Virginia Raggi vince il primo braccio di ferro: la Lombardi lascia il direttorio
Sul suo profilo Facebook parla di “polemiche che interessano solo ai giornalisti”. Eppure lo strappo c’è stato, al di là delle dichiarazioni di facciata di […]
Il primo turno delle elezioni amministrative ci lascia molteplici spunti di riflessione che potranno essere approfonditi in modo puntuale nelle prossime ore con l’analisi dei dati e dei flussi elettorali. Sebbene il voto per i sindaci abbia una evidente componente locale che rischia di sfuggire impostando una lettura che ha un punto di vista prettamente nazionale, non sarebbe saggio espungere dall’analisi alcuni elementi generali e di carattere macro, su cui già da ora possiamo fare alcune riflessioni.
La prima è che la competizione sembra ormai essersi rafforzata nella sua dimensione tripolare; M5S e centro-destra si stanno dimostrando degli avversari estremamente credibili per il PD, nonostante alcuni limiti nel gruppo dirigente grillino e evidenti problemi organizzativi e di direzione politica per la destra. Questo voto, seppur frammentato perché ha interessato “solo” un terzo degli elettori italiani, è la spia del fatto che destra e cinque stelle possono essere molto competitivi in un scenario politico nazionale delineato dal nuovo italicum. Questo è molto interessante se pensiamo che sino a pochi mesi fa gli osservatori ritenevano questa legge elettorale uno stimolo a convergere su Renzi, data la scarsa affidabilità dei cinque stelle e l’implosione del centro destra. Ciò introduce un secondo elemento di riflessione, ossia che in democrazia l’idea che un leader o un partito non abbiano alternative è più che altro il frutto di una autosuggestione. La ricerca dell’alternantiva è il cuore stesso di un sistema democratico, soprattutto quando gli attori politici sono in grado di farsi carico di rappresentare istanze sociali che sono rimaste escluse, o si sono auto-escluse, dal circuito della rappresentanza. Credo sia saggio soffermarsi su questo quando pensiamo al rafforzamento del M5S e al buon risultato della destra “lepenista” italiana rappresentata dal duo Salvini-Meloni. In modo diverso, con accenti e sfumature differenti, questi attori politici si stanno facendo carico di rappresentare fasce della popolazione che altrimenti non troverebbero interlocutori. Per quanto il messaggio che veicolano possa essere rozzo, semplicistico e basato su di una forte contrapposizione, non possiamo pensare di interpretare il tutto riducendolo alla comoda spiegazione del voto di protesta. La protesta è solo un aspetto di una richiesta più complessa e articolata che ha come cuore il bisogno di un cambiamento radicale della società. La profonda crisi economica che ha scosso in questi anni la società italiana non ha trovato sinora delle risposte strutturali in grado di invertire la condizione di paura, insicurezza e alienazione di una grossa fetta della popolazione italiana. I ceti popolari si impoveriscono sempre più, la piccola e media borghesia vede peggiorare giorno dopo giorno il suo status e contemporaneamente le disuguaglianze crescono in modo vorticoso. Questi partiti, piaccia o meno, si fanno intepreti di queste paure, spesso soffiandoci sopra e alimentandole per scopi elettorali, ma al contempo sembrano gli unici in grado di integrare nel sistema politico chi è collocato ai margini, con i suoi bisogni e le sue richieste. In questo passaggio politico sembra che il M5S sia particolarmente abile nel compiere questa operazione, in particolare perché per una forza populista la capacità di mobilitazione politica è il vero elemento che ne caratterizza l’azione. Il caso di Roma è alquanto rilevante non solo per l’ottimo risultato personale della Raggi, quanto per la notevole performance dei cinque stelle nei municipi romani, in particolare quelli con una storica tradizione “rossa” come la Garbatella, e quelli popolari. A Roma, come a Torino, i cinque stelle hanno ottenuto risultati eccellenti facendo veicolare a candidate rassicuranti (qualcuno direbbe “normali”) messaggi radicali e di rottura. Sembra quindi che sia possibile spiegare una parte del grande successo delle forze “alternative” con gli ottimi risultati nelle periferie e nei quartieri popolari delle grandi città come avvenuto per il M5S, o nella provincia come avvenuto per la Lega. Senza contare la grande performance elettorale di De Magistris a Napoli che ha pescato nel bacino di PD e M5S con una miscela esplosiva di parole d’ordine care alla sinistra, al populismo dei cinque stelle e a un certo meridionalismo ostile al potere centrale dello Stato.
Se ci pensiamo questa dinamica si sta presentando, con sfumature diverse, anche nel resto d’Europa e ne avevamo avuto un preavviso roboante con le elezioni europee del 2014. In Italia all’epoca, pochi si soffermarono sull’analisi complessiva del voto continentale, che delineava una fotografia nitida con al centro il rafforzamento preponderante delle forze populiste e anti-integrazione, tutte in crescita grazie alla capacità di farsi interpreti di istanze e bisogni a lungo ignoranti dai partiti mainstream. Grandi partiti, in particolare quelli socialdemocratici, che invece di cogliere quel segnale come stimolo per rivedere le loro piattaforme politico-valoriali con l’obiettivo di rispondere alle domande dei ceti popolari, si sono trincerati dietro posizioni conservative e poche coraggiose, spesso alleati dei partiti conservatori. Ed ecco ripresentarsi il punto: se i cittadini devono scegliere tra proposte solo all’apparenza diverse ma in realtà pienamente sovrapponibili, ecco che vanno a cercarsi l’alternativa.
In questo quadro il PD sembra accusare il colpo, soprattutto perché sembra in difficoltà nell’essere elettoralmente “espansivo” al di fuori della figura di Renzi. Al momento è complicato capire se e quanto in questa tornata elettorale abbia pesato il voto contro il governo; sicuramente una quota dell’elettorato che ha scelto M5S o centro-destra, lo ha fatto con questo orientamento. Ma come sempre per i fenomeni politici e sociali, non c’è un singolo elemento in grado di spiegare tutto. Più che altro il fatto che il PD appaia sempre più come un partito destrutturato, con una classe dirigente locale che in molte parti d’Italia ha dei limiti evidenti e che risulta sempre meno dotato di una cultura politica riconoscibile, danneggia la sua capacità attrattiva quando non c’è direttamente in gioco Renzi. L’aver voluto bruciare i ponti con un pezzo della sinistra e della sua identità (e non mi riferisco a qualche ex esponente del PD uscito per animare esperienze minoritarie a sinistra dei democratici), magari indugiando in accordi locali con pezzi di ceto politico del centro-destra poi rivelatisi elettoralmente ininfluenti, può essere una chiave di lettura utile per spiegare parte dell’affanno del PD in queste elezioni.
Il giudizio definitivo sul voto potrà essere dato solo dopo i ballottaggi, momento in cui il PD potrebbe ribaltare questa inerzia parzialmente negativa e così contenere i danni. Quel che è certo è che dopo il voto Renzi e il PD dovranno decidere come affrontare la strada verso il referendum costituzionale e il modo in cui proseguire la legislatura, perchè il fronte degli oppositori è variegato e rafforzato e l’impostazione eccessivamente avversariale, polarizzante e politicamente autosufficiente, potrebbe non giovare al PD.
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