e tantissimi altri. A poca distanza dalla sala in cui JoAnn Lum racconta la sua militanza, lucida, precisa, davanti a qualche centinaio di persone (cittadini, studenti, ricercatori, professori, attivisti) si trova il Woody Guthrie Center. Lì sono custodite anche alcune bozze originali di una canzone, Old Man Trump. Il Trump in questione è il padre dell’attuale presidente degli Stati Uniti: Fred, immobiliarista, proprietario di un grappolo di edifici nella zona di Beach Haven, a pochi passi da Coney Island, Brooklyn, New York. Negli anni Cinquanta Woody Guthrie visse in uno degli appartamenti di Trump. In seguito, Fred Trump sarà accusato di trattamento discriminatorio: non affittava ai neri, per razzismo e per far crescere il valore degli immobili. Old Man Trump parla di questo. Il caso sarà archiviato ma la reputazione di Beach Haven non cambia granché. Nel 2016, rivela il “New York Times”, il complesso immobiliare avrebbe ricevuto una multa di 400mila dollari per lo sversamento di rifiuti non autorizzati nel torrente adiacente. 

Woody Guthrie, Beach Haven e l’attivista di “No More 24!” ci parlano di New York, il luogo meno trumpiano degli Stati Uniti, con un sindaco nero e democratico, Eric Adams, con una speaker del Consiglio municipale nera e democratica, Adrienne Adams, e con le contraddizioni più evidenti di un sistema classista e fortemente discriminatorio, impermeabile all’appartenenza politica. Proprio in questi giorni il Dipartimento di giustizia – che riporta direttamente alla presidenza – ha chiesto l’archiviazione delle accuse di corruzione a carico del sindaco Adams, provocando una vera tempesta, con le dimissioni di diversi vicesindaci e magistrati che si sono opposti. La manovra del Dipartimento di giustizia andrebbe letta secondo molte ricostruzioni come un favore dell’amministrazione Trump al sindaco della città più democratica d’America, in cambio del suo sostegno alle politiche di espulsione degli immigrati. Il “New York Times” ha scritto che la cosa più sorprendente è come tutto questo stia avvenendo sfacciatamente alla luce del sole. Wing Lam, direttore dell’Associazione cinese dei lavoratori, presente nel panel con gli altri attivisti a Tulsa, interviene sostenendo che a Buffalo, poco distante da New York, non esiste il livello di sfruttamento che denuncia il movimento “No more 24!”, perché è una città soprattutto di bianchi, e con i bianchi il discorso cambia. 

“La struttura politica è lo specchio della struttura economica”, afferma Clara Mattei. Il potere di Trump certo spaventa, sgomenta, è pericoloso. Che cosa è cambiato da quel business as usual che è sempre stato il verbo dell’ordine neoliberale, anche nelle sue maschere apparentemente più progressiste? È cambiato forse che oggi il re è nudo, è tutto più esposto, più evidente, alla luce del sole appunto. Nascerà una nuova resistenza? Intanto le parole della canzone di Woody Guthrie, Old Man Trump, Beach Haven ain’t my home, riecheggiano nelle giornate inaugurali di questo neonato e vigoroso Centro di ricerca per l’Economia eterodossa.  

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Photo Credit: JustTulsa.com

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