Africa

GERD, la grande diga che aiuta l’Etiopia a crescere più velocemente

17 Luglio 2015

Anni della scuola dell’obbligo ci impongono di associare al Nilo la tradizione millenaria della cultura egizia. Come se il fiume appartenesse in esclusiva ai faraoni, e come se persino oggi la civiltà dei geroglifici continuasse a dominare dalle piramidi, di nascosto, il corso del fiume e la fertilità delle sue piene. Più di cinquemila anni fa il re Menes ha fondato la prima dinastia insegnando che il potere sovrano discende dal disco solare e dal Nilo: questa è la sola regola che, dall’epoca della teocrazia e degli scribi-sacerdoti, continua a governare tutta l’area dell’Africa nord-orientale.

Ma se si contano i due tributari principali, il Nilo Bianco e il Nilo Azzurro, oltre seimila chilometri in totale, il fiume attraversa undici nazioni e rappresenta la risorsa vitale per una popolazione di oltre 160 milioni di persone, distribuite in territori per lo più aridi. Il primo trattato sullo sfruttamento delle sue acque del Nilo, stipulato in età moderna, risale al 1959: Eritrea e Sud Sudan non esistevano ancora come stati autonomi, e l’arretratezza generalizzata degli altri aveva di fatto concesso all’Egitto e al Sudan di interpretarsi come gli unici beneficiari delle sue ricchezze: ai territori amministrati da Il Cairo spetta il 75% delle acque, il 25% al governo di Khartoum. Ma nel 1999 nasce in Tanzania una nuova autorità, la Nile Basin Initiative, composta dai ministri degli Affari idrici di tutte le nazioni distribuite lungo il corso del fiume; ma fino al marzo del 2015 questo organismo di cooperazione internazionale non è stato in grado di ritoccare i termini del patto del 1959.

Quando nel 2010 l’Etiopia ha cominciato a gettare le basi del progetto di una grande diga sul Nilo Azzurro, una ventina di chilometri dal confine con il Sudan, l’allora presidente egiziano Mubarak aveva addirittura minacciato l’intervento militare con i cacciabombardieri per abbattere l’infrastruttura sul principale immissario del fiume (i cui cantieri sono stati affidati all’italiana Salini-Impregilo), e liquidare l’invaso di quasi duemila chilometri quadrati di superficie che dovrebbe generare: un lago ampio il doppio della superficie di Berlino, una volta e mezza quella di Roma o quella di Londra. Ma poi lo scenario è cambiato, Mubarak è uscito di scena, e nel frattempo Etiopia, Ruanda, Uganda, Tanzania, Kenya e Burundi, firmatari del Cooperative Framework Agreement, hanno potuto intraprendere un percorso diplomatico che si è concluso lo scorso 23 marzo con uno storico accordo che porta anche la firma di Al-Sisi, il nuovo presidente egiziano. Il cantiere italiano è in salvo, e si aggiunge alle prove di qualità dell’ingegneria italiana, celebrata da Matteo Renzi pochi giorni fa durante la visita ad un altro progetto di Salini-Impregilo in Etiopia – la diga Gibe III.

La diga è stata battezzata Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), e i lavori per la sua realizzazione «sono compiuti al 42%». Tutti i numeri che la riguardano sono giganteschi, dall’investimento per la sua costruzione, ai risultati attesi al momento della sua entrata in funzione, all’impatto sul PIL del paese. L’Etiopia si trova nell’elenco dei Paesi con più basso Indice di sviluppo umano secondo le stime dello United Nations Development Programme, che la collocano al 173° posto a livello globale, con un valore di 0,435 (l’Italia è al 26° con un indice di 0,872). Dal 2010 però la nazione africana è cresciuta del 6,35%, passando da 0,409 a 0,435. L’intero investimento di GERD (4,8 miliardi di euro) equivale a circa un decimo del PIL etiopico, a fronte di un’economia che sta crescendo stabilmente a un ritmo annuo del 10 per cento. Il finanziamento è sostenuto per intero dall’Etiopia, ricorrendo anche a la sottoscrizione popolare di un prestito obbligazionario emesso ad hoc.

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Lo sbarramento sarà il più esteso mai realizzato in Africa, con una cresta lunga 1.800 metri, un’altezza massima di 167 metri, un volume di dieci milioni di metri cubi di calcestruzzo rullato. Al piede della diga saranno attive due centrali per la produzione elettrica, con una potenza installata di 6 mila megawatt e una produzione di circa 15 mila gigawatt/ora all’anno. L’erogazione di energia sarà equivalente a 3 volte il consumo complessivo di energia previsto per l’intera Etiopia nel corso del 2015: il progetto del GERD equivale a circa 3 volte la potenza installata nella diga di Assuan in Egitto, e si propone come un hub di energia per l’intero continente africano e per la vicina penisola arabica. La produzione viene interamente da fonti rinnovabili, e non comporterà rilascio di CO2 nell’atmosfera.

