Enti locali
Ascoli Piceno, socialmente parlando
Spaventati i guerrieri, persi alla meta i viaggiatori
La saggezza è impazzita, non sa l’intelligenza
La ragione è nel torto, conscia è l’ingenuità
Ma non tacciono i canti e si muove la danza
(Consorzio Suonatori Indipendenti – Fuochi nella notte di San Giovanni)
Piazza del popolo. Citto Maselli, Dustin Hoffman, Giuseppe Piccioni. Salotto, teatro, sfondo. Per capire una città come Ascoli Piceno, simbolo della provincia italiana per antonomasia, a torto o a ragione, bisogna partire da qui. Un quadrato di travertino che brilla di un biondo lucente, ora splendido e ora stucchevole, la chiesa di San Francesco, il Palazzo dei Capitani sede del consiglio comunale, il loggiato, il liberty del Caffè Meletti, i bar, i tavolini. Suggestioni per un pezzo impressionista, ma forse così si va fuori fuoco.
Ricominciamo. Ascoli Piceno, simbolo della provincia italiana. Da un certo neoralismo in poi per molti è così: esiste gente che ad Ascoli non c’è mai stata ma che è in grado di riconoscerci dentro a scatola chiusa tutti i tic della penisola a forma di stivale. Forse parliamo di un’Italia che non c’è più, però. Invece Ascoli c’è ancora, ed è uguale a se stessa da sempre. Questo è un dato di fatto più che un’opinione. Si dice che «quando Ascoli era Ascoli, Roma era pascoli», rivendicando origini precedenti rispetto ai fatti narrati nell’Eneide. Non si sa dove finisca la dichiarazione d’orgoglio e dove cominci la presa d’atto di una condizione immutabile, condannata a resistere alla storia senza poterne prendere parte davvero.
Ad Ascoli adesso si vota, e il candidato favorito lo hanno scelto a Roma. Non è un retroscena, lo dice anche il diretto interessato.
Si chiama Marco Fioravanti, detto «lu benz» perché anni fa lavorava come benzinaio in periferia. Poco più di trent’anni, milita in Fratelli d’Italia e già ha i colori, gli abiti e il portamento di un veterano. Un anno fa è stato candidato anche al collegio uninominale delle politiche e perse abbastanza male contro un non molto conosciuto avvocato del Movimento Cinque Stelle. Fioravanti, dicevamo, ammette tranquillamente che la sua candidatura è nata a Roma, sul cosiddetto «tavolo nazionale» di Berlusconi, Salvini e Meloni. Hanno diviso l’Italia in un tabellone da Risiko e si sono spartiti le città, da quelle più appetitose a quelle in cui la sconfitta è annunciata. Fioravanti ad Ascoli è il candidato da battere. Il retroscena vero, poi, prevede che in realtà lui sia stato scelto da Guido Castelli, il sindaco uscente, l’uomo che ha governato indisturbato nell’ultimo decennio, senza opposizione, con la benevolenza feroce del sovrano illuminato, quello che va nella giusta direzione e schiaccia ogni cosa che trova davanti a sé, perché può farlo, perché deve farlo, perché la seconda volta ha vinto con percentuali peroniste.
Ma quanto è provinciale Ascoli? Per capirlo basta pensare alla squadra di calcio, termometro degli umori cittadini, croce e delizia, storia, gloria e mito. Distanze siderali da un presente di gioco brutto e sbadigli consistenti. Quest’anno l’Ascoli ha condotto un tranquillo campionato di mezza classifica in Serie B: niente voli troppo in alto ma nemmeno cupi sprofondi verso il basso. Qualche settimana fa l’Ascoli ha preso sette gol a Lecce, in una partita di cui si è parlato molto e di cui, per qualcuno, si parlerà ancora parecchio in tribunale. La classifica non ha risentito più di tanto della batosta, eppure molti hanno visto la goleada subita come l’imbocco della strada che porta dritta alla retrocessione. Seguirono qualche pareggio e qualche vittoria, adesso i play off per andare in Serie A sono a pochi punti e allora si parla di promozione come qualcosa di fattibile, anzi di facile, e già c’è chi fantastica su una prossima stagione da zona Uefa. Provinciale, in questo senso, fa rima con depressione. Gli up e i down della patologia clinica indicano una cronica incapacità di gestire le emozioni, l’impossibilità di mettere la giusta distanza tra se stessi e le cose del mondo, che sono sempre o troppo lontane o troppo vicine, mai al posto giusto. O Serie C o Serie A. Basta questo?
