Africa

Se per sconfiggere Ebola ci vogliono anche gli uomini (non solo i farmaci)

30 Dicembre 2014

Non credo di essere un “eroe” ma so per certo di non essere un “untore”: sono solo un soldato che si è ferito nella lotta contro un nemico spietato. 

Così nella sua prima lettera da degente qualche giorno fa si è espresso Fabrizio, il medico di Emergency che ha contratto, unico italiano finora, il virus di Ebola. È finalmente convalescente: lo abbiamo seguito ogni giorno nel suo percorso di guarigione dalla malattia – le condizioni inizialmente difficili, la crisi dopo la trasfusione, la terapia sperimentale, la rianimazione – e poi l’uscita piano piano dalle condizione difficile.

Ci siamo talmente affezionati a questa persona che tra alcuni colleghi si è anche un gruppetto di tifosi “dai dai dai che ce la facciamo!”. Un tifo dispiegato ogni giorno alla lettura del comunicato stampa di metà pomeriggio che conteneva il bollettino medico.

Sapere che una persona che ha scelto, coscientemente, di andare a salvare persone che invece sono, nove su dieci condannate a un destino di morte, sia riuscito a sconfiggerla la terribile Ebola un po’ rincuora. Non per pressapochismo: sappiamo bene che il tipo di cure ricevute allo Spallanzani in Italia non è possibile riceverle in Africa. Che di passi avanti nella diffusione delle cure se ne devono fare ancora molti. Che i medici che scelgono di andare a combattere, come il nostro connazionale, da “soldato” contro una malattia sono ancora troppo pochi.

Proprio per questo meritano la menzione di Person of the year dal Time questi uomini e queste donne. E nell’anno che si sta per aprire non dimentichiamoceli. Non dimentichiamo la loro normalità, la consapevolezza del rischio, la volontà di esserci e di fare qualcosa. Se Ebola sarà curabile, un giorno, per tutti, non sarà merito solo della diffusione di un farmaco accessibile. Ma anche di chi oggi sta andando in Africa a rischiare di persona

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