Il progetto delle linee dell’alta tensione, non ancora incluse nei costi preventivati, dovrebbe irradiare energia rinnovabile dal GERD verso il Sudan, l’Egitto, il Kenya, la Somalia, e attraverso il Mar Rosso anche in Oman e in Arabia Saudita. Ma nei disegni più ambiziosi la rete potrebbe allargarsi fino al Sud Africa e al Marocco, e persino alla fascia settentrionale dei paesi del Mediterraneo. Visto da questa prospettiva, il dominio sul Nilo assume il volto di una liberazione dal privilegio di poche nazioni tradizionalmente egemoni sullo sfruttamento del fiume, e inaugura un’amministrazione fondata su un maggiore coordinamento tra gli interessi delle diverse nazioni dell’area, su una promessa di pace e di sviluppo economico per tutti.

La diga sorge in una regione piuttosto sperduta dell’Etiopia, il Benishangul-Gumuz, con un territorio più vasto dei Paesi Bassi ma con una popolazione equivalente ad un ventesimo degli olandesi. Le pagine relative a questa zona sui siti di turismo compilati dagli utenti rimangono desolatamente bianche, perché i trasporti sono difficili e non c’è nulla da vedere oltre i boschetti di bambù e le teche polverose del museo regionale nella capitale Assosa. Piramidi e faraoni sono lontani: nella regione mancano da sempre i requisiti essenziali per qualunque sviluppo economico. Solo il 13% della popolazione vive in insediamenti urbani, oltre tre quarti delle donne e più di metà degli uomini sono analfabeti, gran parte degli abitanti pratica un’economia agricola di sussistenza che sarebbe apparsa arretrata anche a Menes I e agli architetti della sua capitale Memphis. L’area si distende vicino al bordo occidentale dell’altopiano etiopico, è ricoperta di foreste e attraversata da fiumi attraversabili a guado, quasi mai attrezzati con ponti; se non bastasse, tre quarti degli 800 km di strade accidentate diventano impercorribili durante la stagione delle piogge, da giugno a settembre.

Dal luglio 2009 la nuova passione per le infrastrutture ha incentivato il governo locale a ristrutturare gran parte delle vie di comunicazione e ad aggiungere altri 400 km di carreggiate. Uomini e materiali devono arrivare fino al cantiere di GERD e tornare verso la capitale. Ma oltre a muovere uomini e mezzi, la costruzione dell’opera, affidata al gruppo italiano Salini Impregilo, sta avendo un forte impatto anche sul welfare della popolazione locale. Qui bisogna fare un passo indietro: ricordando che nel Benishangul-Gumuz la mortalità infantile è sopra il 15%, mentre quasi il 40% dei bambini sotto i cinque anni appare denutrito.

Per insediarsi nell’area, e procedere agevolmente con i lavori, Salini si è attrezzata con un piccolo ospedale, completato nel 2014 ed equipaggiato con le strutture mediche più moderne, provenienti direttamente dall’Italia, capace di ospitare venti degenti che necessitano di ricovero. Sono attive sei ambulanze e il servizio è garantito sette giorni su sette, giorno e notte, grazie ad un personale medico di ben 71 collaboratori. Il servizio, che in prima battuta è necessario per offrire assistenza ai lavoratori, è stato però aperto anche alla gente del posto.

L’afflusso di pazienti è cominciato nel 2012, con 5.400 casi di assistenza, nel 2013 è salito a più di 6.700 interventi, ed è arrivata a 73 mila casi trattati nel 2014 e ad oltre 80 mila consulti medici. L’operatività sanitaria non si limita all’ospedale, e richiede un piano di ampio respiro, capace di prendersi cura dei 13.200 lavoratori diretti sul cantiere, dell’indotto di altri 2.300 collaboratori, oltre alle loro famiglie e ai clan dei loro villaggi. Lo sguardo allargato all’intero sistema di presidio medico vede coinvolte ben 120 persone.

Il modello di welfare sanitario non si limita alla diagnosi di pronto intervento e alla somministrazione di cure; il programma include infatti anche il coinvolgimento delle famiglie locali in un piano di cultura di prevenzione delle malattie. La regione è esposta ad un rischio endemico di epidemie di tubercolosi e di AIDS. Ai consulti medici prestati nel corso del 2014 si aggiungono quasi 40 mila test di laboratorio, campagne di vaccinazione e 200 corsi alle famiglie con l’obiettivo di accrescere la consapevolezza dei comportamenti a rischio.

GERD libera il Corno d’Africa dalla povertà energetica e promette per gli anni a venire la spinta energetica necessaria allo sviluppo per l’intero continente. Ma fin da ora, nel corso della sua costruzione, la trasformazione è cominciata dal Benishangul-Gumuz. Una regione emarginata dalle sue paludi, dalla sua impercorribilità, dal suo isolamento privo di scrittura – comincia a conoscere la libertà di circolazione e la cultura del welfare, almeno a partire dalle cure mediche. La diga interrompe l’immobilismo millenario dell’oralità primaria, tracciando il percorso di una nuova storia iscritta attorno ai nomi dei vaccini, dei test, dei farmaci, dei turni di guardia; introducendo una nuova cultura, disegnata attorno alla preoccupazione per la qualità della vita di tutta la famiglia, fondata sulla previsione e sulla prevenzione, e su una prospettiva di salvaguardia della vita e di uscita dalla malnutrizione. Una nuova vita fuori dalla palude della sussistenza.

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