Energia

Il petrolio non è solo economia: la sua crisi è la crisi d’identità di un mondo

3 Giugno 2020

Il crollo del prezzo del petrolio è una delle conseguenze globali più evidenti della pandemia di Covid-19 che ha colpito il pianeta. Gli accordi raggiunti in sede Opec hanno consentito di sostenere il prezzo, ma tutti i migliori analisti indipendenti invitano gli investitori alla cautela. I “fasti” del passato potrebbero davvero non tornare più, e le stime delle grandi banche d’affari vedono per il 2021 il barile a 45 dollari.  Nonostante, per il momento, il prezzo del rifornimento – in Italia – non abbia mai subito un calo superiore al 16%, in generale, il costo del barile è precipitato fino al 70% del periodo pre pandemia.

Il trend negativo, in generale, del costo di un barile, è in atto da tempo. Tanti i fattori che concorrono a non aver più toccato i livelli dell’inizio degli anni Duemila, ma dall’inizio del 2020 si assiste a un precipizio.

Secondo gli analisti del settore, sono tre le date che dall’inizio del bisesto 2020 hanno inciso in maniera drammatica – per i paesi produttori – sul costo del greggio: il 16 gennaio 2020, quando l’escalation militare tra Usa e Iran sembrava sul punto di deflagrare in un conflitto aperto, il 1 aprile 2020, quando il lockdown è diventato globale e il 13 maggio scorso, quando il prezzo è crollato ancora alla vigilia della riapertura, deludendo i produttori che si aspettavano una reazione diversa dei mercati.

Per capire: un barile di greggio il 16 gennaio 2020 costava 61,5 euro, il 13 maggio il prezzo dello stesso barile era precipitato a 19 euro.

Fin qui la parte economica, che avrà ben altre analisi e differenti sviluppi, ma quello di cui si parla meno è l’aspetto narrativo di questo crollo. A ben vedere, al di là di paesi molto più complessi come l’Iraq o l’Iran, fino a produttori esterni al Medio Oriente come il Venezuela o la Russia, le monarchie del Golfo Persico non hanno con il petrolio solo una storia economica.

Attorno al petrolio, negli Emirati Arabi Uniti o in Arabia Saudita, si è costruito un mondo intero, una visione del mondo, un racconto di sé che mai – dalla scoperta dei giacimenti – ha pensato di doversi trovare a gestire una narrazione differente.

Per far fronte al calo del prezzo del petrolio e della pandemia, il ministro delle Finanze saudita, l’11 maggio scorso, ha annunciato un piano di austerità che prevede l’aumento delle tasse e la riduzione della spesa pubblica. L’iva sarà triplicata al 15 per cento e saranno interrotti i sussidi mensili ai cittadini.

Quel che rischia di saltare è un patto sociale. Quello che attorno a delle singole famiglie ha prodotto ‘nazioni’, su criteri di appartenenza poco più che clanici, legati a doppio filo alle prebende di stato che garantivano uno stile di vita inimmaginabile fino a non troppo tempo fa.

Un luogo straordinario, in questo senso, è il Museo delle Perle di Dubai. Tendenzialmente un museo sulla storia di un luogo e delle vite che lo attraversano tende a celebrare cultura, tradizioni. Un senso di grandeur, sempre e comunque, da solidificare in un percorso istituzionalizzato. Ecco, a Dubai, viene celebrato il fatto che il passato è alle spalle.

Un borgo di pescatori di perle, un insediamento umano di umili pretese. Gli strumenti di lavoro, gli attrezzi legati alla pesca delle perle, la vita quotidiana di pescatori e marinai non è celebrata. E’ ricordata. A tratti sembra più un monito: la scoperta del petrolio ci ha salvati da tutto questo.

In Arabia Saudita, negli anni’30, è nata una società che non esisteva. Attorno a due principi cardine: la custodia dei luoghi più sacri dell’Islam e il petrolio. Il secondo cardine, ha fatto degli Saud gli indiscutibili responsabili del primo cardine. Non il contrario.

