Africa

«Una guerra in Libia? Noi italiani abbiamo molto da perdere»

18 Febbraio 2015

La crisi in Libia, con il rafforzamento dell’Isis, ha alimentato il dibattito riguardo a una possibile guerra con l’Italia in prima linea. Gli Stati Generali hanno chiesto a Stefano Torelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di Politica internazionale (Ispi) ed esperto della situazione territoriale in Nord Africa, quali sono le conseguenze globali di questo scenario.

Leggendo la mappe attuali della Libia, è evidente che l’Isis stia avanzando, è vero, ma al momento ha preso solo Derna e Sirte. Ha davvero la forza per conquistare il resto del Paese, comprese le aree desertiche meridionali del Fezzan?

«Innanzitutto c’è bisogna di sgombrare il campo da un equivoco abbastanza evidente: quando si parla di Isis in Libia, non si tratta del movimento che si è spostato dall’Iraq e dalla Siria. Quelle che hanno conquistato Derna e Sirte sono formazioni locali libiche che hanno dichiarato una sorta di affiliazione all’Isis. Per il momento sono circa mille persone e non sembra che abbiano mezzi e uomini per arrivare a una conquista su vasta scala. È più probabile che dovranno concentrarsi sul mantenimento delle loro roccaforti. L’espansione in Libia resta comunque nelle intenzioni».

Che ruolo stanno giocando le numerose tribù presenti sul territorio, che da sempre svolgono una funzione importante nella vita politica libica?

«In una Libia spaccata, le tribù sono divise sui due fronti tra Alba della Libia e l’Operazione Dignità di Haftar. Sicuramente non stanno dando appoggio ai jihadisti».

Le manovre politiche per un intervento italiano in Libia sembrano iniziate. Quale rischio si corre ad avere i jihadisti a poche centinaia di chilometri dalle coste?

«C’è un rischio percepito più alto rispetto all’Isis in Iraq e in Siria, perché è di fronte alle nostre coste. D’altra parte è abbastanza difficile – non voglio dire impensabile – uno spostamento verso l’Italia. Di sicuro la loro presenza in Libia pone delle problematiche diverse rispetto a prima, ma non esiste una minaccia diretta di attacchi all’Italia. Anche l’equazione terrorismo/immigrazione è del tutto infondata. Non ci sono evidenze sullo sbarco di guerriglieri mischiati alla popolazione migrata. Queste formazioni hanno più interesse a consolidare la posizione sul territorio, continuando la battaglia locale».

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Un intervento armato dell’Italia comporterebbe più opportunità o più rischi?

«Da un punto di vista strategico l’Italia ha molto da perdere e poco da guadagnare. Oggettivamente è difficile pensare a un intervento che possa essere risolutivo. Addirittura potrebbe complicare la situazione, perché l’eventuale invio di soldati in Libia porrebbe l’Italia in una condizione di rischio. I militari diventerebbero un obiettivo ancora più sensibile. Il problema tattico di base è quello della divisione tra i due fronti, l’Alba della Libia e l’Operazione Dignità. Fino a che non ci sarà una riconciliazione tra queste posizioni, è difficile chiudere la crisi. E questo discorso va al di là della presenza dei jihadisti. Per questo bisogna capire come intervenire per riunificare le principali parti in causa».

E da un punto di vista economico quali problemi troverà l’Italia?

«Vi è il grande interesse legato al gas e al petrolio. La Libia è stato sempre uno dei grandi fornitori di idrocarburi al nostro Paese. D’altro canto, dal 2011 a oggi, l’Italia ha dimostrato di poter sostituire il petrolio libico con l’approvvigionamento a est, soprattutto in Paesi come l’Azerbaigian. Ci può essere una danno per gli interessi italiani, ma il sistema economico può ovviare a un’eventuale perdita di influenza sul territorio libico».

Passando allo scacchiere nordafricano: l’Egitto può avere un tornaconto, anche in termini territoriali, dalla guerra in Libia…

«L’Egitto è l’attore che può trarre maggiori vantaggi dalla situazione in Libia. Al Sisi porta avanti da più di un anno la guerra contro la Fratellanza musulmana, e la presenza di jihadisti al confine non lo rende tranquillo. Finora mancava un pretesto per agire: ora è arrivato con l’uccisione dei 21 copti a Sirte. L’obiettivo di al Sisi è quello di aiutare la vittoria di Haftar, che sarebbe un buon alleato per l’Egitto».

Marocco, Algeria e Tunisia avrebbero l’interesse a combattere i jihadisti oppure questa decisione potrebbe sortire l’effetto di animare gli estremisti in patria?

«L’Algeria è una sorta di modello nella lotta al terrorismo, ha molta esperienza in questo settore. Inoltre avrebbe degli interessi a intervenire: non è detto che non reagisca. Mentre i governi moderati di Marocco e Tunisia darebbero sicuramente il loro contributo nel caso in cui si dovesse formare un’alleanza regionale».

E invece quali Paesi devono essere considerati inaffidabili per un’eventuale guerra contro l’Isis?

«Qatar e Turchia appoggiano il governo di Tripoli, quello dell’Alba della Libia. Ma non c’è un sostegno all’Isis. Finché ci saranno interferenze esterne, e penso anche al supporto dato dall’Egitto ad Haftar, è chiaro che il conflitto è destinato ad alimentarsi».

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Stati Uniti e Russia, in tensione sul fronte dell’Ucraina, sono solo spettatori della crisi libica o agiscono dietro le quinte?

«La Russia sta assumendo una posizione più forte. Con l’ascesa al potere di Al Sisi, i rapporti con l’Egitto si sono intensificati. Nei mesi scorsi ci sono stati delle importanti commesse nel comparto militare. Poi nel pieno della crisi ucraina, Putin è andato in visita ufficiale al Cairo e ha ribadito il proprio sostegno al presidente egiziano. Gli Stati Uniti hanno creato vuoto, sospendendo gli aiuti militari all’Egitto. Si parlava di circa 3 miliardi di dollari all’anno. Così c’è il ritorno della Russia nell’area, con l’obiettivo di acquisire maggiore influenza nelle dinamiche globali».

Alcuni analisti temono una ipotetica saldatura tra Boko Haram, che inizia a colpire anche il Ciad, e l’Isis che avanza in Libia. Si tratta di uno scenario plausibile?

«Già da un paio d’anni ci sono sintomi di questo genere. Le varie realtà del jihadismo si sono già avvicinate con il rischio concreto che si possa creare una rete lungo l’Africa, dalla fascia del Sahel in su».

In estrema sintesi: dove può arrivare davvero l’Isis in Nord Africa?

«Non è un caso che l’Isis stia tentando di insediarsi in Libia, cioè il Paese meno stabile dell’area con un’assenza di istituzioni. C’è una similitudine con altre zone, come lo lo Yemen, l’Iraq, la Siria. Questi gruppi trovano terreno fertile in situazioni di estrema instabilità. È estremamente difficile che riescano a penetrare anche altrove. L’Egitto, nonostante i problemi del terrorismo sul Sinai, ha la forza per difendersi. Stesso discorso vale per la Tunisia e l’Algeria con la presenza di Istituzioni abbastanza forti. Il problema è quindi la Libia: la crisi può essere risolta andando alla radice, ossia cercando un accordo tra il governo di Tripoli e il generale Haftar per combattere insieme contro dell’Isis. Ma comunque non ci sono avvisaglie di propagazione nel Nord Africa».

 

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