America

Una strage dopo l’altra: viaggio negli Stati Uniti delle armi

17 Dicembre 2019

È un sabato d’agosto non avaro di notizie quando, tra le conferenze stampa di Matteo Salvini dal Papeete Beach e gli aggiornamenti sul caso del Carabiniere ucciso a Roma da un giovane turista statunitense, arrivano dagli USA a stretto giro le immagini delle ultime due stragi: a El Paso, Texas Patrick Crusius, un ventunenne suprematista bianco, apre il fuoco in un centro commerciale, uccidendo 22 persone e ferendone 24; poche ore dopo Dayton, in mezzo all’Ohio, il ventiquattrenne Connor Betts spara fuori da un locale, uccide nove persone. Una settimana prima, un giovane di origini italo-iraniane dichiaratamente razzista e fascista aveva sparato a una sagra dell’aglio in California, causando quattro vittime (lui incluso) e 12 feriti, mentre in Wisconsin un uomo aveva sterminato la propria famiglia per poi dirigersi armato dai vicini e fare ancora fuoco (un totale di cinque morti e due feriti). Sembra troppo persino per il presidente Donald Trump che, come al solito via Twitter, sull’onda della commozione propone per la prima volta i tanto agognati “background checks”, cioè banalissimi controlli che porterebbero maggior controllo su chi acquista le armi. Mischiano e confondendo piani, strategie, modalità come gli è proprio, il presidente aggiunge che questa riforma potrebbe sposarsi con quella sull’immigrazione, .

Il luogo della strage di Dayton (Ohio) del 4 agosto 2019. Foto di Luca Peretti, ottobre 2019.

Corre tanto veloce il bollettino delle stragi americane che quel concentrato di stragi di mezza estate sembra una vita fa: nel frattempo negli Stati Uniti ci sono stati più di 160 mass shooting (variamente definiti, in genere con almeno quattro vittime, ferite o uccise), portando il numero totale da inizio anno a oltre 400. Solo nei giorni scorsi, ci sono state due sparatorie in due basi militati, una delle due nella famosa Pearl Harbor (Hawaii), una rapina con inseguimento in Florida, con undici morti e nove feriti, e una strage antisemita a Jersey City, a meno di un’ora da Manhattan. A metà novembre aveva fatto notizia il giovane di sedici anni appena compiuti che in 16 secondi ha ucciso due persone e ferito cinque in una scuola superiore californiana. Molte di queste stragi piccole o grandi con armi da fuoco non superano il confine della cronaca locale: chi ricorda i quattro morti in un appartamento di Chicago uccisi senza ragione da un pensionato il 12 ottobre, la famiglia sterminata (5 vittime) in Massachusetts il 7 dello stesso mese, la rissa finita male a Lancaster (South Carolina) costata la vita a due persone con otto feriti, o persino la strage di  Midland–Odessa (due cittadine in Texas), 33 tra morti e feriti per mano di un uomo solitario a cui piaceva sparare di notte agli animali. Nonostante tutto questo, non la si può necessariamente definire un’emergenza, è una situazione stabile, anche se il clima di odio e intolleranza diffusosi negli ultimi tempi nel paese nordamericano facilita esplosioni di violenza di questo tipo. La maggior parte di queste stragi, specie quelle con più morti e più impressionanti, hanno caratteristiche ricorrenti: tutto comincia e finisce in brevissimo tempo, spesso grazie all’intervento delle forze dell’ordine sempre più presenti nelle città statunitensi; il o gli aggressori sono spessissimo giovani maschi bianchi, spesso soli, spesso razzisti o fascisti; gli obiettivi sono diversi, e se c’è in generale un certo grado di casualità, abbondano scuole, luoghi di divertimento e di culto. La paura e la consapevolezza che possa effettivamente succedere a chiunque viva in questo paese si sta diffondendo sempre di più: chi scrive insegna in una grande università pubblica, e per quanto il training non sia (ancora) obbligatorio è fortemente consigliata la visione del video Run, Hide, Fight (Scappa, Nasconditi, Combatti), mentre le porte di tutte le aule hanno chiusure ermetiche per emergenze. A ottobre, in occasione dell’uscita di Joker, la distribuzione del film – memore della strage di Aurora (Colorado) del luglio del 2012 durante la proiezione di The Dark Night Rises – è stata attentissima a specificare che si trattava solo di un film e le azioni del personaggio interpretato da Joaquin Phoenix andavano intese solo come fiction.

