America

America 2021: la democrazia muore, viva la democrazia

11 Gennaio 2021

Per capire il Golpe più pazzo del mondo e quanto accaduto in seguito bisogna tornare alle 10:30 di sera dello scorso 3 novembre, le 4:30 del mattino in Italia. È la lunga notte delle elezioni americane 2020. A quell’ora, l’Ohio viene ufficialmente assegnato a Donald Trump, che qualche ora prima si era già assicurato la Florida con una vittoria a valanga.

Negli oltre due secoli di storia americana, solo una volta è successo che un candidato conquistasse i due swing states per eccellenza e poi perdesse le elezioni: era il 1960 e il candidato era Richard Nixon, sconfitto da un certo JFK.
Non è solo una questione di cabala (anche se la sinistra associazione con Nixon per Trump, come vedremo, ritornerà più avanti): nei collegi elettorali che nel 2016 risultarono determinanti per la vittoria, il Trump 2020 sta battendo il sé stesso di 4 anni prima, e questo nonostante  i sondaggi pubblicati dai media  avessero martellato da settimane sul fatto che – proprio in Ohio – il gap tra Biden e Trump fosse pesante, con il candidato democratico in testa di diversi punti.
Un minuto dopo le 10:30 della sera, le agenzie di scommesse aggiornano le quotazioni: a Trump, che è sempre stato sfavorito, ora vengono attribuite il 97% di chances di vincere la Presidenza.

Ed é a questo punto che il 45esimo Presidente degli Stati Uniti si convince – irrimediabilmente e definitivamente – di aver rivinto le elezioni.

