America
C’è del Kennedy in Trump?
I file recentemente declassificati dal presidente americano, Donald Trump, sul caso Kennedy non hanno prodotto chissà quali eclatanti rivelazioni. Per quanto ciò non comporti l’assenza di alcuni dettagli interessanti. Come riporta la testata The Hill, sono infatti emersi elementi di una certa rilevanza. Innanzitutto, sembra che – secondo l’allora direttore della CIA, Richard Helms – il presidente Lyndon Johnson si fosse convinto che l’omicidio fosse una conseguenza politica dell’assassinio del dittatore sudvietnamita Ngo Dinh Diem, ordinato poco tempo prima dallo stesso Kennedy. Altri dati interessanti riguardano poi il fatto che l’intelligence statunitense avesse intenzione di utilizzare la mafia per uccidere Fidel Castro e – soprattutto – che l’FBI avesse ricevuto un avvertimento su una minaccia di morte a Oswald il giorno prima del suo assassinio da parte Jack Ruby. Eppure, al di là di questo, novità ce ne sono ben poche. E gli stessi buchi lasciati in piedi dalla Commissione Warren non hanno trovato effettive risposte. Anche perché la CIA avrebbe dissuaso Trump dal pubblicare i documenti maggiormente scottanti. Nonostante quindi il presidente abbia dichiarato di aver voluto declassificare questi file per mettere a tacere le varie teorie complottiste sulla questione, sono molti i dubbi che ancora restano da chiarire e che – molto probabilmente – non lo saranno mai.
Tuttavia, al di là dell’assassinio, la mossa di Trump ha posto nuovamente l’attenzione del dibattito pubblico statunitense sulla figura di JFK: colui che, ancora molti, definiscono il presidente americano più amato di sempre. Un vero e proprio mito, insomma. Su cui, politicamente, sembrerebbero stagliarsi più luci che ombre. E non sono pochi coloro che ne rimpiangono la memoria nel nome di un passato glorioso rispetto alla decadenza del presente. Un passato sicuramente grande. Ma, forse, un po’ troppo idealizzato. I miti, per definizione, devono essere smontati. Questo non per non riconoscerne gli aspetti positivi. Ma per evitare di travisare la Storia, lasciandosi andare a semplificazioni fuorvianti.
Intendiamoci. Kennedy è stato uno straordinario comunicatore: un retore efficacissimo, dall’eloquenza potente, sognante e speranzosa. Una delle più grandi incarnazioni dell’American Dream, che ha dato voce a un’epoca di progresso e fiducia nel futuro. La sua fede cattolica ne fece una sorta di rivoluzionario contro il protestantesimo conservatore dei repubblicani. La sua Nuova Frontiera spazzò via il cauto realismo politico di Eisenhower, contrapponendogli un approccio più dinamico, diretto e tecnocratico: nel più puro stile Cold War Liberalism. La sua immagine carismatica, giovane e fresca sembrava destinata a traghettare gagliardamente gli Stati Uniti verso la vittoria economica e politica contro i loro nemici: solo congiungendo il capitalismo ad istanze di riformismo sociale sarebbe stato, per lui, possibile sconfiggere il modello sovietico, sbattendolo definitivamente nel dimenticatoio della Storia. Tutto questo Kennedy ha rappresentato, conferendo la sua energica impronta a un’epoca, in nome della giustizia e del progresso.
Sennonché, l’immagine non rispecchiava in modo esattamente fedele la sostanza. E chi, rimpiangendo oggi il buon tempo antico, cita facili contrapposizioni con l’attuale stato di cose (leggasi Trump) forse dovrebbe prestare un’attenzione maggiore. Perché di analogie tra il giovane presidente e il miliardario newyorchese ce ne sono. E neanche poche.
