Africa

Il Mali è un paese dilaniato dalla guerra, il rapporto di Human Rights Watch

10 Febbraio 2020

Non si parla molto dell’Africa che, come sempre, rimane un continente affacciato sull’Europa di cui però non si ha molta considerazione nei media mainstream e sui social network.
Eppure lo scorso anno, in Mali, sono stati uccisi almeno 500 civili e ne sono stati feriti molti altri in un’ondata crescente di violenza che rischia di vanificare gli sforzi diplomatici per stabilizzare uno degli stati più poveri dell’Africa occidentale. Gli attivisti di Human Rights Watch (HRW) hanno pubblicato un reportage di 90 pagine in cui si parla di una moltitudine di diversi gruppi armati in Mali che hanno bruciato vivi abitanti dei villaggi, usato bombe, prelevato sommariamente uomini all’interno di autobus per freddarli sul ciglio della strada e perpetrato decine di attacchi contro i civili. I gruppi islamici sono stati i più violenti, secondo il documento hanno ucciso, ad esempio, almeno 17 persone ad un funerale nascondendo una bomba sui resti di un disabile ucciso in un precedente attacco. HRW ha dichiarato che lo scorso anno è stato il peggiore per le vittime civili in Mali, da quando una coalizione di islamisti e uomini appartenenti alle tribù separatiste locali hanno preso il controllo di gran parte del nord del paese, provocando un intervento militare francese e un’operazione di pace che sta costando 1 miliardo di dollari all’anno senza però, al momento, dare alcun risultato.

Ma come è avvenuta l’escalation di violenza? Occorre fare qualche passo indietro.
Nel 2012 i gruppi armati di etnia separatista Tuareg e Al-Quaeda hanno conquistato facilmente le regioni settentrionali del paese, costituendo lo Stato indipendente dello Azawad. Nel 2013 la Francia è intervenuta militarmente nella zona e nel 2015 si è arrivati ad un accordo di pace tra governo e vari gruppi armati con il tentativo di ristabilire il controllo nel nord del Mali.
Allo stesso tempo i gruppi islamisti hanno però iniziato a diffondersi nel centro del paese e nel vicino Burkina Faso, prendendo soprattutto obiettivi militari. Con i loro attacchi hanno giustiziato leader della comunità locale e funzionari governativi utilizzando bombe piazzate sulle strade e imponendo come religione prevalente l’Islam. Il Mali (amministrativamente diviso in comuni e circoli) centrale è abitato soprattutto dai Pehul, un gruppo etnico noto anche come Fulani, ci sono poi il Bambara, il più grande gruppo etnico della nazionale; il Bozo; Dogon e Tellem che sono stanziati vicino al confine con il Burkina Faso. I gruppi islamici armati hanno concentrato i loro sforzi sul reclutamento dei Peuhl, sfruttando la loro avversione per la corruzione nel settore pubblico, la corsa alla terra e all’acqua, il brigantaggio e il nascere di gruppi abusivi di auto difesa.
Questo ha portato ad infiammare le tensioni tra i Pehul e le altre comunità che hanno sentito la necessità di costituire gruppi etnici a difesa dei propri villaggi. Le forze governative, secondo i leader dei vari gruppi, sono sempre state troppo lente per proteggere la popolazione dagli attacchi dei gruppi armati.

Nel 2019 forze militari Pehul, assieme agli islamisti, hanno operato diversi massacri contro i civili di etnia Dogon e Tellem dando vita ad un conflitto armato che è stato giudicato dalle Nazioni Unite come caratterizzante di “crimini contro l’umanità”, tenendo conto che la guerra nel centro del paese ha avuto un impatto senza precedenti su tutte le comunità. Per questo motivo l’Onu ha inviato almeno 13mila membri delle forze di pace per proteggere i civili ed arrestare gli autori delle violenze. Nel 2017 però la crescente insicurezza nella intera regione del Sahel ha spinto alla creazione di una forza antiterrorismo multinazionale regionale composta da truppe provenienti da Mali, Mauritania, Burkina Faso, Niger e Ciad. La forza, nota come Joint Force G5 Sahel, è stata subito messa in coordinamento con le truppe delle Nazioni Unite e quelle francesi.

HRW nel suo reportage ha documentato dozzine di episodi di violenza in cui hanno perso la vita nel 2019 – solo nel Mali centrale – almeno 340 civili (tra cui decine di bambini), con numerosi altri feriti, villaggi saccheggiati e distrutti e un numero di sfollati che raggiunge almeno 50mila persone.
La maggior parte delle vittime, tra gennaio e novembre 2019, è stata di etnia Pehul, con 284 morti, seguita da quella Dogon, con 56 morti. Molte delle uccisioni sono avvenute durante i normali orari di lavoro, sia in aree rurali che cittadine, tramite rappresaglie di cui è molto difficile tenere il conto. Testimoni oculari degli attacchi terroristici hanno affermato che la maggior parte dei civili feriti sono stati uccisi con colpi di arma da fuoco o bruciati vivi all’interno di diverse strutture. Molte sono state le vittime “collaterali”, soprattutto nei villaggi. Ad ogni attacco è quasi sempre seguito un continuo saccheggio delle abitazioni cui hanno spesso fatto seguito incendi e furti di bestiame. Ciò ha provocato migliaia di sfollati spinti dalla fame a cercare rimedio in altre località del paese, ha fatto sì che venissero chiuse almeno 525 scuole fermando l’istruzione di almeno 157mila bambini.

