Africa
Cabinda, una guerra che puzza di petrolio
Nel mondo ci sono conflitti oscurati dai troppi interessi in ballo. Scontri che stravolgono la vita di decine di migliaia di persone inermi, ma di cui nessuno racconta, perché non ci sono buoni, ma solo cattivi, ovunque. Quello di Cabinda è uno di questi: da più di mezzo secolo, nella generale indifferenza dei media e della comunità internazionale, qui persiste un conflitto latente, in un piccolo territorio angolano chiuso tra il Congo-Brazzaville e la Repubblica Democratica del Congo. Si tratta dell’area più ricca del pianeta e, quindi, della più disgraziata.
Un’anomalia geografica, dovuta a scelte del colonialismo, ed un’anomalia geologica: è soprannominata il “Kuwait africano” per via delle sue immense riserve di petrolio e di altri minerali, per cui è stata l’oggetto dell’avidità delle potenze regionali e internazionali dal fin dal XVI secolo[1]: questo piccolo territorio (poco più grande della Palestina) che ospita solo 800’000 abitanti, è uno dei territori più ricchi del continente[2]. I suoi Cabindan appartengono all’etnia Bakongo e parlano Kikongo, la lingua dei Bantu congolesi, ma gli angolani combattono contro questa unicità etnica-culturale, imponendo il portoghese nelle scuole[3]. Il motivo è chiaro: l’enclave ricco di minerali quali il manganese, titanio, potassio, oro, uranio e fosfati[4], fornisce oltre il 60% del petrolio angolano[5], ovvero l’80% delle esportazioni nazionali[6]. I suoi 7.283 chilometri quadrati, in parte sepolti nella foresta di Mayombe e nel sottosuolo marino, hanno permesso all’Angola di diventare uno dei maggiori produttori di oro nero del continente africano[7]. Per giunta, Cabinda si trova in una posizione vantaggiosa per la navigazione, e questo l’ha resa una vittima predestinata, non appena gli europei l’hanno scoperta.
La Repubblica di Cabinda
Tra il 1600 e il 1700 la costa di Cabinda è un importante punto di partenza per la tratta degli schiavi africani[9]. Nel XIX secolo, il Clan Franque usurpa il potere dei Clan avversari (Nsambo, Npuna e Nkata Kolombo). La figura dominante, Francisco Franque, accumula ricchezza attraverso una stretta alleanza con i mercanti di schiavi brasiliani e la marina commerciale europea, ma il suo potere scema con la fine della tratta degli schiavi[10]. La Conferenza di Berlino del 1884 toglie al Portogallo la sponda nord del Congo, fino ad allora uno dei suoi principali scali commerciali, concedendo in cambio Cabinda[11]. L’anno seguente, sotto il dominio coloniale portoghese, il Portogallo ed i Franque firmano il Trattato di Simulambuco[12]: Cabinda diventa un “protettorato” con privilegi speciali, mentre l’Angola colonia a tutti gli effetti[13].
Nel 1956 viene scoperto il petrolio: i portoghesi rompono il trattato di Simulambuco e fanno di Cabinda una provincia della loro colonia angolana[14]. Quando, nel 1960, suona l’ora dell’indipendenza africana, il Portogallo rimane sordo e si ostina a voler controllare le proprie colonie (Angola, Mozambico, Guinea Bissau, Capo Verde, São Tomé e Principe), con la conseguente nascita, anche a Cabinda, di guerre nazionaliste[15]. Nel 1963 i tre gruppi indipendentisti, il MLEC Movimento per la liberazione dell’enclave di Cabinda, il CAUNC Comitato d’azione ed unione nazionale cabindese e l’Alleanza di Mayombe[16], si riuniscono nel FLEC Fronte per la Liberazione dell’Enclave di Cabinda[17], guidato da Luis de Gonzaga Ranque Franque[18].
Il FLEC si batte per l’indipendenza di Cabinda, come conseguenza logica del Trattato di Simulambuco[19], ma il movimento finisce con l’essere coinvolto nelle guerre civili angolane[20]. Nel 1974, dopo la Rivoluzione dei garofani a Lisbona[21], il Portogallo firma il trattato di Alvor con i tre principali gruppi indipendentisti angolani: il MPLA Movimento Popolare per la Liberazione dell’Angola, il FNLA Fronte Nazionale di Liberazione dell’Angola e l’UNITA Unione Nazionale per l’Indipendenza Totale dell’Angola, concedendo l’indipendenza all’Angola tutta, Cabinda inclusa[22].
