America

Più giornalisti che supporter: Hillary Clinton vista da molto vicino

7 Aprile 2016

Fa un freddo cane martedì mattina per le strade di Brooklyn. Con qualche linea di febbre mi aggiro dalle parti di President Street, cercando di trovare l’incrocio giusto. Passo davanti a lunghe file di case con i classici mattoncini rossi. Dev’essere un quartiere molto pio, a giudicare dal numero di chiese che incontro. Il vento è sferzante e già comincio a chiedermi perché non me ne sono rimasto a casa a dormire. La nostalgia del letto si interrompe di botto, quando mi trovo davanti a un edificio piuttosto grande, dalle vetrate alte. Tiro fuori il telefono per controllare la email di registrazione. Sì, si tratta del posto giusto. E’ il Medgar Evers College.

Entro nell’edificio: una scuola dai corridoi ampi e scuri. Il tempo di rendermi conto dove sono, e scorgo un poliziotto alla reception. Gli chiedo se è qui che oggi Hillary Clinton terrà un evento elettorale. Lui mi risponde prontamente di seguire le due ragazze che stanno uscendo. Io, che tra la febbre e il freddo, non sono particolarmente sveglio ci metto un po’ a inquadrare la situazione. Finalmente mi è chiara: individuo le due. Le fermo e chiedo se stanno andando da Hillary. Mi dicono di sì. Mi accodo quindi, nella speranza di non perdermi.

Una delle due è taciturna: sembra Tina Pica nei momenti di collera. L’altra è più socievole, viene dalla Georgia. E mi dice subito di essere eccitata per vedere Hillary: è una sostenitrice accanita. Proseguiamo per un paio di isolati. A un certo punto scorgo un edificio rosso con davanti una serie di camion. Sono della televisione. Da NBC a CNN: ce ne sono molti. Azzardo alle mie compagne che probabilmente il posto sia questo, vista la massiccia presenza mediatica. La ragazza della Georgia mi guarda stupita come se avessi avuto l’intuizione del secolo. L’altra invece mantiene il consueto atteggiamento: non parla.

Ci avviciniamo. Si tratta di un distaccamento del Medgar Evers College. Oltre ai camion, notiamo che all’entrata dell’edificio qualche poliziotto sta montando dei metal detector. Per il resto, in giro non c’è un cane. Anzi, no. Due ragazzi sono fermi lì davanti. Sembrano in attesa. Ci avviciniamo. “Siete anche voi qui per l’evento elettorale di Hillary?” La risposta è sì. Si fa amicizia. Cominciamo a parlare.

Io sono francamente curioso di sapere perché dei giovani elettori sostengano Hillary Clinton, visto che praticamente tutti i sondaggi la danno in testa soltanto tra gli anziani. Cerco di capire. E iniziamo a parlare. Uno dei ragazzi è un giovane imprenditore. Viene dal New Jersey ma abita nel Financial District e vota a New York (dove il prossimo 19 aprile si terranno le primarie democratiche). Non è un fanatico ma uno stratega. Pragmatico. Diciamo pure un tantino opportunista. “L’altra sera sono stato a un town hall del John Kasich”, mi dice, “Per me sarebbe il migliore. Ma non ha speranze. Giovedì sera sono stato da Bernie, oggi voglio sentire che cosa dice Hillary. Credo più in lei, è più concreta e ha delle politiche più attuabili. L’idea di Bernie di trasferire qui in America il sistema di welfare danese è del tutto irrealizzabile. Anche la sua retorica contro l’1% di Manhattan non mi convince: perché alla fine è quell’1% che paga le tasse e assume la gente”. Un’altra ragazza, studentessa alla New York University invece non fa calcoli politici. Non è un’invasata ma ha le idee chiare: “Hillary è razionale. Non fa una politica urlata: spiega le cose. Non è carismatica ma è affidabile e capace”.

