America
Caos e incertezza nella battaglia per il dopo Obama
Battaglia durissima, quella delle primarie americane. Il caos nella battaglia per il dopo Obama impera, volano stracci, mentre tutto si rivoluziona, mandando a monte precedenti storici e politici. Un vortice nevrotico, trasversale ai due principali partiti, che si aggirano in una nebbia fitta, dal futuro sempre più incerto.
Tra i repubblicani, l’avanzata di Donald Trump non si ferma. Attualmente si piazza al primo posto con 739 delegati, seguito dal senatore texano Ted Cruz a quota 465. Chiude mestamente la fila il governatore dell’Ohio, John Kasich, che si arresta a 143. L’establishment repubblicano manifesta segni di evidente nervosismo, mentre il miliardario si avvicina sempre più pericolosamente alla fatidica soglia dei 1.237 delegati che gli consentirebbe la conquista della nomination. Soprattutto per questo, i big dell’Elefantino – l’elefante è il simbolo del Partito repubblicano – stanno nelle ultime settimane cercando di puntare tutto su Cruz: l’unico, secondo la matematica, capace di mettere seriamente i bastoni tra le ruote a Trump. E difatti numerosi papaveri del Great Old Party (GOP), da Mitt Romney a Jeb Bush, hanno dichiarato il proprio endorsement verso l’ultraconservatore texano, non si sa comunque con quanta convinzione.
In effetti, Cruz non è esattamente quello che può definirsi un candidato dell’establishment: vicinissimo al radicalismo della destra evangelica e ai rigurgiti anti-statalisti del Tea Party, il senatore ha da sempre incarnato il vessillo della protesta anti-sistema, essendosi così inimicato senatori centristi del calibro di John McCain (che adesso ingoia il rospo però e invita a sostenerlo).
Tutto questo evidenzia allora come sia ben difficile credere che l’establishment dei repubblicani stia seriamente compattandosi dietro Cruz. In realtà, da più parti, si vocifera che potrebbe trattarsi di una strategia: appoggiare il senatore per impedire a Trump di arrivare al quorum dei 1.273 delegati, arrivare a una convention aperta, azzerare tutto e imporre un candidato d’ufficio. D’altronde i piani dello stesso Kasich andrebbero in questa direzione: impossibilitato ormai a conquistare la nomination per ragioni matematiche, spererebbe di tornare alla ribalta in sede di convention aperta, giocandosi la carta della sua vittoria in Ohio come viatico per la Casa Bianca.
Il miliardario newyorchese ha sentito puzza di bruciato e non a caso ha recentemente invocato tumulti di piazza nel caso si ritrovasse silurato da una manovra di palazzo. Ma anche lo stesso Cruz è ben difficile possa finire col farsi manovrare dai big dell’establishment. E difatti il suo comportamento è curioso. Da una parte non fa che battibeccare quotidianamente con Trump (negli ultimi giorni litigano invero poco decorosamente addirittura sulle rispettive mogli), dall’altra tuttavia ha chiuso totalmente alla possibilità di una convention aperta, tacciandola come un espediente da politicanti, volto a sobillare la volontà popolare. Un chiaro assist a Trump, il quale – guarda caso – tra una frecciata e l’altra non si è sentito di escludere una possibile alleanza proprio con il senatore del Texas.
Certamente un ticket Trump-Cruz non appare al momento probabilissimo ma neppure troppo aleatorio. Nonostante si tratti di due radicali, è pur vero che potrebbero aprire le porte a una base elettorale cospicua, coprendo Trump le quote degli arrabbiati trasversali e senza connotazione religiosa; Cruz l’universo evangelico e l’anti-statalismo radicale. Tanto più che mentre il fulvo magnate appare tendenzialmente a suo agio col sistema elettorale delle primarie (che attrae i voti più disparati), il senatore di contro stravince nei caucus (dove si esprimono esclusivamente gli attivisti di partito). E nell’ipotesi di un terzo schieramento, torna per i repubblicani lo spettro del 1912: quando Teddy Roosevelt abbandonò il GOP e, presentatosi con il Progressive Party, arrivò secondo, dietro i democratici guidati da Wilson. Del resto, i prossimi appuntamenti elettorali nel Wisconsin e nel New York serviranno sicuramente a fare maggiore chiarezza in seno a una situazione parecchio ingarbugliata, visto l’elevato numero di delegati lì messi in palio.
