America

Attenti, Trump non è ancora fuori gioco

22 Ottobre 2016

E’ impresentabile. Sguaiato. Cialtrone. I sondaggi lo danno in caduta libera, mentre i media sembrano sempre più concordi nel prevederne una sconfitta certa. Donald Trump, insomma, sembra politicamente finito. Un candidato folle, incomprensibile, tremendo che non ha ormai la minima speranza di raggiungere la Casa Bianca, visto anche l’incalcolabile numero di gaffe in cui è incorso da un anno e mezzo a questa parte. D’altronde, candidati di ben più alto profilo in passato l’hanno pagata cara per molto meno: nel 2012, Mitt Romney fu attaccato per aver detto – in un video carpito a sua insaputa –  che il 47% degli americani fosse costituito da statalisti dediti all’assistenzialismo pubblico: nulla in confronto al video scovato e diffuso giorni fa dal Washington Post in cui Trump si lascia andare a commenti pesantemente sessisti. E vogliamo parlare del democratico Howard Dean, che nel 2004 – a seguito di un deludente risultato ottenuto al caucus dell’Iowa – tenne un discorso un po’ agitato, che lo costrinse a ritirarsi subito dopo? Neanche da paragonare alla retorica incendiaria del creso Donald, che in poco più di dodici mesi, si è inimicato musulmani e messicani, non dando certo prova di un linguaggio presidenziale. Tutto torna dunque. Dove vuole arrivare questo matto che ha fatto della sconfessione del politically correct la cifra del suo messaggio elettorale? Un candidato che di politica non sa nulla? No, evidentemente non andrà da nessuna parte.

Eppure, per quanto apparentemente perfetto, lineare, coerente e appagante, questo teorema possa essere, siamo sicuri che fotografi fedelmente la realtà? Il dubbio è lecito, anche perché – nonostante grandissima parte dell’informazione con fare martellante dica il contrario – ci sono degli elementi quantomeno strani. Elementi che – se analizzati attentamente – potrebbero incrinare delle certezze tanto granitiche quanto (forse) un po’ troppo ingiustificate.

Lo ammetto. Quando nel giugno del 2015 Trump annunciò ufficialmente la sua discesa in campo, ne scrissi subito con aria di sufficienza. Non credevo che sarebbe arrivato da nessuna parte, lo ritenevo un pagliaccio in cerca di pubblicità a cui l’elettorato avrebbe voltato prontamente le spalle. Ero convinto che la nomination repubblicana la avrebbero conquistata Jeb Bush o Marco Rubio, avanzando una visione politica neoconservatrice in netta controtendenza rispetto alla dottrina Obama.

Eppure i campanelli d’allarme arrivarono presto. Poche settimane dopo, Trump attaccò pubblicamente John McCain, arrivando a negargli lo status di eroe di guerra. Un’enormità che – credevo – uno schieramento patriottico come il Partito Repubblicano non gli avrebbe mai perdonato. Ma i sondaggi lo premiarono. La prima, soltanto la prima di una serie di stranezze che di lì a poco non avrebbero fatto che susseguirsi, mandando all’aria ogni precedente storico e ogni certezza precostituita. Polemizzò assai poco elegantemente con la giornalista di Fox News, Megyn Kelly, durante il primo dibattito televisivo tra i candidati repubblicani: le accuse di sessismo si moltiplicarono ma la popolarità, anziché diminuire, aumentava. Ai primi di settembre in radio mostrò di non avere la minima cognizione dei problemi di politica estera (non sapeva distinguere Hamas da Hezbollah) ma il successo continuava ad ingigantirsi, quando invece nel 2012 per errori simili il repubblicano Herman Cain aveva perso completamente di credibilità. Durante i dibattiti era il meno presidenziale di tutti, attaccava a testa bassa, interrompeva, irrideva gli avversari contro ogni galateo e usanza consolidata. Aveva trasformato la dialettica politica in un reality show. Il pubblico continuava a premiarlo. Eppure tutti (me compreso) ripetevano che sarebbe stata una bolla di sapone: che si sarebbe sgonfiato definitivamente al primo appuntamento elettorale. Mai profezia si rivelò più errata. Dopo un deludente secondo posto in Iowa, stravinse le primarie del New Hampshire, dando concretamente avvio alla sua ascesa politica, fino alla vittoria della nomination. Ogni volta tutti lo hanno dato per spacciato. E ogni volta lui è tornato, più forte di prima.

