Africa

Luci e ombre della nuova presidenza Weah in Liberia

28 Dicembre 2017

La vittoria elettorale di George Weah, divenuto presidente della Liberia al ballottaggio con il 60% dei voti, suscita qualche simpatia in Italia per il suo passato di calciatore di classe nel Milan e di rara sensibilità umana in quell’ambiente sportivo. Tuttavia deve anche porci qualche interrogativo su come saranno i prossimi sei anni, perché la strada che ha portato il campione alla presidenza non è così lineare e annovera personaggi piuttosto inquietanti. Il ruolo che essi avranno dopo il loro decisivo appoggio alle elezioni sarà cruciale.

La Liberia viene da due mandati di Ellen Johnson Sirleaf, la prima donna africana presidente, economista con alle spalle una carriera internazionale, che nel 2005 ha assunto la guida del paese con l’obiettivo di sanarne le ferite delle profonde divisioni, dovute a due sanguinose guerre civili (con un numero di vittime prossimo alle 300.000, circa il 10% della popolazione, e oltre un milione di sfollati), un duro regime guidato dal “signore della guerra” Charles Taylor e prima ancora, negli anni Ottanta, il regime autoritario di Samuel Doe. Inutile sottolineare che gran parte delle cause di questi conflitti risiedono nel controllo delle vaste risorse del paese – soprattutto i diamanti – e che ciascuna delle parti in causa ha avuto forti agganci internazionali. La stessa Sirleaf, del resto, aveva appoggiato inizialmente l’azione di Taylor, salvo allontanarsene e chiedendo poi scusa ai liberiani per questo. Taylor, presidente solo per un mandato (1997-2003), ma protagonista della prima guerra civile liberiana (1989-1997), è stato giudicato all’Aja dal Tribunale speciale per la Sierra Leone, paese dove le sue milizie hanno operato negli anni Novanta, e condannato a 50 anni di carcere per crimini contro l’umanità (omicidio, violenza sessuale, schiavitù) e crimini di guerra (terrorismo e torture). Per questa ragione, non ha potuto partecipare come testimone ai lavori della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, voluta dalla stessa Sirleaf, lasciando incompleta gran parte della ricostruzione delle responsabilità sue e dei suoi alleati nei crimini commessi in Liberia.

I risultati insoddisfacenti della commissione, che anche i politici del nuovo corso hanno tentato di ridimensionare, essendo stati più o meno tutti coinvolti in qualche forma di complicità nella violenza dei decenni passati, sono il segnale che questo paese non ha per niente superato le divisioni più recenti, nonostante una riconquistata normalizzazione politica – queste elezioni si sono svolte senza gravi incidenti –, graduali avanzamenti nei diritti civili e più deboli progressi economici, bruscamente interrotti dall’epidemia di Ebola nel 2014-2015.

Hanno così continuato ad avere un ruolo pubblico alcuni personaggi che oggi riemergono come decisivi nel processo elettorale. Lo sfidante di Weah era l’ex vicepresidente di Sirleaf, Joseph Boakai, politico di esperienza dal solido curriculum internazionale e con una breve collaborazione con Doe negli anni Ottanta. Weah, invece, ha portato in dote la sua storia di bambino cresciuto nei bassifondi della capitale, che senza istruzione è riuscito a ritagliarsi una carriera prima sportiva e poi politica. Con una semplificazione che ricorda alcuni proclami populisti di certi politici europei, Weah si è fatto vanto della sua scarsa istruzione, accusando i laureati che l’hanno preceduto di aver mantenuto il paese in povertà nonostante i loro titoli accademici.

Il problema di Weah, però, non è questo, quanto piuttosto la sua eccessiva disinvoltura nell’intrecciare alleanze con chiunque gli abbia offerto pacchetti di voti sicuri. Come candidata alla vice presidenza si è scelto l’ex moglie di Charles Taylor, Jewel Howard Taylor, già senatrice e garante di una continuità con quel mondo ancora legato all’ex “signore della guerra”. Formalmente Weah ha preso le distanze dall’ex presidente, ma non ha rifiutato una sua telefonata di auguri dal carcere – circostanza prontamente resa nota alla stampa. L’ex first lady è politicamente collocata su posizioni reazionarie e pochi anni fa si è resa famosa nel mondo per avere proposto, da senatrice, la pena di morte per gli omosessuali – misura bloccata dalla stessa Sirleaf, che pure su questo tema ha posizioni conservatrici.

Uno degli alleati decisivi di Weah in questo secondo turno è stato Prince Johnson, “signore della guerra” prima alleato e poi avversario di Taylor. Johnson è quell’uomo che nel famoso video (da non guardare in presenza di minori) della cattura di Samuel Doe, il 9 settembre 1990, è seduto a un tavolo e, mentre sorseggia una birra, ordina ai suoi sgherri di torturare il giovane presidente, facendogli tagliare le orecchie e le dita delle mani e dei piedi, per poi decapitarlo. Johnson, dopo avere brevemente assunto la presidenza, fu costretto alla fuga in Nigeria, per evitare di cadere a sua volta nelle mani di Taylor. In Nigeria si convertì al cristianesimo evangelico fondamentalista e, dopo la fine del regime del suo alleato-nemico, ritornò alla carriera politica in Liberia, candidandosi alle presidenziali del 2011 e poi a quelle del 2017: in entrambe ha ricevuto quasi gli stessi voti, tutti concentrati nella provincia di Nimba.

Il profilo di Weah e del gruppo di interessi che lo sostiene lo rende inevitabilmente prossimo al corso trumpiano degli Stati Uniti, paese da cui, com’è noto, provengono i fondatori della Liberia e che ha molti legami con il paese dell’Africa occidentale. Come Trump, anche l’ex Pallone d’Oro, privo di istruzione e con alleati imbarazzanti, succede a una presidente con alta popolarità nel paese, apprezzata a livello internazionale e vincitrice di un Nobel per la pace.

A differenza di Trump, però, Weah, a cui i tifosi che lo hanno apprezzato per anni riconoscono una maggiore intelligenza e sensibilità, conosce bene anche l’Europa e gli europei. Il suo programma elettorale, benché molto vago e non troppo dissimile da quello del suo avversario, non ha molti punti di contatto con quello del suo omologo d’oltreoceano, se non altro perché prevede ai primi posti investimenti nei settori della sanità e dell’istruzione pubbliche. Nelle differenze può provare a inserirsi l’Unione Europea, per cercare di stringere più solidi legami con Monrovia, evitando che il caos che Trump sta generando in ogni angolo del mondo di cui si interessa contagi anche l’Africa occidentale. Con conseguenze devastanti per l’Europa.

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