Letteratura

Graziano Gala nel suo libro “Sangue di Giuda” riscatta la dignità degli ultimi

1 Gennaio 2023
Intervista allo scrittore pugliese che con il suo romanzo d’esordio edito da minimum fax ha sdoganato la libertà di fondere la lingua italiana con un idioma dialettale che permette al cuore di parlare

 

Graziano Gala, nato a Tricase, in provincia di Lecce, trasferitosi a Milano dove insegna, è autore di numerosi racconti pubblicati su riviste e litblog, ha esordito nella letteratura che conta con il suo primo romanzo “Sangue di Giuda” edito da minimum fax.

Un libro che già dai suoi albori, nell’aprile del 2021, è riuscito ad impressionare molto favorevolmente i lettori, riscuotendo un innegabile successo ed apprezzamento della critica di genere. Pagine nel corso delle quali, si racconta l’umanità falcidiata da dolori strazianti controbilanciati da un ardente desiderio di risurrezione, che sfinisce quasi, per la sua potenza salvifica.

La scena è Merulana, paese immaginario di un meridione d’Italia dimenticato dove, Giuda, nome con cui viene chiamato da tutti il protagonista ed Io narrante, trascorre i suoi giorni in un campo minato fatto di brandelli di passato logorato e di soprusi giornalieri. Viene soprannominato Giuda dai suoi compaesani, proprio per etichettarlo in modo superficiale e sprezzante a seguito di un presunto tradimento perpetrato ai danni di un padre dal piglio soffocante e dittatore, che lo avrebbe voluto sottomettere alla sua visione distorta e disperata del mondo, privandolo di qualsiasi speranza di un futuro lontano dalla miseria. Sono così tanto abituati in un paese ipocrita e desolato a chiamarlo in modo sdegnoso, che nessuno più si ricorda come si chiami per davvero. A partire dal carabiniere che riceve la sua denuncia dopo il furto di un televisore Mivar vecchio e sgangherato, vicenda con cui parte la storia. Nemmeno lo scrutatore di turno al seggio elettorale durante le votazioni, legge le sue generalità esatte, ma lo registra come Giuda Iscariota. Una assuefazione all’essere invisibile che contagia anche lo stesso protagonista, inducendolo a firmarsi nelle lettere indirizzate ad Angiolina, sua moglie di cui si sono perse le tracce in modo imprecisato e senza alcuna logica, come “Tuo marito”.

Livore e disprezzo che gli viene testimoniato finanche dalla figlia, che di notte abbandonandosi all’oscurità del degrado, sudore e lacrime, si incammina ai margini del paese, per andare dal fratello Turi Bunna, il quale per sopravvivere si traveste e prostituisce nel ghetto in cui si ritrova. E così, Giuda si rifugia con la sua maschera di dolore incancellabile in una sorta di bolla di dimenticanza, che stordendolo, gli permette di circondarsi da una umanità vasta ed indecifrabile, per quanto unita dallo stesso grado di disperazione che, se condivisa, fa sentire meno il gelo dell’amputazione di alcune parti del cuore. Giuda ed il suo mondo fatto di un gatto con disabilità, un cane pelle e ossa, un vicino di casa la cui cittadinanza americana o inglese, non gli importa molto di conoscere e definire, e della coppia Zanfrolin, giunta dalla Polentonia per penitenza. Poi c’è Saverio, un bambino che Giuda vorrebbe avere come nipote. Mentre la star d’eccezione che riempie le loro serate con una replica del Festival di Sanremo è Pippo Baudo, capace di alleggerire per alcuni momenti le sventure degli abitanti di Merulana che lo seguono alla televisione. Alcuni. Altri, invece, sono indaffarati ad organizzare la campagna elettorale del candidato sindaco Mammoni, promettendo dai traguardi calcistici stellari per la Vesuviana, squadra locale, fino ad una casa d’appuntamenti per gli elettori maschi, che soggiogano in tutto e per tutto le mogli, indirizzandone anche il voto. Un miscuglio di corruzione e squallore per accaparrarsi il governo di tutti i disperati che abitano a Merulana. Chi rimane slegato da tanta nefandezza è solo Pippo Baudo, una voce capace di accompagnare Giuda nei suoi incubi notturni, alle prese con il fantasma di suo padre Santino che dopo aver tentato di ucciderlo di botte quasi mezzo secolo prima, riemerge dalle tenebre del suo inconscio per cercare di travolgerlo definitivamente. Ma, a frapporsi in questa ragnatela di angoscia e dolore, è il furto del vecchio televisore Mivar, grazie a cui, Giuda, si imbatterà nella figura ristoratrice di Monia, addetta alle vendite per la Mammoni Elettrodomestici, la quale favorirà un epilogo di rinascita per il protagonista, consentendogli di riemergere verso la luce e la libertà. Ovvero verso la vita.