Ora, è sicuramente vero che un conto è l’elettorato che vota per le primarie e un conto è quello che si esprime alla General Election. Tradizionalmente il primo è più motivato e politicizzato, il secondo – di contro – è tendenzialmente moderato e centrista, oltre che spesso trasversale. Tanto basterebbe, secondo molti analisti, a dare Trump per spacciato alle elezioni di novembre. Ma attenzione. Al netto della cialtronaggine e dell’impresentabilità, Trump è riuscito (per abilità o per fortuna) laddove gli ultimi due candidati repubblicani (John McCain e Mitt Romney) avevano fallito: è riuscito, cioè, ad allargare l’elettorato repubblicano dopo otto anni in cui era finito in un fortino arroccato e sempre più ristretto. Nel corso del processo elettorale antecedente alla convention, il magnate ha difatti quasi sempre vinto negli Stati in cui si tenevano primarie (dove votano gli indipendenti), perdendo invece sistematicamente in quelli nei quali si organizzavano caucus (dove il suffragio è permesso solo agli attivisti del partito): segno, questo, che la forza di Trump non proveniva (e non proviene) dal cuore tradizionale del Grand Old Party ma da una schiera di elettori variegata e non sempre particolarmente ideologizzata.

Chiacchiere, si dirà. Con tutte le sue sparate si è inimicato praticamente le donne, le minoranze etniche e quelle religiose: col solo appoggio dei maschi bianchi non andrà da nessuna parte. Probabile. Ma il problema è un altro. Siamo veramente sicuri che l’elettorato americano voterà in funzione di affermazioni politicamente scorrette, laide e volgari? Ha il lusso di poterselo permettere? Il punto, cioè, è capire quale sia la molla effettiva di queste turbolente elezioni del 2016. Se il contrasto sia quello tra presentabilità e impresentabilità o ci sia magari anche dell’altro che valga la pena di prendere in considerazione. E forse, a ben vedere, qualcosa effettivamente c’è. Ed è lo stesso successo mietuto nei mesi da Trump a dimostrarlo. Perché ricordiamolo: non è la prima volta che il miliardario si presenta alle elezioni presidenziali. Ci provò già nel 2000, con il Reform Party, e non se lo filò nessuno. E invece oggi – al netto delle difficoltà – cavalca la cresta dell’onda. Perché?

Trump non è sorto all’improvviso come un fungo. Ma è la conseguenza di un malessere profondo, che affonda le sue radici in due cause essenziali e complementari: la crisi economica e la sindrome del Vietnam, sorta dalla guerra in Iraq. Due fattori che hanno letteralmente defenestrato la politica neocon dell’establishment e che hanno condotto Barack Obama alla Casa Bianca nel 2008, battendo prima Hillary Clinton e poi John McCain (entrambi fautori di un approccio muscolare e proattivo sul fronte internazionale). Il punto è che buona parte dell’elettorato non soltanto ha proseguito su una linea di disimpegno militare all’estero di sapore isolazionista. Ma gli effetti duri della crisi economica hanno prodotto anche una tendenza fortemente protezionista. E proprio su questi due punti Trump ha fondato gran parte del proprio messaggio elettorale, proponendo una prospettiva profondamente isolazionista in tema di esteri e avanzando una visione economica avversa alla delocalizzazione delle imprese statunitensi, promettendo inoltre la rinegoziazione dei trattati internazionali di libero scambio (come il NAFTA e il TPP). Il tutto, Trump lo ha caricato di una valenza fortemente antipolitica e anti-establishment: nonostante il suo slogan di voler far tornare l’America ad essere grande somigli per assonanza a quello di Ronald Reagan (It’s morning again, America), il contenuto è diametralmente opposto. La visione politica che Trump propone non è un invito ottimista al futuro e alla grandezza tradizionali dell’America: messaggi storicamente incentrati sul libero mercato e su una politica di potenza grintosamente interventista. No. Quello che il miliardario propone è un’altra cosa.