Escluso dai negoziati, il FLEC dichiara l’indipendenza della Repubblica di Cabinda il 1° agosto 1975, e forma un governo in esilio guidato da Henrique N’zita Tiago. Luis Ranque Franque viene nominato presidente. Dopo il trattato di Alvor le truppe della MPLA, sostenute da reparti militari cubani, provenienti dal Congo Brazzaville, invadono Cabinda, rovesciano il governo provvisorio del FLEC e annettono la provincia[23]. La MPLA crea una compagnia petrolifera nazionale, la Sonangol, per gestire la fiorente industria petrolifera. Le entrate di Sonangol sono utilizzate per finanziare la lunga lotta contro l’UNITA, che invece si finanzia con le vendite di diamanti e legname, nonché le regalie del Sudafrica e del governo americano[24].
Il paese africano finisce fatalmente nel mirino delle grandi potenze mondiali a causa della ricchezza dei suoi giacimenti, con Stati Uniti e Unione Sovietica impegnate a sostenere le due opposte fazioni in lotta[25]. La giunta militare marxista-leninista salita al potere, sostenuta dall’URSS e Cuba, favorisce la MPLA. Di contro, i movimenti rivali FNLA e Unita[26] sono sostenuti dallo Zaire di Mobutu (Congo DRC)[27] che lotta per il controllo di Cabinda[28], dagli Stati Uniti, dal Sudafrica dell’apartheid, dalla CIA e… dalla Cina maoista[29]. L’Angola è in uno stato di confusão: espressione portoghese che rende bene l’idea di anarchia, abbandono e confusione in cui si trovano il Paese e i suoi abitanti[30].
Per la popolazione è un incubo[32]. Con l’arrivo di Gulf Oil, l’enclave diventa la principale fonte di reddito per il MPLA. In questo vortice manca ancora un attore: la francese Elf (oggi parte del colosso Total), ben radicata in Congo Brazzaville, dove gestisce i giacimenti di Pointe Noire, limitrofi a quelli di Cabinda. Elf è coinvolta in diverse porcherie[33], ed in questo conflitto sostiene il FLEC, guidato da José Auguste Tchioufou, un dipendente della stessa Elf-Congo[34]. Per evitare attacchi alle installazioni e al suo personale finanzia (ed arma) anche l’UNITA[35].
Alla fine ci saranno soldati cubani che difendono una multinazionale petrolifera americana contro gli ausiliari armati da una multinazionale petrolifera francese[36]. Negli anni ‘90, nonostante i cessate il fuoco e le elezioni del 1992, i combattimenti divengono più feroci che mai e oltre un quarto della popolazione di Cabinda è costretta a fuggire[37]. Alla fine del 2002, il conflitto armato si inasprisce, Luanda dispiega 30’000 soldati solo a Cabinda[38]. Con l’uccisione del leader dell’UNITA Jonas Savimbi entra in vigore un cessate il fuoco, ma il FLEC continua a combattere, ma viene sconfitto dalla MPLA[39].
Gli armamenti dei ribelli sono vetusti. Sporadicamente attaccano le truppe governative dispiegate a Cabinda, nonché obiettivi economici, tra cui il rapimento di dipendenti stranieri che lavorano nei settori del petrolio, del legname, dell’estrazione dell’oro e dell’edilizia. La loro efficacia è ostacolata da varie scissioni tra fazioni, in particolare la divisione tra FLEC-Renovada (FLEC-R)[40], guidata da Antonio Bento-Bembe[41], FLEC-FAC (Forze Armate di Cabinda)[42], guidato da Henriques Tiago N’Zita: di etnia Lindi, è un altro autoproclamato presidente di Cabinda, in esilio a Parigi dal 1991 e pagato da Elf[43].
Il terzo fronte di liberazione è costituito da un gruppo chiamato FDC, o Fronte democratico per Cabinda. Per il controllo dei depositi d’oro nella zona di Buco Zau di Cabinda avvengono scontri tra la FDC e le altre due fazioni del FLEC[44]. A metà del 2003, le Forças Armadas Angolanas (FAA) sconfiggono i ribelli e costringono il gruppo a firmare il cessate il fuoco – un accordo violato più volte da entrambe le parti. Il FLEC controlla ancora alcune aree della campagna di Cabinda e il conflitto continua a intermittenza[45].
