America

A sessant’anni dalla Rivoluzione cubana

2 Gennaio 2019

È importante ricordare l’anniversario della rivoluzione cubana, cercando di non farsi influenzare da che cosa è avvenuto dopo e da che cosa Cuba è oggi. La rivolta dei «barbudos», culminata nell’ingresso all’Avana il 2 gennaio 1959, non fu una rivoluzione comunista e l’adesione al campo sovietico avvenne soltanto in seguito, un esito non scontato date le premesse dei rivoluzionari. Del resto, nel «Movimento 26 luglio» che guidava la rivoluzione vi erano i rappresentanti di diverse correnti, come un vero e proprio Comitato di liberazione nazionale. Il suo leader, Fidel Castro, aveva sì studiato anche i testi del marxismo, ma, a differenza dell’altro grande punto di riferimento dei ribelli, Ernesto «Che» Guevara, era soprattutto un nazionalista e da giovane aveva aderito al Partito Ortodosso, che aveva come finalità il conseguimento dell’indipendenza dal potente vicino che condizionava la politica e l’economia cubana, gli Stati Uniti. L’eroe di Castro non era Marx, né Lenin, ma José Martí, il leader del movimento dell’indipendenza cubana dalla Spagna. Gli Usa, oltre a tenere in piedi il regime dittatoriale di Fulgencio Batista, controllavano le risorse del paese (soprattutto il mercato della canna da zucchero) e avevano fatto di Cuba un vero e proprio bordello alla loro mercé.

Il grande successo dei rivoluzionari però fu dovuto soprattutto alla loro capacità di comprendere i problemi dei campesinos, che sotto il regime di Batista vivevano in condizioni di miseria e di subumanità. D’altronde la guerriglia iniziata da un manipolo di pochi uomini non avrebbe avuto speranza di allargarsi e di radicarsi senza la generosa protezione dei miserabili delle campagne, disposti a nascondere e a nutrire con quel poco che avevano i rivoluzionari di Fidel. La condizione dei contadini si misura in alcune cifre: negli anni Cinquanta l’85% dei campesinos non aveva acqua corrente ma usava quella dei fiumi, il 94% non aveva servizi igienici in casa, il 96% non aveva il frigorifero. In città era solo un po’ meglio, ma anche lì godevano dei comfort soltanto i dignitari del regime e i loro accoliti. Un quarto della popolazione cubana era analfabeta e meno del 5% dei bambini finiva la scuola media (dati che diventavano più gravi nelle campagne). Un quarto della forza lavoro era disoccupato e, tra gli occupati, il 23% lavorava nei campi per la raccolta della canna da zucchero nei grandi latifondi controllati da imprese straniere: un’occupazione (malpagata, vista l’abbondanza di forza lavoro) di 3 o 4 mesi, seguita da un lungo periodo di inattività non pagata e di fame. Erano diffuse la malaria e le malattie dell’alimentazione, mentre l’accesso alle cure mediche era un privilegio di pochi.

In questi e altri numeri così tragici, che l’Europa aveva superato un secolo prima, si capisce la forza e il successo della rivoluzione, della promessa di una riforma agraria e del programma di estensione a tutti dei diritti elementari (istruzione, cibo, sanità). Un programma che nei paesi europei era stato applicato dai partiti socialdemocratici e democristiani, non certo dai comunisti. Ma il dualismo della guerra fredda e l’impossibilità per gli Usa di creare un precedente che fosse di esempio per gli altri paesi dell’America Latina condussero alla chiusura dei canali di dialogo e al tentativo statunitense di riprendere il controllo dell’isola, con una radicalizzazione dello scontro. Non sappiamo se Cuba sarebbe scivolata comunque nel campo sovietico, ma certamente il realismo politico, di cui Fidel non era privo, ci insegna che è sempre meglio avere buoni rapporti con i paesi vicini piuttosto che confidare sull’amicizia di paesi molto lontani.

Se la vicenda di allora può insegnarci qualcosa, nel mondo disordinato in cui viviamo oggi, è che la chiusura e i muri favoriscono la radicalizzazione e lo scontro, e raramente portano al risultato auspicato dai falchi. Castro, almeno nei primi anni del suo regime e finché erano in vita coloro che avevano sofferto sotto Batista, godeva di un consenso reale, e ben pochi cubani, se non quelli che erano stati beneficiati dalla dittatura, erano disposti a tornare indietro: gli Usa se ne resero conto troppo tardi. Sessant’anni di sanzioni e di blocco dell’isola non hanno prodotto i risultati auspicati dalle amministrazioni americane: non è un buon segnale che Trump continui a ragionare anche su questo tema come se fossimo ancora negli anni Cinquanta.

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