Quando Hillary Clinton per attaccare Trump dice di essere “l’ultimo baluardo contro l’apocalisse” ha ragione. Il punto è però la valutazione che l’ex first lady dà di questo dato di fatto. Per lei il termine apocalisse ha ovviamente un’accezione negativa. Ma la domanda è: siamo sicuri che l’elettorato sia d’accordo? Ed è qui che casca l’asino. Per una quota sempre maggiore dei votanti statunitensi il fattore apocalittico è qualcosa di positivo, da perseguire per abbattere e – possibilmente – rigenerare un sistema – a torto o a ragione – ritenuto iniquo e corrotto. Una quota elettorale sempre più estesa, che ha preso piede tanto a destra quanto a sinistra (posto che questa distinzione abbia ancora un senso nell’attuale agone politico americano). In questo modo, la figura di Trump non appare poi così lontana rispetto a quella dell’ormai ex candidato socialista Bernie Sanders.

Ok. Adesso qualcuno arriccerà il naso e dirà che è una bestemmia accomunare Bernie a quel pazzoide di Trump. Certo: i due non se la intendono su varie questioni (soprattutto sui temi eticamente sensibili o su quelli legati alla sicurezza). Ma a ben vedere, sui pilastri essenziali dei loro programmi la distanza non è poi così ampia: entrambi profondamente critici dei trattati internazionali di libero scambio, entrambi tendenzialmente isolazionisti e avversi all’interventismo bellico. Senza poi contare un dato fondamentale. Quando mi trovavo a New York durante le ultime settimane della campagna elettorale per le primarie, ho avuto modo di frequentare un paio di comizi tenuti da Sanders, dove ho potuto parlare con molti suoi sostenitori. Sostenitori mossi da un profondissimo sentimento anti-establishment e che consideravano Hillary Clinton il principale nemico da battere. Un dato interessante, che non si spiega soltanto banalmente con il fatto che si trattasse di elezioni primarie. Perché quando Sanders ha infine deciso di dare il proprio endorsement a Hillary, a ridosso della convention democratica di Philadelphia, il suo movimento politico si è letteralmente spaccato. E, secondo non pochi analisti, una parte non indifferente di quel movimento l’8 novembre potrebbe scegliere di votare per Trump, turandosi il naso.

Ed è qui che torniamo all’inizio del problema. Il messaggio apocalittico, antisistema e antipolitico portato avanti dal miliardario rappresenta un fattore di attrazione notevole: un fattore che è potenzialmente in grado di accattivarsi i voti di gente che magari non approva neanche la figura del magnate ma che vede in lui comunque l’unica possibilità per far sentire la propria insoddisfazione. La forza di Trump sta difatti nel voto “reattivo”: l’eventualità (non improbabile) che gli elettori votino non per Trump ma contro Hillary (e tutto ciò che lei rappresenta). Il rischio è che quindi Trump agli occhi di molti divenga il grimaldello attraverso cui scardinare un sistema giudicato corrotto e putrescente. Trump, in altre parole, si gioca tutto su un fatto: la teologia politica su cui si sono fondati più di duecento anni di Storia americana sta morendo. La sacralità delle istituzioni e la stessa caratura un tempo quasi “sacerdotale” della figura presidenziale stanno venendo rapidamente meno. Il magnate l’ha capito e ha spinto sull’acceleratore, velocizzando un processo che sta portando gli Stati Uniti ad una frattura interna particolarmente dura. E proprio per questo, il fatto di aver rifiutato di dire se accetterà o meno l’esito delle elezioni non è automaticamente detto che oggi non possa in realtà paradossalmente avvantaggiarlo. In tal senso, si comprende l’attuale polarizzazione ideologico-politica in seno alla società americana e il fatto stesso per cui Hillary stia puntando tutto sull’immagine di candidata razionale e preparata: da votare per impedire la vittoria del caos. Un messaggio che potrebbe funzionare. Ma anche no.