L’attentato alla squadra del Togo
I guerriglieri guadagnano l’attenzione internazionale con un attacco alla squadra nazionale di calcio del Togo nel 2010[47]. A pochi mesi dai mondiali di calcio in Sudafrica, l’8 gennaio, gli Sparrowhawk, nome della squadra nazionale togolese, sono su un pullman verso l’Angola[48] per la Coppa d’Africa[49]. Il campo di allenamento è quello di Pointe Noir, Congo, a circa 100 km da dove si sarebbero giocate le partite, nella città di Cabinda[50]. Il pullman non arriverà mai: l’attacco, rivendicato dai miliziani del FLEC, uccide l’allenatore in seconda, il portavoce e l’autista[51] oltre al ferimento di altre nove persone[52].
I togolesi non c’entrano nulla con questa vicenda, ma il FLEC trova il modo di riaccendere l’attenzione intorno a un conflitto che dura da più di tre decenni nell’indifferenza generale[53]. Il segretario generale del FLEC, Rodrigues Mingas, in un comunicato spiega dispiaciuto che il bersaglio non era la squadra togolese, ma la scorta angolana[54]. Dal punto di vista mediatico, naturalmente, si tratta di un tremendo autogol. Nel 2016 muore il leader Henrique Tiago N’zita[55]. Il movimento continua ad esistere. Da parte sua, l’esercito angolano continua a inseguire i combattenti ed è regolarmente accusato di abusi e detenzioni arbitrarie[56].
La disgregazione del movimento in decine di fazioni, a volte rivali, a volte alleate, complica ogni tentativo di mediazione. La malafede del regime angolano, che non ha mai veramente cercato una soluzione negoziata, e il disinteresse della comunità internazionale, compromettono gli sforzi di pace[57]. Nel corso delle operazioni militari sono state commesse gravi e diffuse violazioni dei diritti umani contro la popolazione civile – nella totale impunità: esecuzioni, arresti e detenzioni arbitrarie, torture e violenze sessuali[58]. Le persone vengono condannate sulla base di confessioni ottenute sotto tortura[59]. Sia la FAA che la polizia nazionale angolana (Polícia National – PN) non indagano veramente. In alcuni casi, si sono limitati a trasferire i presunti autori, compresi gli ufficiali e l’unità dei responsabili, in un’altra provincia[60] .
Pochi giorni dopo le elezioni del 24 agosto 2022 il governo angolano ammette che sono stati compiuti attacchi non lontano dal confine congolese, in una zona che funge da base di retroguardia per combattenti per l’indipendenza[61]. Dalla sua elezione nel 2017, il presidente Joao Lourenço ha l’immagine di un leader aperto e moderato, ma nella provincia di Cabinda i separatisti lo accusano di continuare la politica di repressione del suo predecessore José Eduardo Dos Santos[62]. Gli attivisti finiscono in carcere dove subiscono maltrattamenti e torture. La libertà di espressione è negata alla popolazione cabindiana. Per loro, il diritto a manifestare rimane un miraggio[63].
Lo sfruttamento delle risorse e i disastri ambientali
La ricchezza di Cabinda nasce nell’era mesozoica, quando lo sprofondamento di una porzione di crosta terrestre dell’Atlantico meridionale produce delle fratture nella sezione sedimentaria di Cabinda[65]: durante il primo Cretaceo, nella fase di deriva, le placche africane si separano da quelle sudamericane[66]. Nell’estuario del fiume Congo e al largo della costa, all’interno di quello che oggi è la concessione petrolifera del blocco 0, la rotazione delle faglie crea delle trappole che fanno da contenitore naturale a diversi miliardi di barili di petrolio[67] e gas naturale[68].
