Enti locali

Il problema, con chi ora non ha votato, è cosa farà quando tornerà alle urne

24 Novembre 2014

I risultati elettorali delle Regionali di ieri hanno spinto molti collaboratori della testata a partecipare al dibattito sull’elevata quota di non partecipanti al voto, che in Calabria ha seguito una tendenza alla crescita ormai piuttosto consolidata, e in Emilia Romagna ha assunto proporzioni inedite per le abitudini politiche dell’area.

La discussione mi sembra essersi raccolta attorno a due questioni fondamentali su cui si può impostare una riflessione più articolata.

 

A. La legittimità delle istituzioni è direttamente proporzionale all’affluenza degli elettori al voto che serve per costituirle?

E’ molto difficile dare una interpretazione univoca alle percentuali di affluenza alle urne. Da questo punto di vista, i risultati dei vari paesi sono difficilmente paragonabili, perché dipendono dal tipo di tornata elettorale, dalle abitudini della cittadinanza, dalle norme relative all’esercizio del diritto di voto (in alcuni stati le procedure di registrazione sono piuttosto complesse), dal sistema elettorale, dalla longevità delle tradizioni democratiche. In uno stesso paese, poi, i dati variano nel corso del tempo anche per ragioni estemporanee Senza alcuna pretesa di spiegare ogni singolo caso, si può provare ad astrarre una regola generalissima che possa essere utile soprattutto per l’Italia: al di là degli altri fattori,c’è una certa tendenza a trovare affluenze più alte laddove l’identificazione dei cittadini nelle istituzioni è più nettamente mediata dalla partecipazione a gruppi e soggetti sociali “intermedi” e non sempre pienamente “costituzionalizzati”.

Il caso più frequente e noto è quello ben esemplificato dalle “repubbliche dei partiti” nell’Europa uscita dalla Seconda guerra mondiale, tra le quali l’Italia ha rappresentato per lungo tempo un caso piuttosto classico. Tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta l’affluenza italiana stabile tra il 90% e il 92% accompagnava una partecipazione alla vita istituzionale costantemente mediata (non esclusivamente ma in modo largamente preminente) dai grandi partiti di integrazione di massa, che gestivano e filtravano l’adesione simbolica dei loro militanti alla comunità statuale, e spesso finivano anche per avere molta voce in capitolo sull’esercizio concreto della cittadinanza e sul godimento dei diritti sociali. La (finora piuttosto graduale) flessione nella partecipazione elettorale dal 90% fin sotto la soglia dell’80% è coincisa con la riduzione della capacità dei partiti di giocare questo ruolo di coinvolgimento e di integrazione sociale, con la nascita di nuove forme di mobilitazione sul piano dell’opinione pubblica il cui successo ha profondamente cambiato anche partiti strutturalmente “pesanti” come PCI e PSI, con un generale affrancamento dell’elettorato da proposte di appartenenza ideologica “forti” e onnicomprensive.

In tutto questo, comunque, non è possibile ravvisare una immediata correlazione tra affluenza alle urne e legittimità del sistema politico e istituzionale: tanto per guardare ad alcuni casi stranieri particolarmente noti, il regime politico statunitense è storicamente il più stabile del mondo contemporaneo, e la sua legittimità è ampiamente riconosciuta dalla stragrande maggioranza dei suoi cittadini, che partecipano con convinzione ai rituali propri della sua vita istituzionale, tuttavia proprio per questo rapporto di identificazione particolarmente diretto tra comunità nazionale e rappresentanti del governo la legittimazione delle istituzioni passa solo parzialmente per l’esercizio del voto, abitudine condivisa da poco più di metà di coloro che ne avrebbero potenzialmente diritto. Per converso, l’elevata affluenza che caratterizza da lungo tempo le elezioni che si tengono in Belgio non è segno né di una particolare funzionalità delle istituzioni, come dimostrano le recenti traversie vissute dal paese per la formazione di un governo, né di una loro legittimità incondizionata, se si tiene conto che alla frammentazione sociale dovuta al peso esercitato per decenni dalle grandi istituzioni partitiche di massa si aggiunge anche la profonda frattura etnico-linguistica che caratterizza la storia del paese.

Tornando all’Italia, si può notare che nel progressivo incremento dell’astensionismo (tanto alle elezioni politiche che a quelle amministrative) il nostro paese si è uniformato a una tendenza comune alle democrazie dell’Europa continentale: non si vuole certo negare che il nostro sistema politico viva una crisi profonda, ma l’impressione è che potrebbe tranquillamente essere in ottima salute e vedere alle urne la stessa percentuale di elettori che vi si reca ora.

 

B. C’è la possibilità reale che la riduzione dell’affluenza continui, fino a una soglia critica oltre la quale la partecipazione degli elettori sarà troppo bassa per fornire reale legittimazione democratica alle istituzioni?

In altri termini, è possibile che la percentuale di elettori diventi costantemente così bassa da impedire il normale svolgimento della vita istituzionale?