La strategia elettorale dell’ex first lady mira infatti a replicare quella adottata efficacemente dal marito, Bill, nel 1992: puntare al centro (tanto democratico quanto repubblicano), isolando le forze più radicali. La questione è però che nel ’92 la situazione economica americana era tutt’altra. E anche sul fronte geopolitico gli Stati Uniti vantavano una forza e un prestigio ben maggiori: tutti elementi che favorivano il formarsi di una maggioranza elettorale moderata e dai gusti centristi (cui la Third Way clintoniana non a caso si rivolgeva). Il punto è allora capire se quel tipo di elettorato sia oggi ancora maggioritario. Se l’America abbia in definitiva voglia di restaurare un passato obsoleto o piuttosto saltare nel buio di un futuro incerto e probabilmente pericoloso. Una scelta radicale. Tra due visioni opposte.

Su questa linea di scontro si giocherà il risultato elettorale dell’8 novembre. I fattori in gioco sono ben più profondi di questioni comunicative che (per quanto rilevanti) rischiano spesso di celare le radici più intime dei fenomeni storici, economici e politici. Se Hillary vincerà, non vincerà perché è donna. Non vincerà perché è politicamente corretta. Vincerà perché l’elettorato sceglierà di affidarsi a una visione classica di liberismo economico e di interventismo estero. Parimenti, fosse Trump a vincere, sarebbe semplicistico derubricare il tutto a ignoranza collettiva: ricordiamoci che Trump non è una causa. Trump è un effetto. E, nonostante la cialtronaggine e l’oggettiva pericolosità sulle questioni di politica estera, per molti americani rappresenta oggi (nel bene e nel male) l’unico megafono di protesta. Probabilmente inutile. Ma potente. Perché Trump sarà anche un populista. Ma il brodo di coltura in cui questo populismo ha attecchito ha radici e responsabilità lontane, che non è certo stato lui a creare. Sicuramente propone un programma aleatorio, spesso confuso e a tratti contraddittorio. Ma proprio per la protesta apocalittica che incarna, l’elettore della razionalità potrebbe finire con l’infischiarsene altamente.

Anche per questo quindi bisogna stare attenti ai sondaggi che si stanno susseguendo in questi giorni. E non prendere nulla come oro colato. Già nel 2004 molte rilevazioni davano John Kerry vincitore dei dibattiti e avanti nelle preferenze dei votanti, salvo poi constatare un esito elettorale diverso, vista la vittoria netta di George Walker Bush. Ma, più nello specifico, politologicamente quello di Trump è il tipico fenomeno che il sostenitore si vergogna di approvare: perché dirompente, antitradizionale, irruento, impresentabile. Non si può quindi escludere che buona parte del voto pro Trump possa concretizzarsi soltanto nel segreto delle urne al di là di ogni possibile rilevazione sotto il profilo statistico (un po’ come accadeva in Italia con gli elettori di Silvio Berlusconi).

Questo poi non significa – è ovvio – che il miliardario sicuramente vincerà. E’ soltanto un invito – questo sì – ad analizzare le cose con calma, cautela e – possibilmente – a mente fredda. Cercare, cioè, di far parlare i fatti, evitando di imporre loro categorizzazioni precostituite che li stravolgano. Questo non vuol dire che non si debbano avere delle legittime opinioni e che dei giudizi non vadano espressi. Significa soltanto semmai ricordare quello che diceva Max Weber: che i fatti vanno distinti dai valori. Che si può (e talvolta si deve) condannare dei fenomeni. Ma che questi fenomeni debbano comunque essere compresi nel modo più oggettivo possibile. Perché la realtà è complessa, spesso fastidiosa e talvolta ingiusta. Ma c’è. E allora o si cerca di capirla o ci si gira dall’altra parte.

Chi vincerà l’8 novembre? Onestamente non lo so. Ma di una cosa sono certo. Nulla è scontato in questa campagna elettorale. E la parola fine è ancora ben lungi dal poter essere pronunciata.

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