Il petrolio è ovunque: il giacimento di N’Sano, situato nel Blocco 0, e l’area di Greater Takula, scoperti nel 1992, sono due dei 21 giacimenti assegnati a Chevron, ed è uno dei più grandi giacimenti di petrolio e gas al mondo[69]. Il Takula Complex si trova a circa 40 km da Malongo, in acque profonde 50-75 metri, e produce circa 200’000 barili al giorno di petrolio[70]. Il progetto fa parte di Cabinda Area A, all’interno del Blocco 0, ed è gestito da Chevron[71]. La compagnia ha firmato con il governo una moratoria per poter scaricare nell’oceano 12 milioni di tonnellate di residui petroliferi pericolosi nel Mar di Cabinda. Total ed Esso si sono subito aggregate alla richiesta[72] – un accordo che è rimasto nell’ombra. Ancor più grave, Chevron è autorizzata a scaricare a poca distanza dalla riva[73]. Ciò significa che i frammenti di perforazione contaminati dal petrolio provenienti da molte piattaforme petrolifere offshore possono essere scaricati legalmente nell’oceano, rappresentando una grave minaccia per l’ambiente[74] per le scorie petrolifere, chimiche, fangose e metalliche che mettono a repentaglio la fauna marina – e finiscono nella rete alimentare e nei nostri piatti.
L’Angola deve accettare, ha bisogno dei soldi e delle infrastrutture delle grandi aziende multinazionali[75]. I dipendenti di queste aziende invadono il territorio cabindese, ma entrano raramente in contatto con la popolazione locale: Chevron-Texaco ha un fortino a Malonga[76], una città chiusa, difficilmente raggiungibile da chiunque[77]. In contrasto con l’estrema povertà di Cabinda, Malonga è una vera città americana con elettricità, acqua corrente, rete di comunicazione, cinema, aree commerciali e così via. Ha anche il suo porto per elicotteri da cui i lavoratori del petrolio vengono trasportati dentro e fuori Cabinda.
La Chevron e altre compagnie petrolifere fanno ricorso all’uso di mercenari per i propri eserciti privati: non solo forniscono sicurezza ai lavoratori, ma consentono alle compagnie di conquistare territori nei quali usurpano il potere statale con la forza delle armi. Fino a non molto tempo fa, i mercenari a Cabinda venivano arruolati principalmente tramite Executive Outcomes[78], una società sudafricana. Quando questa è caduta in disgrazia, i giganti petroliferi hanno assunto veterani dell’esercito degli Stati Uniti. Tuttavia il governo angolano continua ad usare le truppe di Executive Outcomes nell’enclave come supporto alle proprie forze armate nazionali, la FAA[79].
Il fondatore e presidente, Eeben Barlow[80], ha suscitato forte impressione sui leader militari russi. Convinti dei suoi metodi, questi hanno deciso di riprodurre il modello della società sudafricana con il gruppo di paramilitari Wagner[81], una nebulosa rete che combina la forza militare con interessi commerciali, avanguardia delle ambizioni in espansione della Russia in Africa. La società di sicurezza privata è diretta da Yevgeny Viktorovich Prigozhin[82], il magnate noto come “il cuoco di Putin”[83], al quale il Presidente ha affidato la difesa degli interessi russi in molti Paesi africani tra cui l’Angola[84]. Interessi che spaziano dalle concessioni sulle miniere d’oro a quelle di diamanti. La compagnia diamantifera russa Alrosa è presente in Angola e Zimbabwe e non per solidarietà con i produttori africani[85].
La strategia della Russia è di conquistare alleanze vendendo armi, con Algeria, Egitto ed Angola tra i maggiori acquirenti. Tutto questo in cambio di concessioni per lo sfruttamento di risorse naturali, opzione attraverso la quale grandi imprese come la Gazprom, la Rostec, la Lukoil, la Lobaye e Invest Sarlu, hanno ottenuto vantaggiosi contratti pluriennali[87]. Ed è per questo che, fin dal 1955[88], Mosca ha investito nella MPLA: l’Angola esporta più di 800’000 di idrocarburi al giorno – più di quello fornito dal Kuwait agli Stati Uniti[89]. Il valore totale del petrolio prodotto copre circa i 2/3 delle entrate totali dello Stato[90].