Passa circa un’ora e mezza. E oltra a noi cinque non si vede un’anima. Inizio ad avere dei dubbi che questa sia l’entrata giusta. Sarà che giovedì scorso sono stato a un comizio di Sanders nel Bronx in mezzo a 18.000 persone, e adesso tutto mi appare piccolo. Ma non è possibile che non venga nessuno ad ascoltare Hillary Clinton: per di più a New York, dove è stata senatrice per otto anni! A un certo punto si aggiunge un altro paio di persone. Una è una donna bassina, con occhiali da sole e un cappello alto. Sul cappotto ha appuntate una trafila di spillette inneggianti a Hillary. Dice subito di essere un’attivista storica e di seguire l’ex first lady ovunque vada. L’altro è un ragazzo un po’ stralunato. A un certo punto si lascia scappare di essere un indeciso e che potrebbe anche votare Sanders. Apriti cielo! La signora con le spillette attacca una tiritera in difesa del suo idolo politico: “Dobbiamo essere orgogliosi di Hillary! Dobbiamo essere orgogliosi che una donna come lei sia stata segretario di Stato! Dev’essere il prossimo presidente degli Stati Uniti!”. Le cose non migliorano quando un altro ragazzo si avvicina e – non capisco con quanta sincerità – dichiara candidamente: “Io penso di votare Donald Trump”. La signora scatta di nuovo: “Devi leggere, informarti! Leggi il programma di Hillary!” E giù a sciorinare consigli bibliografici e indirizzi di siti web.

Qualche persona comincia a vedersi. Ma parliamo di una fila modesta. A un certo punto compare un tizio, ben piazzato ed elegantissimo. Il ragazzo del New Jersey mi confida all’orecchio che si tratta di un noto anchorman di CNN. Effettivamente la faccia non mi è nuova. Ma non ricordo il nome. Comunque, visto che si mette a stringere le mani a tutti, gliela stringo pure io. Non si sa mai.

Passa un’altra ora. La fila aumenta leggermente. Si conteranno duecento persone. A un certo punto, irrompe un gruppo di afroamericani. Iniziano ad attaccare sui muri e i lampioni bandiere di Haiti. E brandiscono cartelli non propriamente amichevoli verso la famiglia Clinton. Pochi minuti e scatta la contestazione. La cosa più carina che urlano contro Hillary è “In galera! In galera!”. Spunta anche qualcuno con la spilla delle Black Panthers. L’ambiente si surriscalda. La fila clintoniana inizialmente resta in silenzio. Poi si stufa e risponde in coro: “I’m with her!”. Qualcuno va dal poliziotto di stanza davanti all’entrata, chiedendo che i contestatori vengano allontanati sull’altro lato della strada per ragioni di sicurezza: sono troppo vicini. Ma la polizia per il momento non interviene. I due gruppi si fronteggiano, muro contro muro, ripetendosi in faccia slogan e urla.

Nel parapiglia, la fila aumenta un altro po’. L’apertura delle porte è prevista per l’1,30. Ci siamo quasi. Iniziano a vedersi gli attivisti. Distribuiscono adesivi con lo stemma  “H”, cercano volontari e raccolgono indirizzi di posta elettronica. Io do il mio. Dopo neanche un’ora mi mandano già una email, chiedendomi contributi economici per il finanziamento della campagna: un’organizzazione ottimale, non c’è che dire. Finalmente si aprono le porte. Ci fanno passare a piccoli gruppi: i metal detector sono appena un paio e i controlli rigidissimi. Ci siamo: accedo al sacrario.

