Africa
L’Africa sommersa di plastica
Una delle lobby più potenti al mondo, quella petrolchimica, si trova ad attraversare una grande crisi. L’accresciuto interesse per la questione ambientale e la pandemia hanno piegato gli affari delle aziende petrolifere. La soluzione migliore – ove migliore si fa per dire, naturalmente – per l’industria sarebbe quella di puntare forte sulla plastica. Gran parte dei mercati – e del mondo – è però già satura di questo materiale. Dunque che fare? Il settore potrebbe mettere nel mirino l’Africa.
Il continente nero come ancora di salvezza
Stando a un’inchiesta esaustiva del New York Times, l’American Chemistry Council (ACC), ovvero l’associazione rappresentante delle maggiori aziende chimiche e che producono energia fossile, starebbe facendo molte pressioni a Washington per siglare un’alleanza in nome della plastica. Fanno parte del concilio aziende come Exxon Mobil, Shell, Chevron e il gigante della chimica Dow. Attualmente sono in corso negoziati commerciali tra USA e Kenya. Lo Stato africano possiede una legislazione tra le più severe al mondo per quanto riguarda la plastica. Data la vicinanza delle elezioni presidenziali americane (inizio novembre) è prevedibile che la Casa Bianca assecondi le richieste dell’ACC. Anche il presidente keniano, Uhuru Kenyatta, ha lasciato intendere di voler chiudere quanto prima gli accordi.
Il Kenya, inoltre, si è impegnato a ridurre fortemente l’importazione dei rifiuti in plastica esteri. Non è raro che i Paesi meno sviluppati si facciano pagare raccogliendo il pattume dei Paesi più sviluppati. L’Occidente è quel fratello maggiore che può cederti parte della paghetta, se nascondi le sue malefatte a papà.
Ed Brzytwa, il direttore del commercio internazionale per ACC scrisse. in una lettera indirizzata all’ufficio del rappresentante statunitense per il commercio internazionale e datata 28 aprile: “Prevediamo che il Kenya possa diventare un centro nevralgico per rifornire altri mercati africani dei prodotti petrolchimici e plastici prodotti negli Stati Uniti.” La strategia è chiara, in barba ai tanti ambientalisti che si battono quotidianamente per la riduzione – almeno – dell’utilizzo di plastica e, quindi, della produzione delle ingenti quantità di rifiuti derivanti da essa, i quali sporcano e rovinano il nostro pianeta. Microplastiche sono state ritrovate anche in fondo alla Fossa delle Marianne (10.900 metri sotto la superficie dell’Oceano Pacifico) e si stima che siano ormai diventate anche parte della nostra dieta settimanale.
Esattamente come molti altri Paesi – diciamo pure come tutti gli altri Paesi – anche il Kenya deve fare i conti con la proliferazione della plastica.
Trasferire il problema
Il piano del Chemistry Council non ha numerosi estimatori in Africa. Secondo Griffins Ochieng, direttore esecutivo del Centre for Environmental Justice and Development, una ong di Nairobi, le proposte dell’ACC “si tradurrebbero in un inevitabile aumento di plastica e sostanze chimiche nell’ambiente. È sconvolgente.” Di fatto ha ragione.
Le strategie della lobby dei petrolieri riflettono l’agonia di un settore che vorrebbe continuare a trainare il mondo, senza accorgersi che esso sta lottando contro il riscaldamento globale, problema del quale è in gran parte responsabile. I profitti di quest’industria sono crollati, si è scritto in apertura, e ora c’è il timore – da parte degli addetti ai lavori – che l’emergenza climatica porti il mondo ad accantonare i combustibili fossili. Sarebbe ora passata ma naturalmente questi signori la vedono in maniera diversa.
Soltanto nell’ultimo decennio, l’investimento nella plastica dei magnati della petrolchimica è stato pari a 200 miliardi di dollari. Gran parte di questa somma è stata spesa per realizzare nuovi impianti, chimici e manifatturieri, negli Stati Uniti. Questo Paese, però, consuma già oggi una quantità di plastica che è superiore di 16 volte rispetto a quella dei paesi più poveri. Diffusissima, purtroppo, resta la plastica usa e getta. Ciò complica di molto la possibilità di immettere nuovi prodotti sul mercato interno. Naturalmente, a causa di questo spasmodico consumo è anche necessario trovare il modo di liberarsi di tutti i rifiuti in materie plastiche.
