Enti locali

Il regionalismo esasperato, l’Ucraina e i rischi geopolitici per l’Italia

23 Giugno 2022

Nel 1911 l’Italia aveva 34 milioni di abitanti. L’Egitto 11 milioni. Il Messico quasi 14 milioni. La Persia 9 milioni. L’Etiopia 9 milioni. Nel 1911 il nostro paese era uno dei più popolosi del pianeta, la “grande proletaria”, e si poteva lanciare alla conquista della Libia e delle isole del Dodecaneso.

Nel 1911 l’Italia era una delle otto potenze mondiali, assieme a Impero britannico, Stati Uniti, Russia, Germania, Impero austro-ungarico, Francia, Giappone. La Cina imperiale dei Qing, già prostrata dalle odiose guerre dell’oppio e dalle lotte con il Giappone, stava per trasformarsi in una caotica repubblica. La Spagna, che ancora nel XVII secolo era una grande potenza, era ormai l’ombra di se stessa, messa in ginocchio dalla “splendida piccola guerra” con gli Stati Uniti. I Paesi Bassi prosperavano – così si diceva – soprattutto perché controllavano quella che dopo la seconda guerra mondiale sarebbe diventata l’Indonesia.

Oggi l’Italia ha meno di 60 milioni di abitanti. L’Egitto ne ha più di 100. L’Etiopia ha 112 milioni di abitanti. L’Iran (un tempo Persia) ne ha 83 milioni. Il Messico 127 milioni. E nel 2035, secondo autorevoli proiezioni l’Etiopia ne avrà oltre 160 milioni, il Messico quasi 146, l’Egitto 130, l’Iran 95. Per non parlare di Cina e India: la prima sfiorerà e la seconda invece supererà abbondantemente il miliardo e mezzo di persone. Già oggi la più popolosa provincia d’Italia, la Lombardia, ha meno abitanti della più piccola provincia cinese (l’Hainan, che molti italiani non sanno neanche esistere: è una splendida isola), e l’intera Italia ha meno abitanti del Gujarat o del Karnataka.

Ai politici, agli opinionisti e ai rentier italiani questo è ancora poco chiaro: l’Italia, in questo secolo, sarà un piccolo paese chiamato ad affrontare sfide enormi. E se fallirà saranno spazzati via pure loro, come nel 1912 furono spazzati via i colti mandarini cinesi e la magnifica corte imperiale di Pechino. Non si salverà nessuno, a Siracusa come a Venezia (anzi, proprio la fine ingloriosa di Venezia ci dovrebbe ricordare che anche gli stati più ricchi non possono campare di rendita per sempre).

Le tensioni con le motovedette libiche che sparano ai pescherecci siciliani, i russi che fanno la voce grossa e seminano fake news, l’arroganza di certe potenze mediorientali campioni di illiberismo sono soltanto l’inizio. La Cina, l’India, l’Egitto, l’Arabia Saudita e altri paesi appartenenti a quello che un tempo noi occidentali chiamavamo, sprezzantemente, “terzo mondo”, saranno sempre più forti e aggressivi.

La sfida demografico-geopolitica non è l’unica. Il Po in ginocchio e le città italiane nella morsa dell’afa sono solo l’antipasto. La crisi climatica, in futuro, colpirà la Pianura padana con una tale durezza che certe estati del 2030 o del 2040 probabilmente saranno segnate da un’emergenza peggiore di quella pandemica nella primavera del 2020. E l’ascesa dirompente di nuove industrie high-tech come l’Intelligenza Artificiale (che soltanto ora sta iniziando a dispiegare il suo reale potenziale) e l’auto elettrica spazzeranno via molte obsolete aziende italiane, mentre un’economia di trasformazione come la nostra dovrà affrontare la scarsità di materie prime quali il nickel, il rame (che servirà disperatamente in un mondo sempre più elettrico), le terre rare, il grano.

Il pianeta non è più un parco-giochi sotto la supervisione degli Stati Uniti. Washington, negli ultimi decenni, ha trattato con il pugno di ferro paesi come l’Iraq, il Nicaragua, il Vietnam o l’Iran, ma con noi italiani è sempre stata relativamente benevola, e tra le potenze imperiali su piazza è – piaccia o no – il miglior alleato possibile. La guerra russa in Ucraina ha mostrato che la NATO serve.

