Costume

Viaggio alla scoperta del turista

29 Aprile 2019

Uno spettro si aggira per il mondo: il turista.

Appare, fotografa, posta su Instagram e scompare. Tutti lo inseguono, eppure non gode sempre di ottima reputazione, né presso gli inseguitori, né presso se stesso. Soprattutto presso se stesso: “Non lo faccio, è roba per turisti…”.

L’essere turista lo complessa. Lo complessa al cospetto degli altri turisti complessati del loro essere turisti. Non a caso, all’occorrenza, tende a respingere il proprio status, sottolineando la sua predilezione per il viaggiare a riparo dall’inflazionato, alla ricerca di percorsi, destinazioni e alloggi che lo facciano sentire turista il meno possibile, che gli permettano di raccontarsi come viaggiatore tout court, avvezzo allo spostamento flessuoso, esistenzialista in itinere, ostaggio della serendipità, estraneo alle coliti e al feticismo dozzinale, scopritore di gemme ancora inesplorate, individuo dinamico, naufrago compiaciuto.

Tra tutti, il turista culturale è quello che vive con maggiore perplessità il sentirsi turista. Non vorrebbe affatto. E non disdegna interminabili pipponi sull’argomento.

Il suo sguardo estetico raffinato e la sua istruzione gli provocano disagio quando gli analisti dei flussi lo accorpano alle truppe in infradito e bermuda che invadono le nostre estati.

Lui è figlio delle descrizioni proustiane, dell’imprevisto ironico, delle passeggiate immaginarie tra le rovine di un Hegel alle prese con la filosofia della storia, con il corso razionale degli eventi e la sua avidità di macerie, o è figlio di un rovinismo settecentesco, meno astuto e più nostalgico.

Non contempla il viaggio banale, non sarebbe all’altezza dell’immensa aforistica sul viaggiare fatta di illuminazioni improvvise e incontri segnanti di cui ama nutrirsi.

Alle volte, non riuscendo a stabilire se sia la sua visita in un luogo ad arricchirlo o se sia il luogo ad arricchirsi grazie alla sua visita, decide persino di approcciarsi a contesti inconsueti per i propri standard, ponendosi da pioniere, tentando di gentrificare il trash, sbrodolando il suo imperdibile punto di vista fuori dagli schemi e ribaltando le comuni gerarchie: “Il Colosseo? Sputtanato. Molto meglio la Tangenziale Est”.

Nulla da spartire col più pratico turista sessuale, prossimo ad altre forme di gratificazione e in pace con stesso, forse troppo in pace con se stesso. E nemmeno con il turista oscuro, pornograficamente incolore, ma incline a sollevare le natiche solo in virtù di spinte psicologiche meno nobili.

Per quest’ultimo, infatti, l’eventuale visita alle rovine dell’antichità non ha né valore di monito, né valore conoscitivo, essa ha valore in quanto espressione del disfacimento in sé. Al punto che non conta quale sia l’oggetto da osservare o se abbia un peso storico. L’importante è che evochi morte, sofferenza e catastrofe.

Costui, nella migliore delle ipotesi, trova conforto nell’altrui disperazione, senza confessarselo o confessandoselo senza soffermarcisi. Ad esempio, nel contemplare il povero che fruga nell’immondizia in qualche periferia del terzo mondo. Magari sentendosi in colpa per “la barbarie insita nella civiltà borghese” che si offre senza veli ai suoi occhi colonialisti.

Abbandonandosi a un’empatia che si scopre controversa nel non avere lieto fine, nel sussurrargli “per fortuna è capitato a lui”. Un’empatia che serve a ingentilirgli la vita, a farlo soffrire al momento per poi ricordargli la sua abituale distanza da quella sofferenza. Un’empatia, sebbene molto smorzata, che ricorda quella del sadico. Il quale ha bisogno di empatizzare con la sua vittima per poter provare piacere. Questo, dicevamo, nella migliore delle ipotesi.

Nella peggiore, invece, l’adepto del turismo oscuro si muove assecondando il proprio gusto del macabro, consentendogli la disintermediazione, l’intrattenimento dal vivo.

Insomma, cominciamo a capire, da turisti, perché il turista non goda di ottima reputazione.

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