Poiché l’Angola fino al 2007 è rimasta fuori dall’OPEC (Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio), per molti anni il paese non è stato soggetto a quote restrittive sulle sue esportazioni. Ha anche beneficiato di una combinazione di condizioni geologiche favorevoli, un alto tasso di successo nell’esplorazione e costi operativi bassi[91]. Oltre alla Russia, l’ENI ha creato molte partnership con altrettante compagnie petrolifere anche a Cabinda, dove estrae combustibili fossili con BP[92]: Nata attraverso una combinazione delle operazioni angolane di BP ed ENI, Azule Energy è il più grande produttore indipendente di petrolio e gas del paese. La società detiene 2 miliardi di barili di risorse nette e sta crescendo fino a produrre 250’000 di barili al giorno[93]. Dal 2026 sarà in grado di produrre circa 4 miliardi di metri cubi l’anno di gas naturale[94].
Azule Energy ha già un solido portafoglio di nuovi progetti per i prossimi anni, tra cui il progetto Agogo Full Field, situato nel blocco 15/06, e il progetto petrolifero PAJ, situato nel blocco 31[95]. Nel giacimento di Ndungu, situato nel blocco 15/06, ENI ha effettuato un’importante scoperta petrolifera in acque profonde. ENI ne possiede il 36,84%, in partnership con Sonangol (36,84%) e SSI Quinze (26,32%)[96]. Si pensa, erroneamente, che il colonialismo sia un retaggio del passato: in realtà continuiamo a distruggere ampie aree di Paesi stranieri, causando disastri ambientali, economici e sociali.
Ci sono popolazioni che aspettano da anni risarcimenti a cui si oppone l’ENI. Gli interessi commerciali per l’estrazione del petrolio, diamanti, oro e uranio[97] prevalgono sulla tutela dell’ambiente, oltre a mettere a repentaglio la salute delle popolazioni[98]. Lo sfruttamento intensivo del territorio africano provoca catastrofi subito dimenticate o mai divulgate – come lo sversamento di tonnellate di petrolio nel delta del Niger per l’esplosione della conduttura dell’ENI nel 2012[99]. Ma ogni compagnia straniera ha i propri scandali: a Cabinda, oltre all’ENI, lavorano molte altre compagnie. Tra le principali spiccano ExxonMobil, Chevron, Shell, British Petroleum, Maersk, Total, Statoil, Petrogal, Petronas e Sinopec[100]. La compagnia di bandiera angolana ha stipulato accordi con le tre compagnie petrolifere che lavorano a Cabinda, ancor prima dell’indipendenza dal Portogallo (1975) [101]: la Cabinda Gulf Oil Company, una joint venture gestita da Gulf Oil, Texaco e Petrofina[102]. Tutte aziende che, ovviamente, hanno una grande influenza non solo sull’economia, ma anche sulla politica di una nazione.
Eppure, a Cabinda c’è un problema cronico di mancanza di carburante. Ogni giorno i cittadini fanno file di ore nelle stazioni di rifornimento. Il problema è il contrabbando da parte di gruppi organizzati, e le autorità non fanno molto per frenare questo fenomeno[103]. I controlli sono fatiscenti, chi può ne approfitta, e ciò non è sfuggito all’entourage dell’ex presidente José Eduardo Dos Santos: da buon padre di famiglia ha sistemato i figli in cabina di regia. Il vertice della Sonangol, la compagnia petrolifera statale, è stato fino a poco tempo fa occupato dalla figlia, Isabel Dos Santos[104]. Indicata da Forbes come la donna più ricca d’Africa, Isabel ha una miriade di interessi nell’industria dei diamanti, nelle banche, nei media, nelle telecomunicazioni e possiede il 7% della portoghese Galp Energia[105]. Nei suoi confronti è stato emesso un mandato d’arresto dalla procura nazionale[106] per una serie di reati, tra cui riciclaggio di denaro e appropriazione indebita[107].
Nel 2012 lo Stato ha dichiarato di voler costruire un porto in acque profonde a Caio, a nord della città di Cabinda, per liberarla dalla dipendenza da Pointe-Noire[109]. L’appalto viene inizialmente assegnato, senza studio di fattibilità o concorso, ad una società creata solo pochi mesi prima, la società Porto de Caio, SA. Il proprietario della società (con il 99,9% delle azioni) è Jean-Claude Bastos de Morais, un uomo noto negli ambienti angolani come amico speciale del figlio del presidente e suo principale socio in affari[110]. Porto de Caio è un progetto ambizioso, e la liquidità del Fundo Soberano de Angola (FSDEA), che investe nel porto, è gestita da Quantum Global, posseduta e controllata da Bastos de Morais[111], il cui presidente del consiglio di amministrazione è José Filomeno dos Santos[112].