 

Delle emozioni racchiuse in questa fatica letteraria, ne abbiamo parlato con l’autore, Graziano Gala.

 

 

Graziano, le pagine di “Sangue di Giuda” sprigionano una umanità dirompente che, l’utilizzo del dialetto, personifica ancora di più, trasportando il lettore in una sorta di “casa linguistica”, coniata per fare scorrere gli eventi fisici e, soprattutto, interiori. Quale codice di comunicazione hai voluto infondere a questa storia?

 

Raffaello Baldini diceva che certe cose succedono solo in dialetto. Penso che la storia di Giuda non potesse essere detta altrimenti. Per me è stato un onore immenso fare da contenitore, lasciarmi attraversare, poter dare luogo alla lingua della mamma, un poco disgraziata e poco istituzionale, però per me così vera e immediata, urgente. Una cosa urgente non poteva essere detta in diplomatese: se ti rubano il televisore e papà è nell’armadio pronto ad azzannarti come fai a preparare l’italiano per dire cosa sta per succedere? Ognuno chiede aiuto nella lingua che si porta appresso. Io e Giuda questa tenevamo e questa abbiamo usato. Sono contento poi, emozionato, e credo di poter parlare anche per lui, che sia diventata lingua di tanti, che abbiamo trovato qualcuno con cui parlare, qualcuno che ci facesse guarire dal silenzio. Il silenzio è pericoloso, ti ci puoi ammalare”.

 

 

Nella realtà di tutti i giorni, di quali panni si vestirebbe Giuda, il protagonista, avvolto nella sua semplicità e umiltà, una parafrasi perfetta, dei grovigli esistenziali di ciascuno di noi?

 

Giuda è nu spasulatu, uno che quando lo vedi cambi marciapiede: una camicia sola, sempre la stessa, i denti in miseria e la faccia di uno che gli è capitato un guaio. Ne vedo tanti, di Giuda, alla stazione, in metro o quando torno al mio paese: si portano sempre appresso una storia, questa cosa mi fa impazzire. Sono gli aedi, le memorie, ti sanno dire li cunti , sanno cose che sono successe e non importa se nella loro testa o altrove. Sono come il fanciullino di Pascoli. Io quando penso ai Giudarielli mi commuovo. Io sono un Giudariellu, uno che ogni tanto si perde e deve raggomitolarsi da qualche parte della strada”.

 

 

 

Il tuo romanzo di esordio ha riscosso un grande successo, incontrando il gradimento molto autorevole della critica letteraria che conta, cosa ha significato per te e per il tuo essere uomo del Sud?

 

Io vendevo la verdura al mercato, mi vestivo con le robe dei sacchi gialli e le scarpe che mettevo non sempre era detto fossero mie di prima mano. Per me quello che è successo è stato un autentico miracolo, una specie di storia natalizia. Giuda mi ha fatto un regalo: mi ha emancipato, ha dato un poco di dignità alla mia famiglia. Sono cose importanti: i disgraziati possono solo attaccarsi alla speranza, altro non tengono. Io, il Sud lo rivendico: sono nato in una frazione che fa mille abitanti, la strada in cui abitavo ora non ha neppure una delle vecchiette che a sera affollavano il marciapiede per raccontarsi la giornata. Qua sono successi i guai, i drammi –  ché tanto la legge mica arrivava –  e si è sviluppata una specie di ginnastica al resistere, una elasticità specifica. Io senza questi posti sarei più clandestino e straniero di quanto non sia. Perciò sì, per me è stato importante che succedesse un fatto così a uno che è nato qua, perché maledizione non può sempre succedere tutto a Roma o a Milano. Pure qua ci sono le bocche e lo stomaco che tiene fame, è che a volte manca la voce: tocca urlarle, le cose“.

 

 

Cosa rappresenta per te la scrittura? E la lettura?