Anche tra i democratici non si respira un’aria tranquilla. Ancora una volta, Hillary Clinton trova enormi difficoltà a imporsi in una corsa elettorale che inizialmente avrebbe dovuto rivelarsi una passeggiata. Il candidato socialista Bernie Sanders non demorde e con le sue recenti vittorie nei caucus di Hawaii, Alaska e Washington si conferma un avversario temibile nell’Ovest e a Nord. Due aree particolarmente ostili all’ex first lady, che non riesce momentaneamente a replicare altrove i granitici successi mietuti in Meridione. Un bel grattacapo, soprattutto guardando al Wisconsin, dove i sondaggi danno i due praticamente testa a testa, e alla fondamentale California.
È vero, il vantaggio di Hillary al momento è difficilmente colmabile: attualmente è in testa con 1.712 delegati contro i 1.004 di Sanders. Tuttavia, di quei 1.712 ben 469 sono superdelegati: non conquistati sul campo ma dipendenti dall’establishment partitico e non vincolati formalmente. E per quanto l’ex segretario di Stato sia indubbiamente messa meglio per arrivare rapidamente al quorum dei 2.383, non bisogna dimenticare che il sistema di assegnazione dei delegati tra i democratici è esclusivamente proporzionale, che produce corse lente, in grado di trasformarsi in veri e propri stillicidi nel caso non si verifichino vittorie schiaccianti da parte di uno dei concorrenti in gara.
E la strategia di Sanders punta principalmente a questo: logorare l’avversaria, portandola azzoppata alla corsa per la Casa Bianca. Un piano diabolico ma che si sta rivelando efficace, visto che Hillary non riesce ancora a compattare il partito dell’Asinello attorno al suo nome. Senza poi contare l’ipotesi, tutt’altro che improbabile, di una candidatura di Sanders come indipendente. Un incubo per l’ex first lady, che si vedrebbe osteggiata a sinistra, senza la benché minima possibilità di allargare i consensi tra i sandersiani ortodossi, che difatti la avversano.
Hillary adesso punta tutto sul New York, suo feudo elettorale che potrebbe consentirgli un buon pacchetto di delegati. Sanders guarda con interesse agli Stati in bilico come Maryland e Pennsylvania. Ma alla fine il pensiero di entrambi corre a uno stato soltanto. L’ultimo. Il più agognato, il più atteso, il più ricco: la California.
Le ragioni di questo caos trasversale ad entrambi i partiti sono profonde. Il rafforzarsi di candidature come quelle di Trump e Sanders evidenziano la presenza di un elettorato arrabbiato, inquieto e impaurito, che non vuol più sentir parlare di ottimismo e fiducia e che – a torto o a ragione – vede sempre più negli establishment partitici e finanziari la causa del loro malessere. Non è un caso d’altronde che i temi centrali di questa campagna elettorale siano strettamente legati alla sfera economico-sociale: salario minimo, immigrazione, sicurezza, riforma della giustizia. Laddove, di contro, l’interesse verso gli esteri tende decisamente a scemare, in nome di un rigurgito profondamente isolazionista.
In questo senso, le figure di Trump e Sanders sono politicamente simili: al netto di alcune fondamentali differenze (sulle questioni fiscali e di sicurezza) infatti, entrambi si oppongono ai trattati internazionali di libero scambio, entrambi propongono misure economiche protezioniste per la tutela dei posti di lavoro americani, entrambi sostengono la necessità di un progressivo disimpegno statunitense nel mondo. E se anche il voto di protesta che stanno raccogliendo alla fine non dovesse realizzarsi in una vittoria alle urne, possiamo in buona parte dire che entrambi abbiano già vinto: stanno dettando l’agenda e obbligando i candidati più moderati a inseguirli sul loro stesso terreno, trasformando radicalmente il volto dell’America.
In copertina, Donal Trump
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