Africa
Perché il Kenya è di fronte a un passaggio epocale
La sorpresa e il clamore che in molti paesi africani ha suscitato la decisione della Corte Suprema del Kenya di annullare il risultato delle ultime elezioni presidenziali, vinte all’inizio di agosto dal presidente uscente Uhuru Kenyatta contro Raila Odinga (figli rispettivamente del primo presidente e del primo vicepresidente del paese), dà il polso del passaggio cui stiamo assistendo. Se sarà un tornante epocale lo diranno i prossimi mesi.
In Africa infatti non mancano elezioni, parlamenti, presidenti, anche presidenti donne, partiti politici e campagne elettorali accese, televisioni, siti internet e giornali di diverso orientamento. A causare problemi di credibilità delle democrazie africane è sempre stato piuttosto il sistema giudiziario, scarsamente o per nulla indipendente dalla classe politica al potere. Si è così assistito a epocali passaggi di potere avvenuti spesso con elezioni più o meno regolari (altre volte con guerre civili). Ma una costante ha caratterizzato questi cambiamenti: le conseguenze giudiziarie sugli sconfitti.
Con il passaggio dei poteri, spesso i tribunali hanno allestito clamorosi processi per corruzione o per crimini di sangue (nel caso di un conflitto civile) nei confronti dell’ex presidente, della sua famiglia e della sua cerchia, senza nessun tipo di coinvolgimento di personaggi facenti parte del nuovo corso politico, anche se provenienti dal precedente.
E’ il caso della Costa d’Avorio, dove, dopo la vittoria del grande amico di Sarkozy, Alassane Ouattara, nel 2010 contro il presidente in carica Laurent Gbagbo e la conseguente guerra civile a cui la Francia non è stata del tutto estranea, si è assistito a processi e purghe contro la vecchia classe dirigente. Iniziative in gran parte giuste, che però non hanno coinvolto nessun membro del nuovo regime, nemmeno il molto discusso Guillaume Soro, su cui pendono accuse piuttosto gravi avanzate dalla comunità internazionale per le violenze commesse dalle milizie che facevano riferimento a lui. Soro è il numero due di Ouattara.
Ma anche in Senegal, dopo che nel 2012 Macky Sall ha vinto contro l’eccentrico e sotto certi aspetti autoritario Abdoulaye Wade, è iniziata una stagione di processi, che hanno visto anche il figlio di Wade, Karim, finire in carcere. Naturalmente le indagini non hanno investito la classe dirigente al potere, che in gran parte proviene dal vecchio regime con cui ha rotto poco prima delle nuove elezioni.
Gli esempi potrebbero estendersi a numerosi altri casi. In Kenya va riconosciuto che finalmente questo intreccio tra esecutivo e potere giudiziario è stato smentito dal gesto di indipendenza dei giudici della Corte Suprema. E la risposta responsabile di Uhuru Kenyatta, che sembra un’altra persona rispetto a quel giovane leader che solo dieci anni fa provocò una rivolta per contestare i risultati elettorali, determinando un bagno di sangue, fa sperare in una normalizzazione.
Di certo se il processo avviato dai giudici dovesse proseguire con successo e la politica non lo ostacolasse, si getterebbero le basi perché l’auspicio espresso più volte dallo stesso Kenyatta prenda forma: cioè che prima o poi a giudicare i crimini dei politici africani siano i tribunali africani e non quelli internazionali.
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