Se fosse un anno normale, avrebbe ragione lui. Peccato si tratti del 2020, l’anno del cigno nero, dove i raffronti col passato non servono a nulla. Infatti, a furia di sottovalutare il Covid, Trump si è dimenticato che queste elezioni, proprio a causa del Covid, rappresentano un unicum mai visto prima. Per evitare assembramenti ai seggi, le procedure di voto in molti Stati-chiave sono state semplificate: non serve più uscire di casa settimane prima, registrarsi, tornare a casa, aspettare la consegna per posta della scheda elettorale e poi, il giorno delle elezioni, recarsi al seggio, mettersi in coda e finalmente esprimere il proprio voto. Si può votare comodamente da casa propria, con una scheda ricevuta a domicilio, da consegnare al postino.
Come al solito gli Stati Uniti non conoscono mezze misure: la procedura standard, in uso in buona parte degli Stati più importanti, era un guazzabuglio fatto apposta per escludere dal voto determinati settori della popolazione, a cominciare dagli afroamericani; quella, a misura di Covid, utilizzata in Stati come il Nevada, nel resto del mondo non sarebbe giudicata adatta nemmeno per eleggere il vincitore di un reality show.
Ma le regole sono regole, e mentre i democratici hanno passato settimane a setacciare casa per casa i loro elettori per assicurarsi che votino tutti, Trump – e i repubblicani a ruota – hanno passato il tempo a denunciare il rischio di possibili brogli, ma fregandosene di fare altrettanto.
E così, quando la sera lascia spazio alla notte, e gli uffici postali iniziano a consegnare le schede ricevute nei giorni precedenti, ci si rende conto di due cose: che il numero totale di voti è senza precedenti – per effetto delle nuove procedure – e che la maggior parte dei voti inviati per posta, circa 2 su 3, è favorevole a Joe Biden.
A quel punto è solo una questione di aritmetica, l’unico ambito umano ancora immune dalla partigianeria ideologica: basta segnarsi il totale dei voti ancora non scrutinati, guardare il divario tra i due candidati e far di conto.
Dopo averci dato dentro di calcolatrice, i democratici capiscono di aver vinto, e mentre alla Casa Bianca hanno già stappato le bottiglie e lo champagne diventa tiepido, il candidato democratico e sua moglie, a Philadelphia, si presentano sul palco annunciando quello che diventerà chiaro a tutti la mattina dopo: grazie ai voti via posta, Joe Biden è il nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Per Trump è uno shock da cui non si riprenderà più.
L’uomo ha il carattere che ha, lo stesso che fece divertire l’America quando macinava record di ascolti con The Apprentice, lo stesso che, solo un paio di anni dopo, lo ha trasformato in una versione a stelle e strisce di Adolph Hitler o in un Abramo Lincoln del Ventunesimo Secolo, a seconda della posizione di partenza dell’osservatore.
Il bello è che le cose non sarebbero neanche troppo compromesse.
Pur sconfitto, Trump ha preso oltre 74 milioni di voti: per fare un raffronto, l’Obama da record del 2008, quello che avrebbe dovuto cambiare il mondo “once and for all”, ne prese 69 milioni e mezzo.
Nessun Presidente uscente ha raccolto i voti che ha preso Trump alla fine del suo primo mandato , nessuno ha visto crescere i propri voti in maniera così imponente da un’elezione all’altra (+11 milioni).
E, cosa ancor più sorprendente per chi ha letto almeno una volta un quotidiano negli ultimi anni, questa crescita è avvenuta non tra le file dei suprematisti bianchi ma tra le minoranze:  latinos, asiatici, afroamericani.
Non basta: trainati da Trump, i Repubblicani hanno ribaltato le previsioni secondo cui i democratici avrebbero fatto carne di porco degli avversari. La realtà è che, alla Camera, i Repubblicani non solo non perdono seggi ma li aumentano, e al Senato restano appesi all’esito dei ballottaggi in Georgia.
Trump, insomma, potrebbe allora concentrarsi sui ballottaggi, in modo da consegnare il Senato in mani repubblicane – cosa che paralizzerebbe completamente l’agenda di Biden – per poi mettere a frutto l’enorme consenso per diventare il deus ex machina del GOP. E visto che ci sono ancora due mesi per autoconcedersi la grazia ed evitare la tuta arancione in arrivo per una scontata condanna per evasione fiscale, iniziare a lavorare per un epico comeback nel 2024.
Ma come dice Don Draper in Mad Men “un uomo non è che il prodotto del suo carattere” e questi ragionamenti sono estranei a un tizio col temperamento di The Donald, cui l’accoglienza a metà tra la rock star e Papa Francesco che folle oceaniche gli hanno tributato per tutta la campagna elettorale, non ha fatto altro che ingrandire a dismisura un ego già grosso come la Fifth Avenue.

Incapace di resistere a se stesso, Trump molla i freni inibitori sprofondando in un abisso psicotico.

Convinto di poter davvero ribaltare il risultato delle elezioni, si aggrappa a quel bollito di Rudolph Giuliani, il quale non vede l’ora i portargli via un bel po’ di quattrini inventandosi cause senza capo né coda; prende a retwettare i deliri di comprovati malati di mente come Lin Wood, di professione avvocato, che invoca l’intervento di un plotone di esecuzione per giustiziare i Senatori infedeli, o il generale Flynn che chiede la legge marziale.
Purtroppo per lui, nessuna persona normale si azzarda a contraddirlo, nessuno prova a mettersi di traverso mentre marcia al passo dell’oca verso il punto di non ritorno: con i quasi 75 milioni di voti presi, mettersi contro di lui vuol dire nel migliore dei casi sparire dalla scena politica, svegliarsi di fianco alla testa di un cavallo con in bocca un cheeseburger.
Così i Repubblicani scelgono di far finta di niente, sperando in un ritorno alla ragione che purtroppo per loro non avviene: il 5 gennaio si svolgono i ballottaggi in Georgia e il GOP li perde entrambi, in molti non vanno a votare “perché come dice Trump il sistema è corrotto”. L’onorevole sconfitta è già diventata disfatta, e la colpa è tutta sua.
Arriva il fatidico 6 gennaio. A Washington si presenta una folla oceanica: bandiere, grigliate, pick-up, U-S-A  U-S-A, pare di essere a un Superbowl mischiato con WrestleMania.
E così si arriva al tentativo di dirottare l’elezione del Presidente della prima potenza bellica mondiale grazie a un manipolo di ultras e bovari, armati di cellulari per farsi i selfies da mandare agli alcolizzati della fiera della porchetta, che riescono a penetrare dentro  Capitol Hill,  ovvero quello che dovrebbe essere uno degli edifici più impenetrabili del mondo, e a causare tafferugli da stadio che costeranno la vita a cinque persone.
Ogni persona di buon senso si rende subito conto che una roba del genere può essere accaduta solo con la complicità di qualcuno  e ci si augura di scoprire al più presto di chi e con quali finalità. Ma  la vera domanda resta come sia stato possibile che la democrazia più grande del mondo sia stata teatro di una situazione che pare uscita da un film del primo Woody Allen.
La risposta ruota attorno al tema della legittimazione dell’avversario, condizione necessaria e non negoziabile di ogni democrazia.