Se negli anni ’90 l’Italia (allora ancora una delle sette o otto potenze economiche mondiali) poteva abbandonarsi alla locura collettiva del miracolismo berlusconiano, alle farneticazioni del secessionismo leghista e alle velleità del riformismo pseudo-blairiano del centrosinistra, oggi non può più. All’Italia non è più consentito tergiversare, né giocare.

L’emergenza climatica, le grandi trasformazioni tecnologiche e le immense sfide geopolitiche che abbiamo di fronte non consentono a politici (nazionali e locali) e opinionisti di continuare i loro giochi. Un esempio lampante di ciò è il regionalismo differenziato. Nessuno nega che nuove forme di decentramento (specie a beneficio di comuni e province) potrebbero dare slancio all’Italia. E perché non dare ulteriori competenze alle regioni in certe materie di pertinenza strettamente locale?

Ma senza esagerare. Occorre trovare un punto di equilibrio che sia ragionevole e opportuno non solo rispetto alla situazione odierna, ma anche alla situazione che ci sarà tra dieci, venti o trent’anni, perché una riforma così profonda degli assetti della Repubblica Italiana non può essere improvvisata, né lasciata alle valutazioni presentiste e ai tatticismi (senz’altro in buona fede) di certi politici regionali o nazionali. E ancor meno rilevanti sono certe articolesse che con un lessico inquietante parlano di “fronda del sud”, “nordisti e sudisti” ecc.

Il Vangelo dice a fructibus eorum cognoscetis eos: li riconoscerete dai frutti. Se l’autonomia è stata cosa molto positiva per il Trentino e l’Alto Adige, e ha funzionato nel complesso bene in Friuli-Venezia Giulia, non si può dire lo stesso per le altre regioni a statuto speciale (anche al nord). E la pandemia ha dimostrato i limiti di un sistema sanitario regionalizzato, specie di alcuni territori.

Di fronte alle gigantesche sfide climatiche, industriali, demografiche e militari, indebolire la tenuta geopolitica dell’Italia trasformando il nostro paese in una confederazione surrettizia di staterelli regionali è pericoloso. Un conto è la Svizzera, circondata da grandi paesi e dalle montagne, un altro è l’Italia, in mezzo al Mediterraneo. Nell’interesse di tutti gli italiani, siano essi padovani o catanzaresi, arzignanesi o gallipolini, milanesi o napoletani, bisogna evitare ogni eccesso, ogni furor regionalista alimentato da una bolsa e apodittica retorica anti-Stato che sa tanto di anni ’90.

Materie strategiche come la scuola, il “commercio con l’estero”, le “grandi reti nazionali di trasporto e di navigazione”, la “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” non possono, e non devono, essere frammentate, anzi: occorre un maggior coordinamento nazionale, a beneficio dei cittadini, delle imprese e dell’ambiente.

Non parliamo poi dei “rapporti internazionali e con l’Unione Europea”. Davvero vogliamo dare più spazio alle regioni in un settore così delicato e strategico? Il governo, e leader pro-NATO come Enrico Letta, Giorgia Meloni o Mara Carfagna, sanno o no, per esempio, del sostegno russo al secessionismo catalano, e delle ciniche strumentalizzazioni che Mosca ha compiuto riguardo al controverso referendum del 2017? Media internazionali, organizzazioni investigative e autorità giudiziarie se ne stanno occupando da anni. Non solo: Mosca da anni sostiene, per esempio, il secessionismo di vari stati nordamericani (e ovviamente di vari territori dell’Ucraina; è una sua specialità). Del resto, da sempre gli imperi e le potenze imperialiste ricorrono al divide et impera. Dopo la Grande Guerra l’Italia fascista, per esempio, alimentò il secessionismo croato per sgretolare l’odiata Jugoslavia; e la tragedia del Partition del 1947 non fu certo dovuta solo agli errori dei politici indiani e pakistani…

Davvero vogliamo consentire a qualche consigliere regionale, che magari si informa soltanto ascoltando certi “esperti” di geopolitica in TV, di avere voce in capitolo negli esteri, e di poter dialogare con diplomatici russi, egiziani, cinesi? E se qualche potenza straniera iniziasse a soffiare sul fuoco del secessionismo di questa regione o quell’isola? Se questo o quel dittatore si appoggiasse alla criminalità organizzata per rafforzare talune velleità indipendentistiche? Il pianeta non è più un parco-giochi. In un mondo multipolare la politica estera e il commercio con l’estero devono rimanere in mano allo Stato, alla Farnesina, a Bruxelles. È questione di sicurezza nazionale. Serve moderazione.

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