Quattro anni dopo l’annuncio, manca la liquidità promessa da Bastos[113]. Si fa avanti la Cina, con la China Road and Bridge Company (CRBC)[114]. L’Angola è il principale partner commerciale dei cinesi: aiuti allo sviluppo in cambio di corsie preferenziali nelle concessioni industriali e minerarie[115]. Pechino concede il prestito allo Stato angolano. Lo Stato angolano lo consegna a Porto de Caio. Il Fondo Sovrano Angolano, ente statale, finanzia il restante 15% che doveva essere fornito da Porto de Caio: 124 milioni di dollari. Eppure il Fondo Sovrano aveva annunciato che il suo “investimento” nel progetto era di 180 milioni di dollari. Una differenza di 56 milioni di dollari[116].
Il petrolio non è l’unica risorsa della piccola regione[117]. Cabinda è il fulcro per molte compagnie minerarie: Exploration Mining Resources, Ferrangol, Petril Phosphates, Minbos Resources, ITM Mining, Lumanhe, Axactor[118] ed Endiama EP, la società di diamanti di proprietà statale[119]. Negli strati cretaceo-terziari del distretto di Cabinda sono emersi depositi di fosfato marino sedimentario di alta qualità[120]. Il fosfato serve all’industria dei fertilizzanti, molto richiesto a livello mondiale[121]. Il minerale si è depositato in un bacino marino che copre gran parte del distretto di Cabinda[122].
Minbos Resources Ltd.[123], un’azienda australiana[124], nel 2020 ha acquisito una licenza per il progetto Cabinda Phosphate[125], sviluppato da Minbos Resources (85%) con il suo partner locale Soul Rock (15%)[126]. Nel giacimento di Cácata, una miniera a cielo aperto, si stima una produzione di 150’000 tonnellate per il 2023, con prospettive di espansione a 450’000 tonnellate nel futuro[127]. La società ritiene che sia uno degli ultimi grandi depositi di fosfato sedimentario al mondo. La chiave del giacimento è la sua posizione, poiché i costi di trasporto sono ridotti al minimo. Essendo il fosfato una merce sfusa, il trasporto è spesso il costo principale della miniera[128]. Il mercato delle rocce di fosfato vale miliardi di dollari. L’impatto dell’invasione russa in Ucraina è una preoccupazione a livello mondiale per gli agricoltori. I due Paesi in guerra forniscono il 30% dei fertilizzanti internazionali, e la Russia ha sospeso le esportazioni[129]. Il fertilizzante di Cabinda è fondamentale a livello mondiale.
L’altra vera ricchezza dell’enclave sono i diamanti dell’area nord-orientale della regione. Ci sono molti giacimenti di kimberlite da cui vengono estratte gemme pregiate[131]: un’industria che vale 1,2 miliardi di dollari e posiziona l’Angola al quarto posto tra i produttori mondiali ed al secondo in Africa[132], con una produzione stimata a 9,3 milioni di carati nel 2021. Tuttavia, circa il 60% dei bacini minerari del paese rimane inesplorato, aprendo così opportunità per ulteriori estrazioni[133]. Entro la fine del 2023, la nazione mira a diventare il più grande produttore di diamanti nella Terra[134].
Dell’approvazione delle concessioni e licenze si occupa il National Diamond Enterprise of Angola, un’agenzia statale[135]. La Sodiam è il ramo commerciale dell’agenzia di diamanti controllata dallo stato dell’Angola. È finita nel mirino degli inquirenti per aver sperperato denaro pubblico per salvare una società di diamanti svizzera di cui i maggiori azionisti sono Sindika Dokolo, marito di Isabel Dos Santos e la stessa Sodiam[136]. La vendita dei “blood diamonds” consente ai gruppi ribelli di finanziare le guerre civili e acquistare armi. In Angola, Liberia, Sierra Leone e nella Repubblica democratica del Congo, dagli anni ’90 del secolo scorso, questi gruppi hanno preso il controllo delle miniere di diamanti con la compiacenza delle società che esercitano l’oligopolio mondiale del commercio di queste gemme[137].
