America

Il senatore socialista del Vermont che insidia da sinistra Hillary

27 Giugno 2015

Poco più di un anno fa The Nation, settimanale storico della sinistra radicale americana, dedicava la copertina a Bernard detto Bernie Sanders. All’interno, una lunga intervista dove l’ultra settantenne senatore di sinistra diceva, senza mezzi termini, che era pronto a correre per la presidenza degli Stati Uniti d’America nel 2016. Tra i tanti dubbi di allora, c’era quello se correre per le primarie del Partito democratico, o come indipendente. C’è voluto più di un anno per arrivare, lo scorso giovedì, alla conferma ufficiale, con una breve conferenza tenuta a Washington fuori dal Campidoglio. Sanders sfiderà alle primarie del Partito democratico Hillary Rodham Clinton, oltre che gli altri due candidati Lincoln Chafee e Martin O’ Malley.

Ma chi è questo senatore indipendente che arriva dal Vermont ed è l’unico al congresso a definirsi socialista? Nato a New York nel lontano 1941, da famiglia ebraica (anche il fratello è un politico, ma in Inghilterra), si trasferisce dopo il college – e dopo un’esperienza in un kibbutz – in Vermont, dove fa una miriade di lavori e costruisce la sua carriera politica. Militante da sempre, dall’opposizione alla guerra in Vietnam in poi, il suo socialismo democratico richiama soprattutto le esperienze scandinave: non un estremista rivoluzionario quindi, ma solidamente a sinistra di tutta la politica istituzionale americana. Nel 1981 diventa sindaco di Burlington, la più grande città del Vermont e ci rimane fino al 1989.

Per cercare di capire Sanders bisogna capire cos’è questo piccolo stato nel Nordest degli Stati Uniti, schiacciato da stati più famosi e importanti, come New York e Massachusetts, e dal Canada (la multiculturale e alternativa Montreal è appena di là dal confine), è uno stato pochissimo popolato, Burlington stessa è poco più di una strada e un’università storica, con una incredibile maggioranza di bianchi (quasi il 95%). Qui, tra grandi fattorie, neve, strade mezze deserte, Bernie ha costruito la sua base, e quando era sindaco si è scagliato contro multinazionali e ha lavorando sull’edilizia popolare – provando insomma a rendere la parola “pubblico” meno spaventevole che nel resto del paese. Naturalmente, era l’unico sindaco socialista degli Stati Uniti. Nel 1990 è eletto alla Camera dove rimane fino 2005 quando passa al Senato. Viene rieletto nel 2012 con il 71% dei voti: non sono evidentemente tutti estremisti di sinistra in Vermont, è Sanders che si è guadagnato stima e rispetto.

Nessun membro indipendente, né repubblicano né democratico, è rimasto così tanto in carica al Congresso – non che ce ne siano molti, al momento, al Senato sono solo lui e il rappresentante di un altro stato del Nordest, il Maine. Si è guadagnato la fama di personaggio serio e coerente, disinteressato al teatro della politica e molto concreto e vicino alla gente, di uno decisamente “contro” ma anche in grado di accordarsi con diverse parti politiche quando ne vale la pena (anche in virtù del suo essere indipendente e non dover quindi rispondere ad una disciplina di partito). Per questa fama e rispetto è forse quasi un peccato che si candidi solo alle primarie del Partito democratico, e non vada ad intercettare una più ampia base elettorale.

Questo era infatti il dubbio principale poco più di un anno fa, se rimanere indipendente o meno, insomma il dilemma [Ralph] Nader, dal nome del candidato di sinistra che nel 2000 corse contro Al Gore e Bush facilitando, secondo molti, la vittoria del candidato repubblicano. Nell’anno passato Sanders ha girato il lungo e il largo il paese, cercando di rispondere anche a questa domanda, e quella stessa intervista a The Nation serviva a tastare il terreno: il titolo dell’articolo recitava,  Bernie Sanders sta pensando di candidarsi – but first he wants to check with you. “You” è la sua base: i lettori di The Nation, gli americani radical e progressive ma non così estremisti da non pensare neanche a votare, quelli che fanno volentieri pressione da sinistra sul Partito democratico e spesso sono anche parte dello stesso partito. Quell’articolo sembra uscito un secolo fa, con i mezzo le più grandi battaglie dei neri americani da trent’anni a questa parte, una costante presa di coscienza su tematiche ambientali (che nelle ultime settimane hanno portato ad arresti anche in alcuni campus piuttosto pacifici), e naturalmente l’esplosione costante delle questioni di gender e relative a rape culture. Tra le cose che sono successe a sinistra va annoverata anche la mancata candidatura alle primarie di Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusetts, della sinistra del Partito democratico, che in molti avrebbero voluto sfidare Clinton. Difficilmente avremmo visto (o vedremo) Warren e Sanders entrambi in corsa. Per Bernie, candidarsi alla primarie significa evitare il potenziale effetto Nader, ma anche provare a premere sui democratici da sinistra.

