Africa
Perché il fango di Freetown ci riguarda
Non c’è da sorprendersi se la morte violenta di un europeo apre le prime pagine dei nostri giornali, mentre due-trecento morti africani sono naturalmente collocati in uno spazio secondario, dopo le polemiche ferragostane e dopo le interviste su un animale maltrattato in Italia. E’ così da sempre, perfino nell’epoca della globalizzazione: un morto a noi più vicino ci emoziona più di centinaia nel Terzo Mondo.
Forse sono trecento i morti per la frana che ha colpito Freetown, la capitale della Sierra Leone, secondo alcuni potrebbero essere molti di più: in Africa è così, le tragedie mietono centinaia o migliaia di vittime alla volta. In un giorno i sierraleonesi piangono tanti morti quanti quelli che Ebola faceva ogni mese, tra 2015 e 2016. Ma Ebola ci faceva più impressione perché un medico italiano di Emergency o un infermiere francese di un’altra ong che assistevano i malati potevano portarcelo in Europa. Le frane di fango invece non prendono l’aereo.
Le tragedie che colpiscono le città africane sono molto più devastanti che altrove perché molte di queste città sono sovraffollate. Freetown è cresciuta in maniera esplosiva, ovviamente senza un piano regolatore, negli anni Novanta, quelli della guerra civile, quando la popolazione scappava dalle atrocità commesse dai ribelli del Revolutionary United Front (Ruf), la milizia che terrorizzava i contadini con mutilazioni e uccisioni e che reclutava i bambini come soldati.
I ribelli erano foraggiati dal presidente liberiano Charles Taylor, che vendeva loro le armi in cambio dei diamanti, i blood diamonds, estratti nelle aree controllate dal Ruf e che venivano immessi illegalmente nel mercato internazionale insieme con quelli liberiani. Le nostre armi arrivavano in Liberia e in Sierra Leone tramite i contrabbandieri. Tra i principali sponsor americani di Taylor – che intratteneva rapporti d’affari con lobbisti Usa che in cambio intercedevano per lui al Congresso – c’era il predicatore evangelico e affarista Pat Robertson, che ottenne dal presidente liberiano una concessione per una miniera d’oro. Robertson ruppe con George W. Bush, quando questi mise una taglia su Taylor, ormai divenuto imbarazzante per gli Usa.
Coloro che scappavano a Freetown, dove speravano di sfuggire ai ribelli, si ammassavano nelle periferie della città. La fine della guerra civile, all’inizio degli anni Duemila, non ha interrotto il flusso demografico: oggi Freetown, che si adagia in una striscia di terra tra l’Oceano e le colline, ha il doppio degli abitanti che aveva nel 1990.
Era del resto difficile, alla fine della guerra, ricostruire comunità devastate da un decennio di violenze. E in più si è cominciato ad assistere perfino in questo piccolo paese allo stesso fenomeno che colpisce altri paesi africani poveri: anche in Sierra Leone è in atto il land grabbing, ossia l’acquisto a prezzi stracciati di vastissime porzioni di aree agricole da parte di grosse società specializzate (delle più svariate nazionalità occidentali o di paesi emergenti). Sono per lo più terre dello Stato da sempre sfruttate dai contadini, che, in periodi di difficoltà finanziarie, i governi africani offrono agli stranieri con concessioni di molti decenni, spesso di quasi un secolo. Queste terre vengono in genere riconvertite a coltivazioni da export (in Sierra Leone soprattutto palma da olio e canna da zucchero per biocarburanti) o a colture per soddisfare il fabbisogno alimentare di popolosi paesi emergenti come India e Cina, senza nessun vantaggio per la popolazione (che solo in parte diventa manodopera a basso costo) né per il settore primario locale (gli investimenti non migliorano la produzione agricola ad uso interno). La progressiva riduzione delle terre agricole per il fabbisogno interno spinge la popolazione verso i centri urbani, dove poi riceverà il cibo importato dall’estero o distribuito dalle ong.
Quartieri sovraffollati, case costruite senza regole a ridosso delle colline o sul mare, corsi d’acqua pieni di rifiuti (anche ospedalieri) per l’assenza di un valido sistema di smaltimento, insufficiente sistema di drenaggio: tutto questo ha più volte reso pericolose le frequenti inondazioni nella capitale durante i periodi più piovosi, fino alla tragedia di oggi. Questi morti non ci sarebbero stati se Freetown si fosse sviluppata in modo più armonico. Sono tutte conseguenze di lunghe catene di eventi apparentemente lontani che vedono i sierraleonesi spettatori impotenti, frustrati: oggi molte persone in qualche paese ricco o in un Brics stanno indossando un blood diamond e alcuni autobus in Europa stanno viaggiando a biocarburante importato dalla Sierra Leone. Perché ciò avvenisse centinaia di migliaia di sierraleonesi hanno negli ultimi vent’anni lasciato le zone interne per affollare la capitale e qualcuno di loro non è sopravvissuto all’inondazione di fango. Altri, adesso che hanno perso la casa e forse la famiglia, avranno un motivo in più per cercare di emigrare altrove.
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