Guerrieri di etnia Dogon

Nel marzo dello scorso anno un gruppo di Dogon ha attaccato i villaggi di Ogossagou e Weingara massacrando 134 Pehul, distruggendo le loro case e uccidendo il loro bestiame. A operare l’attacco è stato il gruppo di auto difesa Dan Nan Ambassagou, nato nel 2016 dopo un attacco terroristico a villaggi Dogon.
Molti attacchi dei Dogon hanno avuto il medesimo rituale: decine di uomini che viaggiano in moto armati con fucili, machete, armi automatiche, RPG, e fanno irruzione in un villaggio alle prime ore del mattino dando alle fiamme le case e uccidendo i ciivil che tentano di fuggire, entrando poi nelle varie abitazioni talvolta mutilando e razziando i cadaveri. Tali rappresaglie sono quasi sempre organizzate e pianificate, con gruppi di aggressori che arrivano ad ondate e hanno vari compiti: avanzare, portare acqua, evacuare i feriti, radunare e saccheggiare il bestiame, dare fuoco alle case e andare di casa in casa alla ricerca di vittime o di eventuali bottini.

La guerra etnica, abbiamo visto, è prevalentemente combattuta tra Dogon e Pehul. I primi sono cacciatori, i secondi sono pastori semi-nomadi ed entrambi sono sempre all’estenuate ricerca di terreni e acqua potabile. I Dogon accusano i Pehul di avere rapporti con gli estremisti islamici, i Pehul ritengono invece che sia il governo centrale ad armare i Dogon.
La parte più instabile del Mali rimane la regione Mopti, dove ad avere la peggio sono state le etnie Dogon, colpite per il loro sostegno alle milizie di autodifesa. Nel Mali centrale è molto attivo un mosaico di gruppi armati islamici dalle alleanze mutevoli e sovrapposte, sono gruppi formati da uomini Dogon, Songhoi, Tuareg e Bella, spesso definiti come “jihadisti”, “aggressori”, “terroristi”, “gli uomini del bush”, “gli uomini in turbante”. I gruppi includono il Katibat Macina (o Macina Liberation Front) e Katibat Serma, entrambi guidati da Hamadoun Koufa Diallo, un predicatore Peuhl della regione di Mopti che è stato associato a gruppi collegati ad Al Qaeda. Nel novembre 2019, il Dipartimento di Stato americano ha riconosciuto Koufa come un terrorista di importanza globale. Altri gruppi includono: Ansaroul Islam, un gruppo armato islamista del Burkinabè, fondato alla fine del 2016 dal defunto Ibrahim Malam Dicko e ora guidato da suo fratello, Jafar Dicko; e dallo Stato Islamico del Grande Sahara (ISGS), che è emerso nel 2016 ed è presente in alcune aree al confine con il Burkina Faso. Nel 2017, Katibat Macina e quattro gruppi collegati ad Al Qaeda in Mali si sono fusi sotto il nome di Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin (JNIM), che significa “Gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”, guidato da Iyad Ag Ghaly, jihadista tuareg di vecchia data e leader del gruppo islamista armato Ansar Dine. Questi gruppi hanno rivendicato la responsabilità di attacchi contro obiettivi militari ma raramente di attacchi contro civili nonostante numerosi testimoni abbiano rivelato minacce di attacchi e presenza di esponenti di tali gruppi durante attacchi ai villaggi.

Dopo tutti i massacri del 2019 il governo maliano ha promesso di consegnare alla giustizia i responsabili delle peggiori atrocità. I tribunali hanno aperto diverse indagini e condannato 45 persone per episodi di violenza senza però aver ancora perseguito i potenti leader dei gruppi armati responsabili dei più sanguinosi attacchi. HRW auspica che il governo di Bamako faccia molto di più per perseguire i responsabili di crimini e abusi, cercando in ogni modo di smantellare i gruppi armati violenti. Questo significa dare maggiore protezione a chi sta compiendo le inchieste, aumentare il numero delle forze di sicurezza, del personale giudiziario e formare adeguatamente la polizia giudiziaria.
In questo, ovviamente, occorre che le organizzazioni internazionali aiutino il Mali a contenere la violenza, dando supporto per quando riguarda la magistratura e l’assistenza in caso di indagini necessariamente tempestive in seguito ad atrocità.

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