Secondo recenti statistiche commerciali, gli esportatori statunitensi hanno spedito, nel corso del 2019, circa 700mila tonnellate di rifiuti in plastica in 96 Paesi stranieri. Tra essi figura anche il Kenya. Ufficialmente tutta questa plastica viene riciclata ma data l’ingente quantità, spesso viene gettata senza troppi problemi nei fiumi e negli oceani. Va da sè che, tra le plastiche spedite lontano da casa, spesso e volentieri ci si mettono le più difficili da riciclare. Inevitabilmente, agendo in questa maniera, gli occidentali trasferiscono a latitudini più distanti il problema dello smaltimento dei rifiuti, non lo risolvono di certo.
Una nuova rotta
Fino al 2018 era la Cina che si faceva inviare la maggior parte dei rifiuti in plastica del mondo occidentale, facendosi pagare lautamente, poi il gigante asiatico ha scelto di chiudere i suoi porti a questo prodotto. Nel 2019, dunque, sono quadruplicate le esportazioni verso il continente nero.
L’American Chemistry Council sostiene l’importanza di gestire i rifiuti globalmente, creando infrastrutture per la raccolta, la differenziazione, il riciclo e la processazione della plastica usata. Soprattutto, precisa l’ACC, in Paesi in via di sviluppo. Com’è il Kenya.
Le trattative commerciali si trovano ancora in una fase che potremmo definire iniziale, non ci è dato sapere se esse andranno a buon fine o meno. I negoziatori africani non hanno dato alcun tipo di feedback alla stampa che sta seguendo più da vicino queste trattative; è però chiaro che se l’alleanza contenesse una golosa controparte economica, in fondi e/o investimenti nello Stato kenyota, il piatto si farebbe piuttosto ricco per i rappresentanti di Nairobi. Non sarebbe una novità neppure se, da parte statunitense, Washington concedesse all’industria petrolifera quel che vuole, inserendo nei trattati clausole che obblighino – de facto – il Kenya a ricevere una buona parte della plastica da buttare degli States.
Per il Kenya, dunque “suona un campanello di allarme. I lobbisti fanno proposte molto specifiche e i governi spesso le accettano.” Ha dichiarato Sharon Treat, avvocato per l’Institute for Agriculture and Trade Policy, una organizzazione indipendente consulente di Washington nelle trattative commerciali. Il piano dell’ACC è quello di realizzare nello Stato africano un importante hub della plastica, il quale sostenga un’espansione della fornitura di plastica americana non solo al Kenya ma anche a tutta l’Africa orientale.
Una politica restrittiva verso le plastiche
Il piano del Council calpesta allegramente le normative kenyote sull’utilizzo di plastica, le quali sono piuttosto restrittive. La legge, in Kenya, è infatti tra le più rigide al mondo relativamente a questo materiale, impedendo completamente l’utilizzo di sacchetti in plastica. Le pene per chi infranga queste norme arrivano fino al carcere. Bottigliette e cannucce di plastica, inoltre, sono bandite da ogni riserva e parco naturale.
A sentire Griffins Ochieng le buone intenzioni dell’industria petrolchimica, la quale continuamente afferma di volersi mettere in prima linea per il riciclo di materie plastiche, non convincono proprio nessuno tra gli ambientalisti. “Non possiamo permettere una crescita esponenziale della produzione di plastica. Il problema è proprio il materiale in sé.” Ricorda il direttore della ong di Nairobi. La notizia ha scosso numerosi attivisti in Kenya, come ad esempio il gruppo che fa capo proprio al Centre for Environmental Justice and Development. Come ha affermato la portavoce dell’organizzazione, Dorothy Otieno: “Abbiamo paura che il Kenya diventi una grande discarica di plastica. Non è solo questo Paese a rischiare ma tutta l’Africa.”
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