Insomma, la paura delle armi, la possibilità e la realtà delle stragi fanno stabilmente parte della vita statunitense.

 

Dayton, Ohio

L’Oregon Historic District è un bel quartiere composto da poche strade con pavé e case in gran parte costruite nell’Ottocento. Sulla via principale, East 5th, ci sono negozi di vario tipo, molto poco gentrificati: una libreria dell’usato, un negozio di giocattoli vintage, un paio di antiquari, un diner stile anni cinquanta, qualche pub, bar, e ristorante. Dayton è conosciuta essenzialmente per due ragioni: l’aviazione e l’Accordo di Dayton. Qui infatti c’è il National Museum of the United States Air Force, e da qui vengono i fratelli Wright, tra i pionieri dell’aviazione mondiale, mentre nel 1995 si sono tenuti in città i negoziati per la pace in ex Yugoslavia – la città orgogliosa di questo evento, ma ne rimane traccia praticamente solo in un piccolo e non particolarmente fornito museo. Non ci sono molti grattacieli in questa zona del paese, l’Ohio a parte le sue tre C (Columbus, Cleveland, Cincinnati) si estende piatto e monotono, e naturalmente non ci sono grattacieli neanche nell’Oregon Historic District, questo incrocio di strade iscritto al National Register of Historic Places (la lista del governo statunitensi dei luoghi storici da preservare). Vicino al numero 419 di East 5th all’1.05 di notte del 4 agosto un 24enne di un paesino dell’Ohio ha aperto il fuoco con un’arma semi-automatica uccidendo 9 persone (inclusa la sorella) e ferendone 17 – altri si feriranno scappando. Il tutto dura soltanto 32 secondi, quanto serve per “neutralizzarlo” alle forze dell’ordine, presenti in zona come spesso capita nei luoghi dove si esce la sera negli Stati Uniti.

Un’immagine dell’Oregon Historic District, Dayton (Ohio). Foto di Luca Peretti, ottobre 2019.

Quando visito Dayton, l’ultima domenica d’ottobre, la prima di reale autunno da queste parti, la zona è tornata alla normalità, i negozi sono aperti, per il brunch bisogna mettersi in fila. La notte prima, a qualche migliaia di chilometri, le forze armate statunitensi hanno ucciso Abu Bakr al-Baghdadi, il leader ISIS nemico pubblico numero uno; e proprio un anno prima, il 27 ottobre 2018, un antisemita entrò in una sinagoga di Pittsburg uccidendo undici persone. Nell’Oregon Historic District i segni che rimandano a quella notte assurda sono pochissimi. Fuori dal Ned Peppers Bar, un grande locale molto bello teatro principale della strage, campeggia un grande cuore con dentro scritto “Dayton Strong”. Più in là, qualche scritta, qualche piccolo memoriale improvvisato. Il memoriale più grande, sorto spontaneamente i giorni dopo la strage, è scomparso, per non rischiare di influenzare negativamente i piccoli negozi della strada, ma anche per evitare il turismo macabro che già si stava sviluppando prepotentemente come accade in questi casi. In un’altra parte della città ne verrà costruito uno ufficiale. “C’è comunque chi pensa che la città stia voltando pagina troppo in fretta”, mi racconta Amelia Robinson, giornalista locale autrice di un seguitissimo podcast sulla città e columnist del Dayton Daily News, che peraltro abita nel quartiere ed è stata tra le prime giornaliste ad accorrere sul posto; “l’attenzione mediatica è stata molto forte nei primi giorni, poi com’è normale è scemata”, continua. Non tutti, tra commessi e proprietari dei molti negozietti che affacciano sulla strada della strage, hanno voglia di parlare di quella notte e i giorni immediatamente seguenti. Chi lavora da queste parti ricorda infatti una gran confusione nei primi giorni, soprattutto della stampa che si era accampata con tende e tutto davanti ai negozi. La sera dopo la strage la comunità si è ritrovata e ha condiviso il dolore. È seguita, in questo rituale tristemente conosciuto, la visita del presidente Trump, con le parole di circostanza e la faccia contrita. Manifestazioni pro e contro. E poi più o meno nulla, la stampa se ne va (ma lascia dietro la spazzatura, nota cinicamente la commessa di un negozio sulla strada), il presidente non prende decisioni concrete, il paese va avanti aspettando la prossima inevitabile strage.