La scena che mi trovo davanti ha del paradossale. Sono in una palestra non eccessivamente grande. Musica da discoteca a palla. Età media: sessant’anni. Resto francamente un po’ stralunato. Individuo le sedie e mi piazzo in seconda fila. Una volta accomodatomi, inizio a guardarmi intorno. Sullo sfondo una gigantesca bandiera americana. Ovunque lo slogan della campagna “Fighting for us”. La metà anteriore della sala è dedicata al pubblico, quella posteriore ai media: che hanno letteralmente schierato un arsenale immenso di telecamere e macchine fotografiche: neanche dovesse parlare Barack Obama in persona. CNN poi è in testa e domina la scena. Ed è a questo punto che il mio Lubrano interiore si desta e una domanda mi sorge spontanea: va bene che sta per arrivare la candidata con le maggiori chances di diventare presidente ad oggi. Ma al comizio di Sanders nel Bronx giovedì questa copertura mediatica colossale non l’ho vista: e c’erano 18.000 persone, non 500 come oggi. Vuoi vedere che quei matti dei sandersiani, quando dicono di avere i media contro, un tantino di ragione ce l’hanno?

Intanto mi guardo intorno. Voglio capire chi è l’elettore di Hillary. Vedo soprattutto donne. Molte afroamericane. Diverse le femministe convinte: sono attiviste di una certa età, che sfoggiano con orgoglio spillette e gadget di campagne elettorali precedenti. Perché alla fine questo è l’unico collante che riesco a scorgere in una sala non particolarmente compatta dal punto di vista ideologico: il femminismo. Non si sa poi con quanta credibilità, visti gli allegri affari condotti negli anni dalla Fondazione Clinton con paesi non propriamente all’avanguardia sui diritti femminili (vedi l’Arabia Saudita). In generale, si respira un’aria vecchia. Di passato. Un amarcord che vorrebbe tornare in auge ma che fatica e non ci riesce. E questo non perché alcune battaglie non siano ancora attuali e giuste. Ma semplicemente perché i fondamenti di queste elezioni presidenziali, piaccia o meno, sono altri. E la stessa roboante difesa dei diritti delle donne da parte di Hillary oggi appare come il disperato tentativo di trovare un fattore coesivo per una campagna ideologicamente smagliata e incoerente. Una campagna che ha visto nei mesi giravolte e piroette programmatiche di ogni tipo. Tutto questo mentre le elettrici giovani abbandonano l’ex first lady, migrando tra le file di Sanders e dicendosi ormai estranee alla questione femminista tradizionalmente intesa. E’ Madeleine Albright contro Rosario Dawson: due generazioni di donne in dissidio e che non si capiscono. 

Il momento si avvicina. Sul palco parlano alcune donne. Testimoniano la loro fedeltà all’ex first lady, tessendone gli elogi e dicendosi convinte della sua vittoria il prossimo novembre. Si tratta di collaboratrici e parenti di vittime rimaste uccise da scontri con armi da fuoco o con le forze dell’ordine. “Hillary sa ascoltare. E farà il possibile per mutare questa situazione”. “Ho lavorato con lei e posso garantirvi che è la persona adatta per il ruolo di presidente”. “E’ una grande mamma e una meravigliosa nonna”.

Il pubblico però inizia a spazientirsi. La star doveva arrivare alle 2,30. Sono le 4. E ancora non si vede. A un certo punto la musica si alza. Torna il clima da discoteca. O da balera. Il pubblico scatta in piedi. Arriva o non arriva? Tutti allungano il collo. Qualcuno accenna a qualche passo di danza. Io ho le gambe formicolanti e mi metto a zompettare, mentre la vicina di posto mi guarda interdetta. Posizionano un podio al centro del palco. L’attesa prosegue. La musica va avanti. Ogni tanto scoppiano coretti al suono di “Hillary! Hillary!”, ma durano poco. E aspettiamo. Non posso sedermi, altrimenti poi rischio di perdermi l’entrata. La playlist prosegue. Parte Happy: e giù tutti a salutare. Improvvisamente la musica si ferma. E’ ora? Una voce fuori campo non lascia spazio a dubbi: “Signore e signori, la deputata Yvette Clarke, la first lady dello Stato di New York, Chirlane McCray, e il segretario di Stato Hillary Clinton!”.