Innanzitutto, entrambi hanno conquistato la Casa Bianca con elezioni non prive di polemiche. Se Trump è oggi accusato di essere arrivato a Washington grazie all’aiuto degli hacker russi, non dimentichiamo che anche Kennedy abbia vinto le elezioni presidenziali del 1960 contro Richard Nixon in modo abbastanza controverso. Le connessioni di suo padre, Joe, con la mafia di Chicago sono note a tutti. Nella fattispecie, intratteneva legami particolarmente stretti con il gangster Sam Giancana, attraverso la mediazione del cantante Frank Sinatra. E – guarda caso – fu proprio l’Illinois a rivelarsi uno Stato dirimente in quelle elezioni, permettendo a JFK di arrivare alla Casa Bianca. In secondo luogo, guardiamo alla politica estera. L’attuale crisi coreana che vede contrapposti il presidente Trump con il dittatore Kim Jong Un presenta inquietanti analogie con la crisi dei missili cubani esplosa nel 1962 tra Kennedy e Nikita Krusciov. In terzo luogo, c’è la questione dei parenti. JFK nominò ministro della Giustizia suo fratello Bob: la scelta gli attirò numerose critiche e provocò, tra l’altro, svariati attriti tra la Casa Bianca e l’FBI (guidato allora da Hoover). Anche per questo, Lyndon Johnson nel 1967 approvò la legge anti-nepotismo, impedendo che i congiunti di un presidente potessero assumere incarichi all’interno del governo. Trump, dal canto suo, si tiene ben stretti figlia e genero, che – pur non facendo parte del governo ma solo dello staff presidenziale – stanno mettendo spesso in imbarazzo il magnate (soprattutto per quanto riguarda lo scandalo Russiagate).
Il punto è che, al di là dei singoli casi, c’è un’affinità strutturale tra i due personaggi: si tratta infatti di due presidenti fondamentalmente inesperti e tendenzialmente incapaci di efficacia sotto il profilo amministrativo. Trump è stato il primo presidente americano della Storia a non essere né un politico né un militare: non ha saputo, almeno sinora, scegliersi collaboratori in gamba, non ha le idee chiare su come si imbastiscano delle trattative politiche e – per questo – si lamenta che il Congresso gli metta i bastoni tra le ruote. Kennedy, dal canto suo, arrivò alla presidenza dopo un’ esperienza come senatore del Massachusetts. E, nei tre anni di attività allo studio ovale, non riuscì ad attuare quasi nulla del suo ambizioso programma elettorale: a partire proprio dai diritti civili (cosa che gli guadagnò le accuse dello stesso Martin Luther King). Anche Kennedy, guarda caso, si lamentava dello strapotere del Congresso che puntualmente gli affossava i provvedimenti, cercando di ostacolarlo. In quegli anni, gran parte dell’attività legislativa risultava anche per questo paralizzata. E la stessa popolarità del presidente era ai minimi storici nel 1963 (tanto che, all’interno del Partito Democratico, si stava pensando di contestargli la leadership alle successive elezioni).
Chi mise concretamente in atto il progressismo promesso da JFK fu invece Lyndon Johnson, salito al potere dopo la sua morte. Non aveva carisma ed era antipatico, oltre ad essere una sorta di satrapo con un concetto piuttosto spregiudicato e imperiale del potere. Era uno squalo autoritario e paranoico: vedeva complotti ovunque e pretendeva fedeltà assoluta dai suoi sottoposti. Eppure, aveva un’abilità non indifferente nel muoversi tra i meandri del Congresso: vantava infatti una lunga esperienza come senatore del Texas e aveva una capacità di persuasione efficacissima, che andava dalle promesse alle minacce (non a caso lo chiamavano il “trattamento Johnson”). Lo stesso Franklin Delano Roosevelt del texano aveva preconizzato l’ascesa, dopo averlo conosciuto da giovane. E così, questo cowboy duro, spigoloso, rozzo, autoritario (e anche un po’ razzista) fu colui che riuscì a tradurre in legge il programma di JFK, attuando quelle profonde innovazioni che rappresentarono il fulcro della cosiddetta Great Society: una serie di riforme che andavano dalla sanità ai diritti civili. E, nonostante l’oggettivo disastro del Vietnam, gettò, in politica interna, delle basi sociali che sopravvivono ancora oggi. Proprio perché riuscì ad armonizzare l’attività dell’esecutivo con quella del legislativo, superando le paralisi istituzionali.
Questo perché la politica esige pazienza, scaltrezza, abilità e concretezza. E’ un’arte che rifugge dall’improvvisazione e dalla sloganistica e che richiede solidità ed esperienza. Trump ha vinto le elezioni grazie all’antipolitica: inutile negarlo. Ma oggi, con i problemi che si sta ritrovando nei rapporti con il Congresso e con i membri del suo stesso partito, avrebbe disperatamente bisogno di un approccio simile a quello di Johnson. Certo: i miti, del passato e del presente, servono agli uomini per continuare a sperare e a sognare. Poi però qualcuno le cose deve farle funzionare. E a quel punto, la telegenia e le promesse roboanti servono a poco. Lo abbiamo visto. E continuiamo a vederlo.
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