Quanto sappiamo delle dinamiche socio-politiche ci dice che un evento del genere può far parte del “decorso” di una patologia mortale dell’“organismo” democratico?

La risposta sembra essere negativa. Tanto per cominciare, le elezioni che hanno preceduto o sancito il collasso di un regime democratico in crisi (gli esempi principali sono quelli dell’Italia nel 1921, della Germania nel 1932-33, della Spagna nel 1936, del Cile nel 1970) non hanno mai visto crolli vistosi dell’affluenza, nemmeno nei casi (come quello tedesco) in cui la forza politica destinata a portare le istituzioni democratiche al crollo è emersa proprio attraverso il successo elettorale. Al contrario, allargando ancora una volta lo sguardo a un numero maggiore di casi, e sempre tenendo conto di tutte le innumerevoli variabili che riguardano l’affluenza, più studiosi sono arrivati a concludere che la tendenza a un calo duraturo (questa è una caratteristica da tenere presente) dell’affluenza ha più probabilità di verificarsi nel corso di processi di stabilizzazione del sistema, più che nelle sue crisi di legittimità.

La spiegazione di questo fenomeno apparentemente paradossale si può trovare in parte proprio nella diversa natura delle forme di astensionismo che si giustappongono in una tornata elettorale. Proprio in riferimento all’Italia, qualche tempo fa Luca Ricolfi ha riassunto così quanto sta succedendo negli ultimi anni:

“L’astensionismo classico coinvolgeva soprattutto gli elettori marginali, qualunquisti, poco interessati alla politica. Da un paio di decenni, tuttavia, accanto a questo astensionismo “storico” si è andato formando e consolidando un tipo di astensionismo nuovo, di tipo politico, o di protesta. Persone che non andavano a votare non già perché lontane dalla politica ma, semmai, perché troppo coinvolte nella politica. Cittadini disgustati dai partiti, ma anche cittadini così politicizzati da trovare troppo moderata l’offerta politica disponibile.”

Nei momenti di crisi acuta, in effetti, il numero delle persone che non votano “perché troppo coinvolte nella politica” aumenta, ma a differenza di quello degli “elettori marginali” difficilmente il suo sviluppo è duraturo. L’elettorato che potremmo chiamare “attivamente astenuto”, che percepisce il proprio non-voto come una precisa presa di posizione verso un sistema di partiti in cui non si riconosce, vede di solito la sua astensione come un fenomeno eccezionale, un ritiro momentaneo da quell’arena politica e partitica a cui, proprio per il suo intenso coinvolgimento, guarda come al suo luogo naturale. Questo atteggiamento porta l’elettore attivamente astenuto a tornare a votare quanto prima (magari finendo per essere sostituito nel non-voto da altri insoddisfatti che seguiranno un percorso simile al suo), non appena si presenta un’offerta in qualche modo congeniale ai suoi convincimenti e/o capace di cavalcare le ragioni della sua protesta. Per questa ragione, quando le componenti di un regime democratico entrano in una crisi profonda, il vero problema non è quasi mai il crollo dell’affluenza alle urne, ma piuttosto la proliferazione o il rafforzamento di soggetti politici radicali, demagogici, irresponsabili, che raccolgono fette sempre più imponenti di elettorato sfuggito al controllo delle forze che puntellano il sistema.

 

In conclusione, cosa si può dire dei rischi di progressiva riduzione della percentuale di votanti effettivi nelle tornate elettorali, a cui in questo periodo in Italia si guarda ora con paura, ora con speranza? Tendenzialmente, che la quota di astenuti ad ogni consultazione elettorale non è il problema. Se il nostro paese si stesse avviando verso un confronto politico meno conflittuale e basato più sulla concretezza delle proposte che sulle identificazioni e le esclusioni, verso un rapporto con le istituzioni, i diritti e i doveri più diretto e meno mediato da gruppi “intermedi” di varia natura, verso una stabilizzazione delle forme e delle pratiche di rappresentanza, probabilmente vivrebbe la stessa tendenza al calo dell’affluenza elettorale, forse anche con numeri di elettori astenuti più elevati.

Con questo voglio dire che non abbiamo nulla di cui preoccuparci? Certo che no. Voglio caso mai dire che il problema, ancora una volta, è più profondo. I votanti calano da tempo perché evidentemente il tradizionale ruolo portante dei grandi partiti è venuto meno in una rapida evoluzione, ma la questione cruciale è che non si sono ancora consolidate forme alternative di partecipazione politica e di condivisione della lealtà istituzionale. E in questo terreno di coltura sono sorti fenomeni di varia natura, diversa intensità e differenti destini, alimentati in forma più o meno effimera da quel “voto di ritorno” di cui parlavo in precedenza.

Se non si trovano i modi (e gli uomini) giusti per ricostruire una partecipazione istituzionale più sana dalle fondamenta, continueremo a vivere di sofferenze non quando i delusi eviteranno di andare a votare, ma quando torneranno ai seggi.

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