Dayton (Ohio). Foto di Luca Peretti, ottobre 2019.

A livello locale naturalmente la situazione è più complicata, perché le ferite rimangono a lungo. “Le persone non hanno superato quello che è successo, ma cercano di andare avanti – racconta ancora Robinson – C’è però la richiesta di misure per prevenire che questo succeda ad altre comunità. Il fatto che ci sia una presa di coscienza su questo è davvero importante. C’è voglia di cambiamento, di fare qualcosa che dica che le vite che si sono perse contano, hanno avuto importanza”. Tra le molte organizzazioni che cercano di far passare nuove leggi che regolino il possesso di armi c’è Ohions For Gun Safety. Parlo con Dennis Willard, portavoce dell’organizzazione, che mi racconta della battaglia che stanno conducendo da tre anni per far approvare i background check nello stato dell’Ohio: “Si possono fare molte cose per combattere la gun violence in America e in Ohio. Noi dall’inizio abbiamo voluto fare qualcosa [Do Something è lo slogan della campagna], e pensiamo che il common sense background check sia un’inizio. Per ora ci concentriamo su questo, poi vediamo, ma siamo convinti che questo possa fare la differenza e che sia possibile visto che c’è un appoggio politico bipartisan e anche molti possessori di armi sono d’accordo”. Willard fa un paragone con l’assicurazione per le auto: “i possessori di armi vogliono che anche gli altri siano controllati, come chi guida vuole che tutti in strada abbiano l’assicurazione e siano al sicuro”. È davvero un obiettivo minimo, di certo non rivoluzionario, ma che probabilmente cambierebbe molto.

 

Più di tutte le guerre USA

“Non pensavo potesse succedere proprio qui”, mi racconta una negoziante a Dayton. Purtroppo però negli USA può succedere ovunque o quasi, creando un senso di insicurezza diffuso e malcelato che influenzerà gli statunitensi per lungo tempo. Per quanto riguarda i mass shooting infatti la situazione è peggiorata: dal 2012 a oggi il paese ha visto ben quattro delle cinque più gravi stragi di sempre (l’altra è del 2007), e l’FBI stessa riconosce come dal 2000 in poi le azioni con “active shooter” siano aumentate. Dal punto di vista dell’uso diffuso delle armi in azioni violente c’è stata una crescita negli ultimi anni ma in termini relativi questo non è il periodo della storia statunitense con più omicidi per arma da fuoco.

Le statistiche fanno impressione. Nel 2017 (ultimo anno con informazioni complete e ufficiali), ogni giorno in media 109 americani sono stati uccisi con armi da fuoco (in un anno 39.773) e qualche centinaia sono ferite. Ben sei su dieci di queste morti sono suicidi, e questo dimostra che il problema delle armi negli USA va ben più al di là delle spettacolari e note stragi che finiscono in prima pagina sui giornali. Come nota l’affidabile Pew Research Center infatti, qualunque definizione si usi per definire cos’è un mass shooting, “le morti in questo tipo di stragi negli USA sono una piccola frazione di tutte le morti per armi da fuoco che si verificano nel paese ogni anno”: infatti, per il Gun Violence Archive, nel 2018 sono morte 373 persone in mass shooting, nel 2019 siamo già a ben oltre le 400. Un arma da fuoco ha un ruolo in tre quarti degli omicidi totali, e nella metà dei suicidi. Si contano circa 134.000 persone in un anno tra morti e feriti, quanto una città di medie proporzioni. In termini relativi, il tasso di morte per armi da fuoco su 100.000 abitanti è di 10,6, cinque volte di più del vicino Canada, quasi dieci volte di più che in Italia, ma molto meno di altri paesi americani come El Salvador (39.2) o Colombia (25.9).