Sulle note di Fight Song, entra Hillary: abitino grigio un po’ dimesso, pettinatura gloriosa in biondo fuoco: ci sarà anche un motivo se sul suo profilo Twitter si definisce orgogliosamente “hair icon”. Avanza tra il plauso della folla, saluta, vuole mostrarsi in sintonia col popolo. Fa anche qualche faccia un po’ strana. Si siede. Ha una compostezza e un’eleganza borboniche, la dignità di una Maria Antonietta. Una luce quasi mistica sembra illuminarle il volto. Assume una posa composta, a tratti regale, guardando – ispirata – verso l’alto, mentre ascolta compiaciuta gli encomi tessutile da Clarke e McCray. Entrambe non si limitano a parlare delle sue innumerevoli virtù ma, in barba alla scaramanzia, si dicono convinte che sarà lei il prossimo presidente degli Stati Uniti. Hillary, principescamente, ascolta, annuisce e applaude. Poi si alza. Impugna il microfono. E’ il suo momento.

“Dobbiamo rendere questa nazione più sicura. E dobbiamo farlo in un modo che sia coerente con i nostri valori. Ma soprattutto dobbiamo renderla unita: troppe persone stanno cercando di dividere l’America”. Si concentra poi sulla questione femminile: “Dobbiamo dire alle nostre figlie: sì, tu puoi fare quello che vuoi. Anche il presidente degli Stati Uniti”. Sull’economia si richiama brevemente all’eredità del marito. E per un attimo sembra tornare in campo la Hillary destrorsa del 2008, quella della lotta contro il liberal Barack Obama: “Negli anni ’90 eravamo sulla strada giusta”, scandisce, “E poi che cosa è successo? Ve lo dico io che cosa è successo: la Corte Suprema ha fatto presidente George W. Bush. Quindi ricordatevi quanto è importante votare un presidente anche guardando alla Corte Suprema”.

Ma sa che è sul lavoro che deve battere, perché Sanders qui la sta pericolosamente insidiando. E non sarà un caso che Hillary sia venuta proprio a Brooklyn, dove il rivale è nato, per portargli la guerra in casa: “Abbiamo bisogno di più posti di lavoro, più infrastrutture, più lavoro nel settore manifatturiero avanzato”. Anche il comparto dell’energia pulita dev’essere rinforzato, soprattutto guardando all’impatto ambientale e al contrasto del climate change. “Dobbiamo poi occuparci anche dell’educazione. Ogni bambino e ogni ragazzo merita un alto livello di istruzione”. Duro attacco poi a Donald Trump sulla politica estera: secondo l’ex first lady, la proposta di vietare temporaneamente in America l’ingresso ai musulmani comprometterebbe la possibilità di un’alleanza con le potenze islamiche moderate in funzione anti-terroristica.

Hillary passa quindi alla salute femminile, dopo che pochi giorni fa era finita al centro di una polemica sull’aborto: “Ogni donna deve avere una sanità accessibile. Le donne devono essere libere di fare autonomamente le proprie scelte in ambito di salute riproduttiva. Trump è stato il più offensivo: ha detto che l’aborto dev’essere illegale e che le donne e i dottori che lo praticano devono essere puniti. Questo è il cuore della libertà femminile. E lo difenderemo. Prima di Obamacare, la riforma sanitaria si chiamava Hillarycare”. E conclude: “Queste elezioni sono cruciali. Tutte le elezioni sono importanti. Ma questa lo è di più. Qui è in gioco se proseguire l’eredità del presidente Obama o mandarla a monte. Sono entusiasta di avere una possibilità qui a Brooklyn, sono entusiasta di essere qui a Medgar Evers, di vedere qui tutti voi. Io credo che i valori di New York siano i valori dell’America!”