La maggior parte dei diamanti, fino all’uccisione del suo leader, Jonas Savimbi, è stata contrabbandata da regioni controllate dall’UNITA[138]. Ad estrarre i diamanti nelle miniere e nei depositi alluvionali è la popolazione civile razziata dai villaggi e tenuta in condizioni di schiavitù. I minerali vengono affidati a corrieri che li esportano illegalmente in Namibia, pronti per essere mescolati con le pietre legali e distribuiti nei mercati fino ad arrivare ad Anversa, considerata la capitale mondiale della lavorazione dei diamanti. La città belga poi rifornisce le gioiellerie di tutto il mondo[139].
Nel 2015, il giornalista Rafael Marques de Morais è stato condannato a sei mesi di reclusione per aver fatto i nomi di generali dell’esercito in un libro che rivela uccisioni e torture nei campi di diamanti del paese[140]. I generali nominati sono azionisti della società di diamanti Sociedade Mineira do Cuango, titolare di una concessione nel bacino del fiume Congo, e della società Teleservice: un consorzio composto da Lumanhe, la società di proprietà degli stessi generali, la compagnia statale di diamanti Endiama, e ITM-Mining[141]. Teleservice è una società di sicurezza privata che sorveglia le miniere di diamanti e le strutture di stoccaggio del petrolio a Soyo e Cabinda finanziata dall’ex Presidente Dos Santos che ha ricevuto il denaro tramite elargizioni alla sua fondazione di beneficenza personale, la Fundaçao Eduardo Dos Santos (FESA)[142].
Dirigenti di Odebrecht, Dar Al-Handasah, Texaco, della compagnia petrolifera norvegese Norsk Hydro, della compagnia di sicurezza israeliana Long Range Avionics Technologies e diversi dirigenti di Sonangol erano nei consigli di amministrazione del FESA[143]. Oggi sono in atto riforme che spingono alla stipula di contratti con maggiore trasparenza. In questo contesto, nel dicembre 2021, l’azienda di diamanti De Beers ha annunciato pubblicamente la sua domanda per esplorare la regione nord-orientale dell’Angola[144].
Lo stesso accade con l’oro. Ogni anno vengono esportate illegalmente almeno tre tonnellate del prezioso minerale, soprattutto verso la Tanzania e gli Emirati Arabi Uniti[146], per cui lo Stato cerca di creare punti di acquisto legali nelle zone in cui si estrae artigianalmente[147]. I siti sono dislocati un po’ ovunque: a Buco-Zau, nel comune di Belize[148], nella provincia meridionale di Huila, a Mpopo e nell’area di Chipindo[149]: due contratti per un totale di 10 milioni di dollari[150]. Buco Zau, a circa 120 chilometri a nord di Cabinda, è importante anche per la produzione di olio di palma. Nel novembre 2009 è stata annunciata la costruzione di una fabbrica per trasformare il prodotto delle piantagioni esistenti nella regione[151]. Questa fabbrica fornirà a ENI la materia prima per la produzione di biocarburanti[152]. La joint venture nata tra ENI e la società statale Sonangol per lo sviluppo del progetto pilota è estesa su un’area di ben 12’000 ettari di palma da olio[153].
Si tratta di terreni recuperati col disboscamento. In tutta la regione si diffonde il meccanismo del “Land Grabbing”, ovvero l’accaparramento sconsiderato di terre da parte di compagnie multinazionali. Nella provincia di Cabinda si estende parte della foresta di Mayombe: il secondo polmone verde del mondo. Dopo l’Amazzonia la foresta africana è la più estesa del pianeta con una superficie di 290’000 ettari sparsi in quattro stati: Congo, Gabon, R.D. del Congo e Angola[154]. In questi ultimi anni il disboscamento incontrollato rischia di farla scomparire. Il problema delle palme da olio è la loro ingente richiesta di acqua e nutrienti dal terreno: crescendo in posti caldi e umidi, le palme tolgono inevitabilmente posto alle foreste pluviali[155].