Trump, come si sa, come ci è stato ricordato dai media ogni giorno negli ultimi 4 anni, è campione di questa disciplina, e del resto egli stesso non è la causa ma la conseguenza di un processo iniziato ben prima, con l’incredibile ascesa del Tea Party, all’inizio della scorsa decade, e che affonda le radici nello sciagurato secondo mandato di Bush, con la crisi finanziaria del 2008 da cui gli Stati Uniti, e il mondo intero a ruota, non si sono mai davvero ripresi.

Ma e’ arrivato il momento di riconoscere che della start-up “distruggiamo gli Stati Uniti d’America” i democratici detengono l’altro 50% delle azioni.

I media e l’opinione pubblica democratica non hanno mai riconosciuto l’esito delle elezioni 2016,  preferendo rifugiarsi in quella leggenda metropolitana del Russiagate. Invece di chiedersi cosa fare per aggiustare un sistema economico che evidentemente non funziona piu’  e salvare  quel che resta del ceto medio per sottrarlo alle sirene del populismo, hanno preferito incolpare gli hacker russi fino ad azzardare la più spericolata richiesta di impeachment della Storia recente. Invece di interrogarsi sulle origini della “white rage” hanno preferito bollare le decine di milioni di sostenitori del Presidente come indegni, escludendoli dall’insieme delle persone rispettabili: dichiararsi sostenitori di Trump, in America, vuol dire avere problemi a trovare o a mantenere il proprio lavoro, o scordarsi completamente di iniziare una carriera in certi settori.
E’ per questo che, quattro anni dopo, in un clima giocoforza più esacerbato, sono gli elettori Repubblicani a non legittimare la vittoria democratica. Certo, nessuno durante la Presidenza Trump ha assaltato il Senato: ma ai cortei subito dopo la sua vittoria (che avevamo raccontato qui) lo si riteneva indegno di governare e si prometteva una lotta dura senza paura prima ancora che lui si fosse insediato, per tacere di quanto accaduto in seguito, dalle statue decapitate ai tumulti nei campus ogni volta che parlava un esponente conservatore. Il tutto senza che un democratico muovesse un dito, senza che mai nessuno si avventurasse ad affermare il principio che la Presidenza Trump poteva e doveva essere criticata su base fattuale ma non su base ideologica e pregiudiziale.
La differenza tra le due mancate legittimazioni, insomma, è di grado e non di sostanza: e l’unica conseguenza possibile è la fine della democrazia in quanto tale, sostituita da un suo surrogato distopico, in cui la democrazia esiste ancora a livello formale ma è completamente svuotata di sostanza.
Il sangue versato in suo nome costringe finalmente Trump a un brusco ritorno sulla Terra, da lui abbandonata la notte del 3 novembre: ma ormai è troppo tardi. I paraguri della Silicon Valley – a cominciare da Jack Dorsey di Twitter, il multimiliardario che si traveste da frate Francescano per abbindolare i gonzi – colgono la palla al balzo e per ingraziarsi la futura amministrazione, ed evitare discorsi su tasse e anti-trust, bannano il Presidente degli Stati Uniti d’America da ogni piattaforma possibile.
Si invoca un nuovo impeachment o addirittura il 25esimo emendamento, quello per cui il Presidente viene cacciato perché considerato un pericolo per il suo Paese. Gli stessi Repubblicani spingono per le dimissioni, proprio come avevano fatto con Nixon nel 1974.
Dei 74 milioni di elettori e dell’immenso capitale politico che da loro derivava non è rimasto nulla: spazzati via dalle decisione scellerate del quasi ex-Presidente, che ha preferito inseguire uno sciamano con le corna, invece che fare politica.

