Africa
Una soluzione umanitaria: in Africa la UE apra hope spots, non hotspots
La tragedia dei migranti che attraversano il Mediterraneo, e il dramma di un’Europa sempre più divisa, sono due atti simultanei di una catastrofe al rallentatore, che potrebbe sferrare un durissimo colpo a uno dei progetti più nobili della storia: l’unificazione di un continente che per molti secoli è stato soprattutto un’immensa macelleria.
Le persecuzioni religiose, la Guerra dei Trent’Anni, lo schiavismo, il colonialismo, le guerre napoleoniche, la Prima Guerra Mondiale, il fascismo, il nazismo, lo stalinismo, l’Olocausto, la Seconda Guerra Mondiale, le foibe, le democrazie popolari… Sono alcuni dei “regali” che francesi, tedeschi, inglesi, italiani, austriaci, belgi, spagnoli, olandesi e altri popoli europei hanno fatto a sé stessi e al resto del mondo nell’età moderna. Generando sofferenze indicibili per miliardi di esseri umani.
Quando una federazione (o qualcosa che assomiglia a essa) si sgretola, accadono cose atroci. È successo nell’ex-Yugoslavia: si pensi al sangue di Srebrenica, di Sarajevo, del Kosovo. È successo (sta ancora succedendo) nello spazio che fu l’Unione Sovietica: forse la guerra del Nagorno-Karabakh, la guerra civile tagika o la guerra civile in Ucraina dicono poco o nulla a chi vive a Milano o Lione, ma si tratta di avvenimenti che hanno provocato decine di migliaia di morti, e hanno funestato il destino di interi paesi.
Il processo di unificazione europeo ha garantito decenni di benessere, libertà e pace a decine di milioni di europei. Ha contribuito al miracolo economico italiano e tedesco nel Dopoguerra, alla fine della Guerra Fredda e al crollo del comunismo sovietico, alla difesa dei diritti umani in Europa e nel mondo, al boom del Nordest italiano, alla resurrezione economica di Polonia, Slovacchia, Ungheria, Cechia.
Oggi però tutto questo è messo in pericolo dalla stoltezza, dall’ingenuità o dall’arroganza non di un singolo leader europeo, ma di molti. Non di questo o quel governo, ma di tanti. Incolpare della crisi Orbán o la Merkel, giusto per menzionare due nomi-totem, è miope e inutile, e anche se ciascuno di noi ha giustamente le sue idee, il punto è che non sarà il gioco delle colpe e degli insulti a risolvere una crisi così grave, da mettere a rischio la tenuta stessa dell’Unione Europea.
Se accadrà l’irreparabile, se le prossime settimane (i prossimi giorni) porteranno alla crisi del progetto europeo, tutti i leader europei – a cominciare da quelli più influenti, ma non solo loro – saranno responsabili, storicamente e moralmente, di una catastrofe che li vedrà per decenni sul banco degli imputati nel tribunale degli studiosi, e in quello della coscienza collettiva.
Così come Chamberlain è diventato, nel mondo anglosassone, il simbolo del politico ottuso e smidollato (l’anti-Churchill, si potrebbe dire), e Daladier è ancora oggi disprezzato in Francia, e l’accordo di Monaco continua a essere sinonimo, in tutto l’Occidente, di viltà e miopia, così l’imminente Consiglio europeo del 28 e del 29 giugno rischia di trasformarsi in un’assise che marchierà con l’infamia tutti i suoi partecipanti. La posta in gioco dunque è altissima, e tutti i leader europei sono chiamati, nell’interesse di tutti, a uno sforzo supplementare di saggezza, e immaginazione.
Partiamo dai fatti. Ogni anno decine di migliaia di uomini, donne, bambini e vecchi da tutta l’Africa cercano di attraversare il Mediterraneo per raggiungere il continente più ricco, libero e progredito del mondo. Come dargli torto? Alcuni di loro fuggono da dittature terribili come quella eritrea, altri dal cambiamento climatico (nel 2017, ad esempio, una terrificante siccità ha colpito il Corno d’Africa); alcuni scappano dal terrorismo islamista, altri da un destino di miseria. Molti prendono la via rischiosissima del mare, e cercano di raggiungere l’Italia. Spesso non per restare, sia chiaro, ma per poi riprendere il viaggio alla volta di Germania, Svezia, Regno Unito, Paesi Bassi.
Nel corso degli anni ho avuto modo di incontrare migranti nigeriani in Sicilia, profughi siriani alla stazione centrale di Milano, ragazzi somali o maliani che da Bolzano cercavano di raggiungere (in treno, in auto) la Baviera o l’Austria. Una volta, non lontano dal Brennero, ho intervistato per un settimanale straniero una signora nigeriana, che per oltre un anno era stata “trattenuta” in una prigione libica: lì i carcerieri l’avevano affamata, picchiata e stuprata. Che dire, quando ti raccontano una cosa del genere?
Di fronte a tragedie come quella della signora nigeriana, molti italiani dicono: “Aiutiamoli, accogliamoli”. Molti altri italiani rispondono: “Non possiamo accoglierli tutti, aiutiamoli a casa loro”. Chi ha torto, chi ha ragione? Hanno forse ragione entrambi? Hanno tutti e due egualmente torto? Dicono: “Aiutiamoli a casa loro”. Ma dov’è la casa di queste persone? In alcuni casi la casa è stata devastata: dalla guerra, dalla corruzione, dal cambiamento climatico, dal terrorismo, dalla miseria, dal passato coloniale, dalla tirannia, o da chissà quale altra piaga biblica. In altri casi non è nemmeno facile capire dove sia; come raccontava il 23 giugno a Repubblica l’Alto commissario Onu per i rifugiati, il milanese Filippo Grandi, dove mandare i duemila sudanesi attualmente ad Agadez (Niger), e provenienti da zone di guerra? Li si fa rimanere in Niger, li si manda in Sudan, in Chad, in Libia, in Algeria? Li spediamo in Italia, a Parigi, a Francoforte, in Lapponia?