Il senatore del Vermont ha infatti un’agenda molto “di sinistra”: contro la diffusione delle armi, contro la pena di morte, contro le disuguaglianze economiche, vuole discutere tematiche ambientali e del riscaldamento globale e ridurre l’influenza dei soldi e del business nella politica. Su diversi di questi punti si distingue da Clinton, ma se c’è un punto su cui davvero sono lontani è il rapporto con il mondo finanziario, Wall Street, e in generale quanto debba essere regolamentato il capitalismo. Non è un caso che nella recente polemica sui Ttip e Tpp (gli accordi commerciali con Europa e Asia) voluti da Obama, Sanders si sia scagliato decisamente contro, mentre Clinton si sia mantenuta molto cauta. Per Sanders, le condizioni dei lavoratori (e naturalmente dei disoccupati) sono al primo posto, come ha specificato anche giovedì scorso: «È un anno che giro per il paese e mi sento dire ‘lavoro di più per uno stipendio più basso. Non posso mandare al college i miei figli, e anche l’assicurazione sanitaria è un problema. Com’è successo, visto che allo stesso tempo il 99% della ricchezza generata in questo paese va all’1%?’ Non possiamo continuare a vivere in un paese con il più alto tasso di povertà infantile tra tutte le importanti nazioni al mondo, e che al tempo stesso vede una proliferazione di milionari e miliardari». Troppo estremista? Forse, ma come più di qualcuno fa notare dall’altra parte (repubblicani e destre varie) gli estremisti abbondano, tra gente che non crede nell’evoluzionismo, gira armata, è contro i vaccini, o altre assurdità simili. Tutto molto più estremista di un po’ di socialismo molto annacquato.

Sanders in Vermont è riuscito a far interessare alla politica e a far andare a votare migliaia di persone. Ha allargato la base, e lo ha fatto rendendosi accessibile e disponibile. Non sempre queste sono tematiche presenti nel Partito democratico americano. Questo nonno poco rassicurante e piuttosto burbero può infatti contare su una base agguerrita e appassionata, e che molto probabilmente crescerà esponenzialmente nei prossimi mesi, ma le elezioni, specie quelle americane, non si vincono solo così: servono i soldi, e di quelli Sanders ne ha pochi, spera di racimolarne con piccoli finanziatori, ma ha già detto che non ha amici milionari a cui chiederne. Non riuscirà, comunque, a raccogliere quanto la principale sfidante. Oltre ai soldi, una questione correlata è quella della mancanza di una struttura che può tenere in piedi una campagna nazionale, con il rischio peraltro che uno dei suoi tradizionali alleati, le union, non lo sostengano in massa vista la presenza di Clinton.

Malgrado gli annunci, Bernie sa che non vincerà, ha troppi problemi per fare il presidente degli USA: è troppo vecchio, troppo di sinistra, troppo poco vicino ai poteri forti. Certo, l’attuale presidente è stato eletto due volte nonostante sia, per buona parte dell’America profonda, troppo nero, e abbia un secondo nome pesante; certo, Bill De Blasio è diventato sindaco della città americana più importante nonostante avesse diversi dei problemi di Sanders; e certo, Hillary non è proprio una ragazzina (fa 68 anni a ottobre, e ha già avuto un tot di vite politiche).

A cosa servirà allora questa candidatura? Sicuramente per contare e magari ingrandire la sinistra del partito, per capire quanto possa fare pressione su Hillary Clinton, e anche fuori dal partito, come ha notato Bhaskar Sunkara su The Jacobin (il giornale dei giovani radical americani) la candidatura di Sanders “potrebbe essere un modo per i socialisti per riorganizzarsi, per articolare un tipo di politica che parla ai bisogni della maggioranza della gente. E potrebbe anche legittimare la parola “socialista”. Inoltre, sarà divertente vedere i Sanders discutere con Clinton nei dibattiti, vedere sfidarsi queste due personalità forti e così diverse.

In una politica che forse non è completamente dettata dalla spregiudicatezza in stile House of Cards, ma sicuramente va in quella direzione, il burbero Bernie ha un altro stile. Parlando davanti alla stampa giovedì, per non più di cinque minuti perché poi doveva tornare a lavorare, ha detto: «Non ho mai gettato fango sugli altri candidati in tutta la mia vita. Credo che in democrazia le elezioni siano seri dibattiti su questioni serie, non gossip politico, non fare campagna che assomigliano a soap opera. Non siamo a Red Sox vs Yankees. Questo è un dibattito a proposito delle grandi questioni che deve affrontare il popolo americano». Il risultato potrebbe essere scontato, ma sarà comunque una sfida molto interessante.

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In copertina, il sen. Bernie Sanders a Washington D.C., foto tratta da Flickr

 

 

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