Parte la musica. Ovazione del pubblico. Tutti gridano: “Hillary! Hillary!”. La principessa sa che non può esimersi. E parte il giro delle prime file, salutando sostenitori e scattando selfie. Mi fiondo anch’io sul davanti. Il servizio di sicurezza la placca. E’ inclemente. Ma alla fine riesco a stringerle la mano. E l’immagine che mi si stampa in testa è solo una: quella dei re taumaturghi medievali, che curavano la scrofole della plebaglia con il solo tocco delle dita. Non dico che vedere Hillary Clinton a un metro di distanza e stringerle la mano sia stata un’esperienza mistica. Ma poco c’è mancato. Unico rimpianto? Avrei potuto approfittarne per chiederle di scambiarci gli indirizzi email…

Hillary passeggia sicura sul palco, mentre si allontana. E’  stata dura, articolata, sofisticata. A suo modo algida ma anche vigorosa. E’ analitica e spietata. Detiene una forza politica aristocratica: nella peggiore e migliore delle accezioni. E’ una superba e ricca feudataria che pretende la Casa Bianca quasi per diritto ereditario. Ma ha anche conoscenza ed esperienza su come muovere le leve del potere, con profondità e lungimiranza. Questa è la sua lotta contro il populismo. Questa la sua ferocissima battaglia contro il nemico Bernie Sanders. E’ Lucio Silla contro Caio Mario: non ha carisma ma è scaltra. Sa dissimulare. E, come i Bush, è capace di incarnare un moderatismo nobiliare potenzialmente inclusivo e grandioso. Ma oggi fuori tempo massimo.

Perché alla fine è proprio questo il punto. Al di là di una partecipazione esigua, martedì Hillary ha mostrato di non avere un popolo. Di non avere un’idea, un principio, una causa per cui battersi realmente, compattando un elettorato disomogeneo e frastagliato. Troppo facile fare comodi confronti con Bernie Sanders, il cui messaggio più radicale gli consente ovviamente una maggiore presa comunicativa oltre che politica. Ma il problema di Hillary è ben più profondo. E’ strutturale. E riguarda il senso ultimo di una candidatura, sempre più vista come espressione di una mera brama dinastica. Il tutto mentre lo scandalo Emailgate, la scarsa chiarezza sulla fondazione di famiglia e le continue giravolte politiche non hanno fatto altro che aggravare una situazione elettorale sempre più drammatica. Per tornare in auge, Hillary dovrebbe rispondere soltanto a una semplice ma fondamentale domanda: chiarire qual sia il significato della sua candidatura. Una domanda cui tuttavia non risponde. Una domanda cui non vuole rispondere. Una domanda cui forse non può rispondere.

Giovedì sera, da Sanders, ho percepito qualcosa. Un messaggio radicale. Utopistico, magari. Ma sincero. Un’esplosione di popolo, fanatica forse, ma concreta, reale, palpabile nella sua crudezza anti-sistema. Martedì, da Hillary, ho assistito a uno spettacolo teatrale. A un discorso ben congegnato, sofisticato, ottimamente articolato, aristocratico nei tempi e nei modi: ma vuoto. E non perché abbia detto qualcosa di fondamentalmente sbagliato: nel suo centrismo piacione, è difficile che Hillary riesca a scontentare davvero qualcuno. No. Il punto è che la politica non è fatta solo di giuste battaglie e belle parole: è fatta anche di coerenza personale. E’ fatta di credibilità. Un valore ben difficile da rappresentare, quando accetti di incarnare tutto e il contrario di tutto: quando annaspi in mezzo al guado per non prendere atto del tuo crepuscolo. In tal senso – anche se a novembre Hillary dovesse riuscire a conquistare lo Studio Ovale – queste elezioni, lei, moralmente le ha già perse. Le ha perse perché non è riuscita a creare niente di nuovo. Le ha perse perché non ha a che fare nulla con il futuro. Le ha perse perché non ha fatto altro che cercare di perpetuare egoisticamente sé stessa.

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