America
California: l’incubo di Hillary Clinton
Hillary Clinton è nuovamente nei guai. Nonostante il margine relativamente ampio di delegati attualmente a sua disposizione, l’ex first lady potrebbe non farcela a conquistare la nomination democratica. A riportarlo è stato ieri il Wall Street Journal, secondo cui una sua eventuale performance deludente in California martedì prossimo potrebbe spingere l’asinello a puntare su un nuovo candidato. La questione a ben vedere è molto delicata. E l’ipotesi di un fallimento elettorale della Clinton in realtà è nell’aria da più di un mese.
Dopo la corposa vittoria riportata nello Stato di New York lo scorso 19 aprile, sembrava che ormai il trionfo dell’ex segretario di Stato fosse scontato. Eppure le cose sono andate diversamente. Il suo rivale, Bernie Sanders, ha continuato a mietere vittorie negli Stati considerati minori, costringendo Hillary sempre più sulla difensiva, davanti a quella sinistra riottosa che non le ha mai perdonato l’ambigua vicinanza al mondo di Wall Street e le continue giravolte programmatiche. A questo si aggiunga poi il cosiddetto Emailgate, che ha ricominciato a perseguitare l’ex first lady proprio nelle ultime settimane. E che l’ha definitivamente marchiata con l’immagine di candidata controversa e opaca.
Adesso il grande problema che si staglia sul suo cammino è la California, dove si voterà il prossimo 7 giugno. Notoriamente, si tratta dello Stato più popoloso: un territorio dove il partito democratico mette in palio ben 546 delegati, da spartire su base proporzionale. Gli ultimi sondaggi danno Hillary ancora in testa, per quanto registrino al contempo un’ascesa piuttosto vigorosa di Sanders. Per questa ragione, sono due gli scenari maggiormente temuti dall’ex first lady: o una vittoria risicata (come quella conseguita qualche settimana fa in Kentucky) o – peggio – addirittura una sconfitta. In entrambe queste ipotesi, i guai per Hillary non risulterebbero tanto di natura matematica: vigendo il sistema proporzionale occorrono difatti trionfi netti per spartizioni numericamente determinanti di delegati. E un trionfo nitido (da una parte come dall’altra) è quanto di più difficile possa verificarsi per i democratici in California quest’anno.
No, la questione è tutta di immagine. Proprio come durante le primarie del 2008, anche in questo 2016 Hillary si è mostrata capace di vincere negli Stati più popolosi (Florida, Ohio, South Carolina, New York): quegli Stati che – almeno teoricamente – dovrebbero risultare maggiormente importanti in sede di elezioni novembrine. Ora, una mancata vittoria in California (o comunque un’eventuale testa a testa con Sanders in loco) minerebbe la credibilità elettorale della Clinton: una credibilità elettorale che non solo dalla primavera del 2015 non è mai decollata ma che risulta al momento particolarmente bassa. Inoltre, non soltanto l’ex segretario di Stato nei sondaggi nazionali in termini di gradimento è stata recentemente superata dal candidato repubblicano in pectore, Donald Trump. Ma, come se non bastasse, il tasso di sfavore che la caratterizza appare notevolmente accentuato.
Proprio per questo, non è da escludere che il partito democratico possa decidere di prendere in mano la situazione. E – come nota il Wall Street Journal – ciò non significherebbe che un suo intervento vada automaticamente a favore di Sanders. Il punto è che il senatore del Vermont è considerato troppo eretico e assai poco integrato tra le file dell’asinello. Ragion per cui, il partito potrebbe alla fine imporre un “candidato d’ufficio”. I nomi che circolano con maggiore insistenza sono quelli dell’attuale segretario di Stato, John Kerry, e del vicepresidente, Joe Biden. Quest’ultimo appare il più papabile, anche perché quest’estate era venuta quasi a concretizzarsi la possibilità di una sua candidatura, poi mai avvenuta. Addirittura, secondo i beninformati, starebbe tornando sul tavolo l’ipotesi di un ticket che lo veda affiancato alla senatrice radicale Elizabeth Warren: politica molto di sinistra e particolarmente apprezzata dalle frange elettorali che sostengono oggi Bernie Sanders. Un’alleanza tra Biden e la Warren è vista oggi da molti analisti come l’unica speranza per i democratici di battere Donald Trump a novembre, dal momento che un simile ticket risulterebbe potenzialmente in grado di federare le quote elettorali moderate con quelle radicali: l’obiettivo che Hillary non è mai riuscita a conseguire.
Tutto passerà dalla California insomma. E comunque, anche laddove il partito decidesse di silurare la sua attuale front runner, la strada non sarebbe certo priva di traumi. Innanzitutto il fatto stesso che circolino nomi come quelli di Biden e Kerry la dice lunga sulla capacità che hanno avuto in questi ultimi anni i democratici di rinnovarsi. Non si tratterebbe infatti soltanto di politici anagraficamente vecchi ma anche storicamente predisposti alla sconfitta: John Kerry fu annientato da George Walker Bush alle presidenziali del 2004, mentre Biden fu sconfitto alle primarie democratiche del 1988 e del 2008.
In secondo luogo, è abbastanza improbabile che Hillary Clinton si faccia, in caso, silurare senza dir nulla. Basta ricordare quando nel 2008, nonostante a fine maggio fosse ormai chiara la vittoria di Obama, fece di tutto pur di restare in corsa anche contro i moniti del suo stesso establishment. Nel caso quest’anno il partito le chiedesse un passo indietro, non è ben chiaro che cosa potrebbe pretendere in cambio, vista la sua ben nota bramosia di raggiungere la Casa Bianca. Lo scenario dunque, sotto questo aspetto, è più aperto che mai.
In terzo luogo, occhio ai movimenti dei superdelegati. Attualmente sono in massa a favore di Hillary. Ma si ipotizza che un buon risultato da parte di Sanders in California potrebbe spingerli a migrare tra le sue file. Qualora ciò accadesse e il senatore rafforzasse ulteriormente la sua posizione in seno al partito, sarebbe allora più difficile convincerlo a fare un passo indietro o a rinunciare a correre da indipendente.
Infine, non bisogna trascurare che un eventuale candidato imposto d’ufficio potrebbe comunque presentare una debolezza strutturale nel confronto novembrino con Trump: un personaggio che – al netto dell’impresentabilità – può comunque rivendicare di aver scalato il partito repubblicano attraverso il processo delle primarie, superando le manovre di palazzo che cercavano di affossarlo. Il miliardario potrebbe quindi avere buon gioco nel proporsi come campione della volontà popolare, contro un avversario calato ex machina da un establishment partitico. Fattore, che rafforzerebbe non poco il radicale messaggio anti-sistema incarnato dal fulvo magnate.
Con l’approssimarsi delle convention di luglio, la situazione elettorale americana appare ribaltata. Quest’estate, gareggiavano ben diciassette repubblicani rissosi in mezzo a una confusione caotica, mentre a sinistra sembrava che il partito fosse più o meno compatto dietro a Hillary Clinton. Oggi accade l’esatto contrario: il GOP ha trovato il suo candidato, mentre – alla vigilia della convention – i democratici navigano ancora in alto mare. L’ex first lady ora suda veramente freddo. Perché la maledizione della mancata nomination sembra stia per abbattersi nuovamente su di lei. E lo spettro del 2008 aleggia ancora una volta beffardo sulla sua testa.
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