Gli Stati Uniti sono dunque un paese più criminoso di altri paesi occidentali? No, ci sono solo più armi, come hanno dimostrato in uno studio vecchio ma ancora attuale Franklin Zimring and Gordon Hawkins dell’Università di Berkeley. Infatti negli Stati Uniti ci sono semplicemente un sacco di armi – “ma che ci dobbiamo fare con tutte queste armi?” si chiedeva una signora a Dayton incontrata  in un negozio davanti al bar della strage. Negli USA, come abbiamo visto, c’è la più alta popolazione carceraria mondiale. Un altro primato mondiale assoluto è quello del numero di armi che possiedono i cittadini: il 45% del totale, mentre la popolazione degli USA è il 5% di quella mondiale. È il paese al mondo con il numero più alto di armi tra i civili, e quattro su dieci americani o hanno un’arma o vivono in una casa dove ce ne è una o più, che – dichiarano – nella maggior parte dei casi hanno comprato per proteggersi, o per sentirsi liberi. È difficile sapere quante armi circolino negli USA, ma secondo la BBC una stima di 300 milioni (su 327 milioni di abitanti) è affidabile. Le armi da fuoco costano poco: con un paio di centinaia di dollari si compra (legalmente) una pistola, mentre un fucile d’assalto in grado di causare decine di morti costa solo $1500, più o meno il prezzo del computer con cui sto scrivendo questo articolo.

È la normalità, internalizzare lentamente il fatto che può succedere proprio qui e a chiunque, a stupire. A settembre è girato molto un video, Back-To-School Essentials, dell’associazione Sandy Hook Promise (dal nome delle scuola in Connecticut della strage del 2012) che racconta come prepararsi per il ritorno in classe dopo l’estate: inizia con dei ragazzi che mostrano orgogliosamente il loro zainetto nuovo, i quaderni, le cuffie, e poi le scarpe nuove per correre quando c’è un active shooter a scuola, la felpa molto resistenze per chiudere ermeticamente una porta, il telefono per scrivere alla mamma prima di essere uccisi. Il video, quasi 6 milioni di visualizzazioni, mostra come la possibilità di essere uccisi a scuola è parte integrante della propria vita di studenti: come in alcune zone in Italia si cresce facendo esercitazioni per sapere cosa fare in caso di terremoto, in molte scuole statunitensi si simula l’arrivo di un active shooter. Non tutti gli esperti sono concordi sull’efficacia di queste esercitazioni, notando tra l’altro come le possibilità di essere uccisi a scuola sia comunque remotissime, ma è la percezione della paura diffusa che conta. La violenza causata da armi da fuoco riguarda infatti tantissime persone. Il 44% degli statunitensi conosce qualcuno che è stato ferito o ucciso da armi da fuoco. Nel suo libro Un altro giorno di morte in America il giornalista del Guardian Gary Younge analizza la normalità e quotidianità della violenza per armi da fuoco in USA: prende un giorno qualunque, il 23 novembre 2013, e racconta le storie di dieci ragazzi uccisi quel giorno, sette neri, due ispanici, e un bianco. Come per le carceri, infatti, la questione riguarda di più comunità di colore e giovani neri. Delle 14,542  persone uccise in omicidio nel 2017 quasi il 60% sono afroamericani (13% della popolazione totale). E riguarda giovani e giovanissimi: nei cinque anni tra il 2013 e il giugno 2018 ci sono stati 316 sparatorie nelle scuole statunitensi.

Ma forse, tra i tutti i dati, ce ne è uno che fa più impressione degli altri. Dalla loro fondazione, gli Stati Uniti sono più o meno sempre stati impegnati in guerre, quella del 1812, la guerra civile, due guerre mondiali, Vietnam, Afghanistan, e molte altre. Come ha verificato nel 2013 PolitiFact partendo da un’affermazione del commentatore politico Mark Shields, il numero totale di morti in tutte le guerre in cui gli USA sono stati coinvolti è più basso delle morti per armi da fuoco dal 1968 in poi. Il problema principale degli USA non sono decisamente né i comunisti né il terrorismo, ma piuttosto le armi.

 

Piccoli memoriali improvvisati. Dayton (Ohio), foto di Luca Peretti, ottobre 2019.