Oggi tutto questo sembra in affanno, in crisi. Già da tempo, il rampante Mohammed bin Salman – principe ereditario del trono saudita – ha tentato di mettere mano a questa narrazione. Il suo Saudi Vision 2030, una sorta di road-map sul futuro del paese, scritto e pensato a uso e consumo dei partner commerciali e politici in Occidente, sempre sotto pressione per le relazioni scabrose con i sauditi, è un monte di promesse. Rinnovabili, smart economy, finanza, immobiliare e l’ambizione di diventare l’hub della logistica regionale. Tenere il sacro e il profano assieme, emancipandosi dal petrolio. La realtà, però, è ben differente. Sono i petroldollari a permettere anche solo di immaginare un futuro, perché il presente è ancora tutto nell’oro nero.

Gli Emirati e l’Arabia Saudita potrebbero trovarsi a scrivere di nuovo un futuro, ma, avendo consegnato ai posteri un passato e un modello sociale, costruirne ex novo un altro non sarà facile.

Città di sale, il romanzo capolavoro di Ar-Rahman Munif Abd, è ambientato in un luogo senza nome, un emirato del Golfo del 1930. Il libro narra le vicende di una piccola oasi comunitaria, costretta alla diaspora in seguito alla scoperta del petrolio da parte degli americani. Sono gli occhi di vari personaggi beduini che mostrano ai lettori gli sconvolgimenti e le trasformazioni radicali causati dalla colonizzazione e dallo sfruttamento degli arabi e degli americani, ma non solo.

Accanto ai profitti delle compagnie petrolifere, che scandiscono il ritmo del romanzo, affiora un mondo antico, radicato a tal punto nelle sue tradizioni e superstizioni da impaurire anche al solo passaggio di una macchina. Emerge allora con forza anche il rapporto tribalismo-Islam, tradizione-tecnologia. Un affresco delle società del Golfo, in particolare dell’Arabia Saudita, di due culture e due epoche, quella araba e quella del petrolio, che pur incontrandosi restano eternamente divise.

All’epoca sembrava un rifiuto della modernità, un chiudersi in sé stessi. Oggi quel romanzo sembra quasi profetico, perché quella società non è stata solo superata, ma cannibalizzata dal presente di palazzi senza anima. Le tradizioni, come la caccia al falcone o gli abiti e le danze tradizionali, svuotate a mera attrazione per turisti. Le stesse popolazioni, i giovani in particolare, sono cresciuti in società dove il massimo impegno chiesto loro era quello di fare i ‘soci’ locali di holding straniere. E godere dei dollari che piovevano. E se tutto questo finisse? Come potrebbero raccontarsi ed essere raccontati?

“Gli uomini riempivano i barili, li vedeva in lontananza sulla linea dell’orizzonte, come piccole ombre nere, dalla statura bassa, muovevano le braccia in aria, come se giocassero, cercando di svuotare l’acqua del mare in piccoli contenitori, o di svuotare l’aria del cielo in caraffe di latta”, scriveva Nawal al-Sadawi nel suo L’amore ai tempi del petrolio.

Quegli uomini, oggi, hanno vissuto per decenni a una dimensione: il petrolio. Le loro macchine, le loro case in tutto il mondo, i club di calcio prestigiosi, qualunque capriccio era là, da cogliere, E a godere in società schiaviste, che trattano i migranti come i commercianti arabi in Africa trattavano le braccia in catene.

Fare i conti con il passato può essere doloroso, ma fare i conti con il futuro può essere impossibile. Ci sarebbe da rielaborare un immaginario che, da tempo, è tutto d’importazione. Quel che un giovane saudita – se non ha voltato le spalle a tutto questo, e ce ne sono, purtroppo anche nelle file integraliste – o emiratino desidera, possiede, compra è frutto di una cultura altra. E sarebbe difficile imparare a sognare un mondo differente.

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