Oltre allo sfruttamento dei lavoratori, nelle piantagioni di palma le comunità locali denunciano il legame diretto tra la negazione di accesso alla terra e la povertà estrema delle popolazioni[156]. Ciò a Cabinda vuol dire ulteriori violenze, stupri, angherie continue[157]. La vicenda coloniale che ha lasciato l’Africa come un mosaico di Stati disegnati per la facilità amministrativa dell’Occidente piuttosto che per legittimi legami etnici, ha generato tensioni separatiste e irredentistiche dal Sahara occidentale alla Namibia. Quando le identità diventano complesse e politicizzate dalle circostanze, e i “diritti” al territorio e alla governance diventano confusi, si creano le basi per i conflitti[158], e Cabinda ne è un esempio: impossibile ottenere la sua indipendenza, è già quasi impossibile battersi perché la guerra finisca e la gente abbia la possibilità di essere trattata umanamente.
Cosa fa la comunità internazionale
La popolazione locale non trae nessun vantaggio dalle ricchezze naturali della provincia. Le politiche del governo angolano hanno aumentato la sofferenza della popolazione e l’incapacità di gestire al meglio le tante risorse. Non esiste alcun progetto per migliorare la vita e portare la pace. A Cabinda non c’è alcuna scuola superiore, nessun istituto di formazione tecnico-professionale[160]. Il costo in vite umane va ben oltre le 500’000 vittime stimate per la guerra civile: il 30% dei bambini muore prima dei cinque anni e l’aspettativa di vita media è di soli 45 anni[161]. Il tasso di disoccupazione è dell’88% e le sole infrastrutture esistenti risalgono all’epoca coloniale[162].
Nella ricerca di una soluzione al conflitto, il coinvolgimento internazionale è totalmente assente, persino quello delle Nazioni Unite e degli organismi panafricani. Attori provenienti da Portogallo, Corea del Sud, Gabon, Namibia, Repubblica Democratica del Congo, Stati Uniti compresa la chiesa hanno cercato di offrire sostegno alla mediazione, ma il governo angolano ha rifiutato tali offerte, poiché ha sempre voluto il pieno controllo[163]. Il suo rimedio è la repressione. C’è la necessità di convincere le parti a tornare ai tavoli negoziali per un accordo di vantaggio reciproco, ma la realtà è che non conviene a nessuno, specialmente all’industria mondiale degli armamenti, che ciò avvenga. Come spesso accade, gli interessi economici vengono prima di qualsiasi altra considerazione.
Per questo scriviamo. Perché si sappia. Perché nessuno ha il diritto di negare e cancellare la storia di un popolo e di una terra. Un popolo senza storia è un popolo senz’anima, e per la gente di Cabinda, la terra più ricca del pianeta, l’anima è un lusso che nessuno può permettersi[164].
[1] https://www.ifri.org/fr/publications/etudes-de-lifri/histoire-dune-guerilla-fantome-fronts-de-liberation-de-lenclave-cabinda
[2] https://ojs.library.carleton.ca/index.php/cria/article/view/104/1083 pag. 2
[3] https://lospiegone.com/2020/08/30/ricorda-2010-flec-la-voce-di-cabinda/
[4] https://www.hauniversity.org/en/Angola-Cabinda.shtml
[5] https://africaexpress.corriere.it/2010/09/05/angolagli_indipendentisti_di_c/
[6] https://www.irenees.net/bdf_fiche-analyse-1048_fr.html
[7] https://www.theafricareport.com/223707/angola-cabinda-an-unsolvable-problem/
[8] http://fotoscabinda.blogspot.com/2009/10/cabinda-antiga-2.html
[9] https://unesdoc.unesco.org/ark:/48223/pf0000121577 pag. 556
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[11] http://www.cabinda.org/histoireang.htm
[12] https://www.cambridge.org/core/journals/journal-of-african-history/article/abs/family-strategies-in-nineteenthcentury-cabinda/1F14475C972D2235BA8E9A7A717D9321
[13] Daniel Dos Santos, “Cabinda: The Politics of Oil in Angola’s Enclave,” in AfricanIslands and Enclaves ed. Robin Cohen (Beverly Hills: Sage Publications, 1983), 102
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[44] https://www.africa.upenn.edu/Workshop/kone98.html
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[81] WAGNER GROUP: I FANTASMI DI MORTE SCATENATI DAL CREMLINO | IBI World Italia ; LIBIA: LA LOTTA PER IL PETROLIO | IBI World Italia ; MINSK, DUE ANNI DOPO: IL LUTTO SENZA SPERANZA | IBI World Italia
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