L’altro candidato forte si chiama Piero Celani. Uomo di Forza Italia, già sindaco per due mandati prima di Castelli, con cui ha un rapporto da sempre conflittuale: avete presente la storia del pollaio con due galli? Bravi, è così. Adesso Celani fa il civico, cioè quello appoggiato dalle liste civiche, e d’altra parte i partiti di destra stanno tutti con Fioravanti, anche se con lui si sono messi tanti uomini di partito, o ex di partito. Insomma, chi ci capisce qualcosa in questi tempi inquieti di ennesimo crollo delle categorie politiche conosciute e conoscibili? In teoria lui ha nelle liste diverse «macchine da voti», quei personaggi dotati di centinaia di preferenze personali, cammellieri, adescatori di clienti e portatori sani di clientele. Gente così è una benedizione, in teoria. Il fatto è che ultimamente non sempre il gioco funziona: avete presente la storia dei candidati del Movimento Cinque Stelle che tutti votano perché non li conosce nessuno? Ecco, questi qui invece li conoscono tutti.
Ad Ascoli c’è un’altra piazza importante. In piazza Arringo, c’è la sede del Comune: una volta ci passavano le macchine poi una giunta di centrosinistra negli anni ’90 la chiuse, il sindaco che lo decise venne sommerso dalle critiche, perse le elezioni successive al primo turno e oggi in piazza Arringo nessuno sognerebbe nemmeno di farci passare le macchine. Va così. In piazza Arringo però adesso ci friggono. Proprio nel senso dell’olio bollente. Ogni anno, a maggio, si fa la sagra del fritto misto. Si potrebbe fare altrove, invece la fanno in faccia al romanico. Sono gusti. È Ascoli.
Dicevamo, il centrosinistra. Dentro la retorica di Atene che piange e Sparta che non ride, se la destra è spaccata in due, pure il centrosinistra lo è. Da una parte c’è il Pd che ha partorito quattro liste a sostegno di tale Pietro Frenquellucci, dall’altra c’è un’altra parte del Pd (o ex Pd) che con una lista sola sostiene il medico Emidio Nardini. Frenquellucci fu assessore socialdemocratico negli anni ’80 (in quella che si ricorda come la prima giunta senza Dc della storia cittadina, un’avventura che non durò sei mesi), poi assistente di una parlamentare di Forza Italia e infine giornalista locale, tra l’altro capopagina del Messaggero nei mesi burrascosi che hanno preceduto la chiusura delle sue redazioni marchigiane. Frenquellucci non se lo ricorda mai nessuno, né nel bene né nel male. Forse è un bene, forse è un male. Il volto nuovo che vince, il perfetto sconosciuto che sprofonda nell’oblio, va’ a sapere. Nardini, dal canto suo, è sostenuto dagli ascolani «di sinistra-sinistra», storica minoranza in una città che oltre ad essere simbolo della provincia è anche simbolo della provincia di destra. Qui il Msi prendeva percentuali altissime, qui An prendeva più voti di Forza Italia, qui i fascisti sono fascisti, eccetera eccetera eccetera. Come andrà? Mistero, con lui c’è un ex candidato sindaco che per poche centinaia di voti perse nel 2009 contro Castelli e poi di voti ne prese una barca alle regionali dell’anno dopo. Durò un mandato solo, su ad Ancona, non si ricandidò al giro successivo nel 2015, e nessuno è rimasto troppo colpito dal suo operato.
D’altra parte ad Ascoli la Regione è un’entità estranea. La Regione ora Anconacentrica, ora Pesarocentrica. Mai vicina ad Ascoli, manco dopo il terremoto. È vero? Solo in parte, però certi spifferi sono più incontrollabili di una tromba d’aria. Se si pensa che la Regione è lontana da Ascoli, la Regione è lontana da Ascoli. Punto. La realtà percepita che batte la realtà reale. Un classico. E comunque l’anno prossimo probabilmente sarà proprio Castelli ad ascendere al trono regionale: la sua avanzata si annuncia come una passeggiata sulle macerie di un centrosinistra che ha stufato tutti, da Ascoli a Pesaro, senza eccezioni rilevanti. E magari tra un anno la Regione non sarà più lontana da Ascoli. O forse lo sarà di più. Misteri della fede, della politica, della percezione della realtà.
