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Una coraggiosa discontinuità d’osservazione
Liborio è un cocciamatte – in dialetto lancianese un matto, il tipico matto di paese – e l’Italia che attraversa, raccontata a segmenti di anni, dal 1926 al 2010, per capitoli, finiscono per disegnare la storia del Paese Maiuscolo, dagli inizi del Novecento ad oggi. Questa in sintesi la storia di “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio” di Remo Rapino, uscito per minimum fax. Ma il merito di questo libro-flusso di memoria, in cui il protagonista racconta l’altra-storia “toccata” dalla grazia naif della visione straniata del suo protagonista, è anche a monte. Nella scelta. Inconsueta. Remo Rapino entra nel catalogo minimum fax consacrando una scelta non di breve respiro, né radical e decisamente affatto chic. Consolidando la capacità dell’editore romano di essere ormai un editore sì di innovazione e di ricerca ma pure di attenzione trasversale. Un’attenzione che riesce a cogliere un’area italiana poco incline a essere osservata, l’Abruzzo e l’Abruzzo interno (qui Lanciano, nel chietino) e un autore già non più in un’età verde, non inedito ma poco conosciuto, ma senza che questo sembri repechage ma vera e propria scoperta. E tutto suona rivalsa come la storia del suo libro. Ma torniamo al romanzo, appunto.
Il cocciamatte Liborio la vita l’ha vissuta tutta. Studente del maestro Cianfarra Romeo. Soldato e operaio (fiommista) lo è stato. Contestatore, persino. Come pure ragazzo di bottega, cordaro e aspirante ragazzo spazzola. Carcerato. Internato pure, è stato. E liberato – vivendo il passaggio della legge Basaglia. A Lanciano – se lo è, pur a tratti riconoscibile – si succedono città e ambizioni: Milano e Bologna. Bagnacavallo, isolata come un luogo fantasma dal suono catturante. E le grandi fabbriche Borletti e Ducati. In mezzo scorre una vita senza amore se non a pagamento e innamoramenti forse non possibili né sani ma comunque fallimentari anche se sentiti, almeno nella rivalsa per la Giordani traditrice che sempre ride o la maitressa.
La scrittura ha una grande tensione dialettale e un crinale continuamente percepibile delle tensioni: sano/insano, città/paese, normalità/follia. Ma il lettore non si sente chiamato a scegliere. In questo, “Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio”, non è un libro partigiano ma di una ingenua narrazione storica che suggerisce un punto di osservazione più che un punto di rottura, rivalsa a parte.
Di morte ce n’è una anche se anticipata da varie lapidi in una personale e autonarrata spoon river. Di miracoli, diversi. Come quello attorno al Circo Borzacchino quando scoppia il rastrellamento tedesco: “L’inferno arrivò di pomeriggio, tutto di botto, che pareva che tutti i diavoli uscivano da sottoterra con le corna e i forconi e gli occhi rossi”. Il miracolo è sempre vivere – anche nella versione lo-fi del sopravvivere che tocca in sorte ai meno fortunati. Che sono poi loro, direbbe Liborio Bonfiglio, i fortunati, a guardar bene.
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