Più armi=più violenza

Ma cosa spinge un giovane statunitensi ad armarsi e andare a sparare a suoi coetanei al pub o a scuola? E cosa spinge milioni di americani a comprarsi un’arma per difendersi da non ben identificati nemici? Sui motivi delle stragi e della violenza diffusa con armi da fuoco ci si accapiglia da sempre. C’è chi tira in ballo videogame e naturalmente internet, chi la mancanza di futuro, di stimoli, di interessi, chi sottolinea come la società statunitense sia una società fortemente militarizzata e che incoraggia all’uso delle armi. C’entrano naturalmente anche le malattie mentali, in un paese peraltro dove mancando un sistema sanitario nazionale gratuito non a tutti sono garantite le cure necessarie. Lo stesso Trump, il giorno dopo le due stragi, si è affrettato a dire che il punto non è la circolazione delle armi, “Ma questo è anche un problema di malattia mentale. Se guardate a entrambi i casi, si tratta di malattia mentale. Queste persone sono molto, molto malate” – naturalmente, questa affermazione di Trump è smentita da diversi studi. Secondo Amnesty, “nel contesto delle comunità urbane, la violenza giovanile può essere associata alla paura, bisogno di protezione, mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine nell’impedire discriminazioni, desiderio di rispetto e approvazione, e infine anche coinvolgimento in attività criminali”. Niente di tutto ciò è però davvero una motivazione comprensibile per entrare in una scuola della propria città e aprire il fuoco su compagni, amici, insegnanti. Ha detto l’ex fidanzata dello stragista di Dayton: “Non ho idea di quali fossero le sue motivazioni, e non lo saprò mai. Non è stato un crimine d’odio, anzi credeva nell’uguaglianza. Non è stato un delitto passionale, non penso neanche fosse davvero premeditato, perché non era un bravo pianificatore”.

Se capire il perché di queste azioni è complicato, sappiamo per certo che l’accesso alle armi infatti rende la vita estremamente facile a chi voglia compiere atti di questo tipo. Per Max Fisher e Josh Keller, che hanno assemblato e discusso una grande quantità di dati sul New York Times, non ci sono dubbi: “L’unica variabile che spiega l’alto numero di mass shooting in America è il numero astronomico di armi che circolano”. Secondo la legge, si possono portare armi in pubblico in tutti gli stati del paese, cambia soltanto se vadano tenute nascoste o meno, se servono permessi o meno, e su questo non c’è una uniformità a livello federale. In 30 stati, si può andare in giro liberamente armi in vista senza nessuna licenza o permesso, in altri 12 vanno tenute nascoste. Nella maggior parte degli stati su possono comprare armi d’assalto.  Non ci sono dubbi che controlli stringenti cambierebbero la situazione, sia per gli omicidi e i suicidi che per le stragi più grandi. Vediamo per esempio il caso di Seth Ator, autore della strage di Midland-Odessa a cui ho accennato a inizio articolo. Nel 2014 Ator non passa il National Instant Criminal Background Check System, un (molto leggero) sistema nazionale di controllo sull’acquisto di armi, a causa ragioni di salute mentale: insomma, non può comprare armi perché ha dei non specificati problemi mentali. C’è un però un ma, e cioè che questo divieto non vale per i venditori privati – almeno finché Trump non sblocca una legge ferma alla Camera che lo impedirebbe. Ator quindi può comprare le sue armi e compiere la strage. Per Amnesty International, “le soluzioni per affrontare le stragi in USA sono le stesse identificate per prevenire ogni altra forma di violenza armata, e includono un sistema nazionale di licenze e registrazioni e comprensivi background checks”.