E gli altri? Certo che ci sono, gli altri. C’è il Movimento Cinque Stelle, che ripropone lo stesso candidato di cinque anni fa, Massimo Tamburri. Le previsioni sono così così: nel 2014 Tamburri prese alle comunali la metà dei voti che il suo partito prese alle europee. E si votava lo stesso giorno. Magari andrà meglio questa volta, o più verosimilmente no. C’è Casapound, che qui alle politiche del 2018 avrebbe pure superato il quorum, quindi chissà che non riescano a eleggere un consigliere. L’aspirante sindaco è un ultras di nome Giorgio Ferretti.
C’è anche il candidato giovane, si chiama Alberto Di Mattia. Capeggia una lista giovane che si chiama «Fuori dal tunnel» come la canzone di Caparezza. La domanda che gli fanno sempre è con chi si schiererà al ballottaggio. Lui non risponde, non senza una qualche ragione.
Ecco, il ballottaggio. Lo si dà per scontato. Tra chi? In ordine di probabilità. I maligni dicono tra Fioravanti e Celani. Qualcuno spera tra Fioravanti e Frenquellucci. Gli utopici vagheggiano un Celani contro Frenquellucci, cioè la capitolazione dell’Ascoli di Guido Castelli. Uno scenario ghiotto ma verosimile come fare tredici al Totocalcio con una colonna di X.
Però qui l’impossibile è probabile, il sicuro è incerto, il possibile è soffocante e le previsioni vengono fatte soltanto per essere smentite. Ascoli non ha mai seguito le tendenze nazionali, almeno in sede di elezioni comunali. Ascoli è la provincia, e la provincia per definizione va dove vuole lei. Al limite è il resto d’Italia che si adegua.
Il salotto, il romanico, le logge, il fritto. Ma anche la periferia disastrata: Monticelli, a est, con i suoi grattacieli ex Iacp, scatoloni, cubi, cemento, macchine, rotatorie, bruttezza inevitabile, quasi ricercata, voluta, studiata. Mozzano, a ovest, e già si sente odore di zona rossa, di terremoto. Più in là c’è Arquata, il cuore martoriato d’Italia, sbriciolata in una notte d’agosto di tre anni fa e forse destinata a rimanere così per sempre.
Ascoli e la zona industriale chiusa, i «trentamila posti di lavoro persi dal 2008», la Cassa del Mezzogiorno che finiva qui ed è finita da un pezzo. Le multinazionali che hanno mangiato, si sono alzate, hanno salutato e hanno lasciato tutti a chiedersi come funzioni questo capitalismo di fabbriche e capannoni senza manager che vengono da fuori.
Ascoli che muore e perde abitanti, tra un po’ saranno meno di quelli della rivale San Benedetto del Tronto. Sarebbe un’onta, sarebbe la fine. Ascoli che «sedici anni di Serie A». Ascoli che «non esiste», come scrisse Manganelli e disegna Tullio Pericoli. Ascoli e le parole buone di Sartre e Gide, che le avranno dette ovunque, ma qui un po’ di più, almeno a quanto sostengono gli ascolani. Ascoli e la tribuna dello stadio in restauro da anni e pronta, strano a dirsi, giusto in tempo per le elezioni. Ascoli città che tra gli anni ’80 e ’90 ha avuto una scena punk-hardcore pazzesca e riconosciuta a livello internazionale. Ascoli che ha fatto la Resistenza ed è Medaglia d’oro. Ma i partigiani sono quasi tutti morti, la memoria è labile o al massimo strumentale. Ascoli che vota, vota bene, vota male. Non cambia mai, aggrappata all’immagine di provincia provinciale che più provincia non si può, disperata e allegra, il carnevale, le olive fritte, i parcheggi che costano più qui che dietro Piazza Navona a Roma.
Noi siamo o non siamo, dialetticamente parlando. Ascoli è una città di travertino, socialmente parlando.
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