Ulteriori osservazioni:

–       Possono bannare Trump e i conservatori da tutti i social, possono eliminare dall’Apple Store, da Amazon e da Google le piattaforme create dai sostenitori di Trump, possono costringere i provider della TV via cavo ad eliminare FoxNews, e in futuro potranno rendere irraggiungibili  siti di informazione di destra o creare iphone orwelliani che appena dici delle parole proibite ti esplodono in mano: ma se c’è una cosa che la Storia ha insegnato è che le idee si sconfiggono nel merito e non con la censura.
Censurandole, e costringendo le persone alla clandestinità, le idee si incancreniscono, finendo per trasformarsi in incubi.
Purtroppo gli americani – per ignoranza, per vocazione imperialista e tradizione puritana – conoscono, da sempre, solo un modo di trattare col nemico: scotennarlo, annichilirlo, raderlo al suolo.
La Grande Purga che in queste ore la triade composta da politica, media e Silicon Valley sta imponendo ai conservatori sta creando le condizioni per qualcosa di terribile che oggi ci sembra improbabile, ma che sicuramente appare più realistica di ieri e che domani sarà inevitabile.

–       Trump è stato bannato perché non ha rispettato le “linee guida della comunità” ma su Twitter trova ancora spazio un tipetto  come l’Ayatollah iraniano Ali Khamenei, abituato a definire lo Stato di Israele un cancro, augurandosi la morte di ogni suo cittadino. Oppure, trovano spazio Ministri e funzionari del Partito  Comunista Cinese secondo cui il Dalai Lama è un assassino e il Covid è stato creato in Italia. Queste “linee guida”, insomma, sono la più grande paraculata prodotta nella Storia dell’Unione.

–       E per restare in tema di opinioni scomode e contrarie al mainstream, che ne facciamo di quel conservatore che con la sua propaganda e i suoi collaboratori attivi in tutto il mondo, pretende di decidere quello che centinaia di milioni di donne devono fare col proprio corpo, battendosi contro l’aborto e la fecondazione assistita, per giunta fiero avversatore delle adozioni omosessuali, oscurantista e antiscientifico al punto da considerare un’eresia la ricerca sulle cellule staminali – vietate in Italia per causa sua?
Se si banna Donald Trump, non si capisce su quali basi la stessa sorte non tocchi al Papa, che magari una volta bannato aprirà un suo social con sede ad Avignone affinché il ritorno al Medioevo giunga a compimento.
Fantascienza? Chissà.
Certo la millenaria domanda platonica su chi controllerà i controllori ha finalmente trovato una risposta: il Controllore Unico delle Coscienze è il Miliardario Francescano Jack e ai liberal sembra andar bene così.
Trump appartiene al passato, essendosi auto-condannato all’esclusione a causa della sua inconsistenza politica: le conseguenze della Crociata Ideologica intrapresa contro di lui, invece, si faranno sentire in futuro, e il prezzo lo pagheremo tutti.