 

Fare qualcosa

Il movimento spontaneo, guidato e animato da giovanissimi, nato dopo il massacro di Parkland in Florida a febbraio 2018 ha avuto giustamente una grande eco mediatica. Una delle leader di quel movimento, Jaclyn Corin, dice: “Parkland veniva indicata come la più sicura comunità della Florida, non mi sarei mai immaginata che questo potesse succedere a me. Sapevo che agire sarebbe stato l’unico modo per affrontare la tragedia… Eravamo sopravvissuti a una strage in una scuola, e quindi le persone ci ascoltavano. Abbiamo creato March For Our Lives perché sarebbe stato quello che i nostri amici che hanno perso la vita avrebbero voluto che agissimo, lo facciamo per loro”. L’impatto che queste stragi stanno avendo nel paese è notevole. “Dopo la strage  di Dayton – mi ha raccontato Dennis Willard di Ohions For Gun Safety- abbiamo visto un incredibile numero di volontari che hanno chiesto come aiutarci e far parte della nostra campagna”. Ma come si mantiene l’attenzione e l’attivismo dopo queste stragi più mediatiche? “Dopo oltre due mesi abbiamo ancora molte persone che si avvicinano a noi, e anche la sindaca di Dayton si è unita alla nostra campagna, come anche Moms demand action [un’altra associazione nazionale nata dopo il massacro di Sandy Hook]. C’è insomma un movimento più forte”.

Un banner da giardino di Ohioans For Gun Safety in un locale dell’Oregon Historic District, Dayton (Ohio). Foto di Luca Peretti, ottobre 2019.

Tradizionalmente, una parte dei Democratici si è sempre schierata per una maggior regolamentazione sul possesso di armi, mentre i Repubblicani sono più apertamente pro-gun e tendono a supportare la potentissima National Rifle Association, ed essere appoggiati e sostenuti dall’associazione. Gli schieramenti politici saltano però quando queste tragedie arrivano dietro casa. È il caso per esempio della senatrice repubblica dell’Ohio, della zona di Dayton, Peggy Lehner, in passato supportata dalla Buckeye Firearms Association (un’associazione pro-armi dell’Ohio) e adesso impegnata per lo universal background checks nel suo stato. Come ha raccontato a NPR, la radio pubblica statunitense, “si è sviluppata quest’idea per cui se sei repubblicana, ti opponi alle leggi per il controllo delle armi, mentre se sei democratica le supporti. Ma questo è sbagliato. Siamo in questo tutti insieme, è tempo che cominciamo a pensare a soluzioni insieme. E io sono assolutamente pronta per questo… è una sfortuna che sia una questione di parte, sono personalmente imbarazzata che per ora siano stati solo i democratici a chiedere queste soluzioni semplici e di buonsenso e che non violano i diritti del Secondo Emendamento. Si tratta di cose che potenzialmente ci danno la possibilità di tenere lontane le armi dalla mani delle persone sbagliate al momento sbagliato”.

Forse le armi da fuoco in sé sono ancora molto popolari, fanno parte di quella cultura americana che esalta un’idea di libertà basata sul mancato controllo, erede di quella conquista della frontiera ormai vecchia di due secoli. Ma un maggior controllo sull’acquisto delle armi ha sempre più successo, e circa la metà poi vorrebbe proibire l’acquisto e la fabbricazione di armi semiautomatiche o fucili d’assalto. La NRA continua a spendere milioni per lobby contro qualsiasi tipo di gun control, ma sei su dieci statunitensi non sono d’accordo con loro. Persino 145 amministratori delegati di compagnie americane, incluse AirBnB e Yelp, hanno scritto ai senatori chiedendo una legge federale per i background check.

Le cose possono cambiare, naturalmente. Barack Obama nel 2015 citò l’Australia come esempio: una strage nel 1995 portò all’applicazioni di leggi più severe, che nel lungo tempo – malgrado circolino ancora molte armi che ancora uccidono più che altrove – ha portato a una drastica riduzione delle vittime per armi da fuoco. Qualcosa di simile è avvenuto nel Regno Unito dopo una strage nel 1987. Ma la questione è culturale, come notano ancora Max Fisher e Josh Keller: “in Svizzera [le leggi sul controllo delle armi] implicano un modo diverso di pensare alle armi, cioè che i cittadini devo guadagnarsi il diritto di possedere armi. Gli Stati Uniti sono uno dei tre paesi, con Messico e Guatemala, che base le proprie politiche sul tema su un’assunzione opposta: che le persone abbiano un intrinseco diritto di possedere armi”. Finché questo paradigma culturale non verrà drasticamente ribaltato possiamo purtroppo aspettarci ancora stragi e centinaia di morti al giorno per armi da fuoco.

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