 

Penso di essermi salvato, di provare a salvarmi così. Quando leggevo Padre padrone, quando trovavo certe cose nei testi di Argentina o di Tesson mi dicevo sempre – non sei solo, non sei solo, è successo anche agli altri. La lettura è stata antidoto alle paure, giganti, che ancora oggi rischiano di trascinare, a volte, la scrittura è stato il modo di espiare, di dire certi fatti in certi modi ché altrimenti si rischiava di affogare e strozzarsi. Ci sono delle cose che non dovevano succedere (e che sono successe): piangere è inutile. Bisogna sedersi piano piano, trovare la parola precisa, quella che possa tenere tutto dentro, tirarsi fuori, e magari cercare di tirare fuori qualcun altro. Una ragazza a Berlino dopo una presentazione mi ha abbracciato e mi ha detto anche io. Io mi sono sentito meno solo. I libri servono a questo: a trovare qualcuno che voglia camminare con noi per un pezzo di strada“.

 

Quanto staziona in te di Giuda?

 

Tanto. Giudariellu, certe volte penso che sia uscito fuori lui per aiutare me, e non che io abbia inventato lui. Lui me, lui con me, vicino a me, sempre. Giuda è venuto fuori una sera che stavo seduto sul pavimento a Inzago in una soffitta senza finestre, senza cucina e senza lavatrice. È venuto fuori per Cosimo Stano e per Lelio Baschetti e per tutti quelli come loro, ché pure troppi ce ne sono. Ed è stato così gentile, così buono da non lasciarmi più. Io gli sono devoto, lo ammiro tanto: io non sarei riuscito in niente. Io gli voglio bene perché lui, nonostante tutto, ha voluto restare con un cuore di bambino. È una cosa così rara“.

 

In uno dei tuoi ringraziamenti ad un anno dalla pubblicazione del libro, citi una frase della Bibbia, molto suggestiva per il contesto a cui si riferisce: “Io lo so in chi ho creduto” . Per fare nascere “Sangue di Giuda”, Graziano Gala, in chi o cosa ha creduto?

 

“L’altro giorno Giulio Mozzi ha detto – parlando di un suo autore – una cosa bellissima: per certe cose ci vuole fede. Io non ho un agente, non tengo corsi di scrittura, non tengo mammasantissima pronti ad accompagnarmi nei meandri della realtà. Io però tengo una cosa più preziosa (e incomparabile): qualcuno che mi vuole bene. Fabio Stassi, che ha visto sette righe sette di Giuda e ha deciso che non si poteva fare altrimenti, Daniele Di Gennaro e Luca Briasco, che si sono fidati, la minimum tutta. Tu vuoi mettere, per uno che non gli hanno mai accordato mezzo grammo di fiducia, per uno che ogni tanto si sentiva dire (chiedo scusa) che era un poco ritardato, un poco con qualche cosa che non funzionava nella testa, cosa voglia significare? Io mi sono sentito preso per mano e questa mano non me l’hanno più lasciata. Hanno capito che ero sensibile, nient’altro: tenevo solo bisogno – come dice mia zia – di essere voluto bene. Quando ho sentito il bene non mi sono fermato più. Io non sono credente, ma in certi passi la Bibbia è insuperabile: io so in chi ho creduto, e non me lo dimenticherò mai”.

 

Cosa si cela dietro ad un titolo che riguarda l’umanità intera?

 

“I titoli sono loro che vengono, così come le storie: tu non decidi mai niente. Sangue di Giuda, che poi ho scoperto essere pure in un incipit stupendo di Di Monopoli, era l’unica bestemmia consentita giù da me. Giuda, il traditore, l’ultimo, quello colpevole della storia. C’è una canzone stupenda degli Afterhours, la conosciamo tutti,  C’è solo sangue dentro dice, e così è stato. Sangue di Giuda, che Giudariellu mio il sangue l’ha dovuto buttare davvero goccia a goccia per venirne a capo, per guadagnarsi un nome, una possibilità di esistenza”.

 

Marc Chagall diceva: “Se creo dal cuore, quasi tutto funziona; se creo dalla testa, quasi nulla. Graziano Gala, a cosa si affida maggiormente per creare con le parole?

 

“Subito m’è parso di avere il cuore dappertutto – diceva Nabokov in Lolita. Io non penso si possa fare altrimenti: la testa serve solo a scappare in tempo. Il cuore, lo stomaco, i polmoni: è tutto là. Rischi di franarci in mezzo, ma alla fine se non cerchiamo di attraversare, di camminare in mezzo a queste macerie per paura che ci si aggrappino, che senso ha, il tentativo?”.

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