–       Twitter, tra l’altro, gode dei privilegi sanciti dalla famosa “section 230”, la legge che deriva dal Communication Act del 1934 e che solleva i social networks dalle responsabilità per i contenuti pubblicati dagli utenti.
E chi sono stati i più grandi avversari della section 230 e dei giganti della Silicon Valley in questi ultimi anni?
Bernie Sanders ed Elizabeth Warren (secondo chi scrive, i migliori candidati possibili alla Presidenza, ma questa è un’altra storia), gli esponenti più radicali dei democratici, che hanno fatto capire che, se fossero andati al potere, per i Big Tech sarebbe finita la pacchia.
Insomma: quel gran paraguro di @Jack, prima permette per anni a Trump di dire quello che vuole, esattamente come continua a fare  con tutti i leader più spietati della Terra. Poi, quando al potere vanno gli altri, censura Trump e i suoi sostenitori. E  di section 230, tra i democratici, non parla più nessuno.

–       Nei 74 milioni di reietti che hanno scelto Trump ci sono dentro tantissime cose: sciamani e proud boys, ciarpame razzista e complottista, ma anche milioni di operai della Rust Belt che votarono per Obama, buona parte del ceto medio-alto che guadagna almeno 75 mila dollari l’anno e una percentuale incredibilmente alta di sudamericani o asiatici di prima o seconda generazione, che alla faccia del razzismo al contrario di chi si ostina a considerarli “minoranze” – come fossero panda da proteggere e non individui – rifiutano di vedere la loro identità ridotta unicamente alla questione della razza.
La realtà, insomma, si dimostra sempre estremamente più complicata di come la dipinge il manicheismo dei Buoni, nelle cui fila, tra l’altro, ci sono anche milioni di persone per bene ma anche gli idioti che decapitano le statue e alcuni tra i finanzieri più spietati e sanguinari del pianeta; ma questa infinita gradazione di grigi e di chiaroscuri non serve a prendere like né voti, non moltiplica le views sui social, non scalda il cuore degli estremisti di ambo le parti, gli unici a cui – per ragioni economiche – si rivolgono ormai politici e media.

–       Ashili Babbitt, la 35enne morta durante l’assalto al Congresso, stava compiendo un reato, per il quale avrebbe dovuto essere arrestata e processata, come sta avvenendo in queste ore ai suoi colleghi.
Purtroppo, è stata ammazzata come un cane, con un colpo di pistola alla giugulare sparato da un paio di metri.
Visto che la donna, come mostrato chiaramente nel drammatico video, non stava cercando di resistere all’arresto né provando a scappare, bisogna chiamare le cose per quello che sono: Ashili Babbitt è una donna uccisa dalla polizia (femminicidio?).
Il fatto che si liquidi il tutto con un “se l’è andata a cercare” è inaccettabile, perché significa ammettere che chiunque sia sorpreso a compiere un reato, per esempio chi nella scorsa estate sfasciava auto o vetrine, debba aspettarsi la stessa sorte: significa cioè uscire dallo stato di diritto e entrare nello stato di polizia.
Il fatto che questo avvenga e che i media liberal (a proposito: ci vuole davvero una grande ironia per continuare a chiamarsi “liberal”) abbiano scavato nella sua vita per dimostrare che era una poco di buono, è un altro sintomo dell’irrimediabile miseria morale di questa gente.

–       La palma dei migliori, comunque, spetta come al solito ai democratici all’amatriciana di casa nostra. Quelli che un anno e mezzo fa (non vent’anni fa: un anno e mezzo fa) gonfiavano il petto, tutti goduti per il tweet di Trump in favore del Presidente del Consiglio che assicurava al nascente Governo giallo-rosso “piena legittimazione internazionale” (cit La Repubblica!) al ribaltone , oggi traducono indignati gli articoli del Times e del Washington Post per spiegare ai rari lettori rimasti quale razza di criminale sia lo stesso Donald Trump.
Persino in tempi come questi la loro totale mancanza di senso del ridicolo e del pudore lascia a bocca aperta.

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