Il problema è gigantesco. E così come in Italia ci sono opinioni diverse, ci sono divergenze anche nel resto d’Europa. In Germania c’è il pensiero della Merkel e quello del suo ministro degli interni Horst Seehofer, in Francia Macron deve tenere a bada l’opposizione di destra ed estrema destra, e così via. Tutti vogliono una “soluzione complessiva”. L’Italia ha proposto, attraverso il presidente del consiglio Giuseppe Conte, l’istituzione in Africa di hotspots per identificare i migranti e capire quali hanno diritto ad essere accolti in Europa.
Nessun paese africano, però, sembra volere questi hotspots (che ufficialmente si dovrebbero chiamare, nel curioso gergo bruxellese, regional disembarkation platforms). Per citare la bozza presentata qualche giorno fa dal presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, “such platforms should provide for rapid processing to distinguish between economic migrants and those in need of international protection, and reduce the incentive to embark on perilous journeys”.
Gli hotspots in Africa sono stati oggetto di varie critiche. C’è chi dice che è un modo ipocrita della UE per esternalizzare il problema, chi teme che si trasformino in lager o in nuovi focolai di tensione e instabilità regionale. Obiezioni legittime: il governo italiano deve comprendere che l’opinione pubblica europea va tenuta in considerazione (in fondo si tratta dell’elettorato di altri governi), e che gli approcci muscolari – nel lungo periodo – sono poco fruttuosi.
Tuttavia la tragedia dei migranti che rischiano la vita per raggiugere le coste italiane resta. Ed è anche vero che da anni la Marina Militare italiana è impegnata nel soccorso (moralmente doveroso) di uomini, donne, vecchi e bambini da tutta l’Africa, e anche dal Medio Oriente, e dall’Asia Centrale. Ed è altrettanto vero che l’Italia, in questi anni, è stata lasciata sola, come hanno ammesso autorevoli leader europei.
È comprensibile che la Tunisia – per citare una delle democrazie più promettenti e vitali del continente africano, e un paese storicamente amico dell’Italia – non voglia hotspots sul suo territorio: l’instabilità alla frontiera con la Libia è una sfida sufficientemente impegnativa (si legga, ad esempio, questo). Ma forse il governo tunisino cambierebbe idea se gli hotspots si trasformassero in hope spots.
In “piattaforme della speranza” realizzate dalla UE in collaborazione non solo con l’ACNUR e l’OIM, ma con partner continentali come l’Unione Africana e l’African Development Bank. Questi hope spots dovrebbero assolvere alle funzioni previste dalla già citata bozza di Tusk, ma dovrebbero essere anche luoghi di assistenza, supporto, formazione, speranza: chi arriva, a prescindere dal suo diritto a essere accolto o meno in Europa, dovrebbe ricevere quell’aiuto immediato a cui ogni essere umano ha diritto in virtù della Dichiarazione universale dei diritti umani, e che l’Europa moralmente e storicamente deve ai popoli africani, in ragione anche del suo passato colonialista, e di certe pratiche neocolonialiste degli ultimi anni.
Gli hope spots necessiterebbero di ospedali, scuole, chiese, moschee, mense, alloggi, uffici, centri di assistenza psicologica, spazi di formazione e rigenerazione. Non dovrebbero essere tendopoli o immensi campi-profughi, ma strutture degne di quel Piano Marshall per l’Africa che leader come il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani (o Berlusconi in Italia, e la Merkel in Germania) hanno spesso invocato. In questi hope spots, personale specializzato europeo e africano dovrebbe fornire a tutti i migranti assistenza psicologica, medica e legale, corsi di scienze agrarie, meccanica, informatica, lingue ecc.
Soprattutto, gli hope spots potrebbe rappresentare anche un’opportunità di crescita per le aziende tunisine, dato che per il loro funzionamento si dovrebbero costruire strade, fognature, edifici, sistemi elettrici ecc… In un paese quale la Tunisia, dove la disoccupazione giovanile è altissima e crea instabilità, gli hope spots potrebbero essere un importante sbocco lavorativo. La loro creazione dovrebbe essere accompagnata anche da misure europee a sostegno della conservazione ambientale, dell’economia e dell’industria tunisina. Che già oggi attira FDI da ogni angolo d’Europa: conosco imprenditori del Nordest italiano, attivi ad esempio nel tessile, che hanno recuperato margini di competitività nei confronti della Cina e dell’India aprendo stabilimenti in Tunisia, Marocco, Egitto.
Come in Tunisia, l’UE potrebbe aprire hope spots anche in Niger, Chad, Algeria e altri paesi. In collaborazione con le autorità locali e le organizzazioni africane continentali e regionali, gli hope spots avrebbero il potenziale per diventare l’asse di una rinnovata partnership euro-africana all’insegna della cooperazione internazionale, dei diritti umani e del pragmatismo. La proposta italiana, opportunamente modificata, potrebbe trasformare il Consiglio europeo del 28 e del 29 giugno, da fallimento, in un grande successo. Forgiando un compromesso umanitario tra populisti e liberali in grado di salvare l’Europa e migliaia di vite umane.
Fonte della foto: Pixabay
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