Turismo
Ucraina: la guerra non ferma i turisti “estremi”
Chi cerca monumenti e chi avventura. Chi vuole vedere un paese in guerra e chi la guerra manco crede che esista per davvero. Il turismo in Ucraina non è morto del tutto sotto i colpi della invasione russa. Qualche straniero – sfidando i rischi – continua a girare tra Leopoli, Kiev e il resto del paese. Ma fino a che punto ha senso andare a spasso dove un conflitto armato uccide cento persone al giorno e milioni di rifugiati sono costretti ad abbandonare le loro case?
Incontro Simon al Dream Hostel, due passi da piazza Rynok, il cuore di Leopoli, la città più grande nell’Ovest dell’Ucraina. «E’ pulito, molto economico. Al giorno sono 200 grivnia (la moneta ucraina, ndr): sei euro. Te lo consiglio», mi dice mentre ci sediamo nel piccolo cortile interno. E, una sigaretta dopo l’altra, mi riassume la sua vita da nomade del Ventunesimo secolo. E’ nato in Danimarca, ma suo padre è morto da tempo, sua mamma è mancata a marzo. Una casa, una famiglia da cui tornare non c’è più. I soldi invece non mancano: «Ho qualche investimento», si limita a dire, un po’ enigmatico. Fatto sta che da mesi e mesi non fa che viaggiare, zaino in spalla. Incessantemente.«Ma erano già anni che non vivevo più stabilmente da nessuna parte. Sono un musicista: suono il piano e per studiare ho vissuto in Russia, Olanda, Germania».
La carta d’identità dice 28 anni. Le rughe intorno agli occhi, stanchi, raccontano una vita vissuta tutta con il piede sull’acceleratore. «Negli ultimi tempi, sono stato ad Amsterdam per qualche settimana: conosco una famiglia là; ero ospite. Poi Copenaghen, poi…» e via elencando. Per ogni paese, alza un dito, quasi a non voler perdere il conto, il filo. Partenze e arrivi. Arrivi e partenze. Mi fa pensare a Sisifo, ma con un bagaglio da riempire al posto della pietra da far rotolare. Comunque. Il suo racconto arriva finalmente al penultimo episodio: Cracovia, in Polonia. «Io e Joe, un amico inglese che avevo conosciuto da poco eravamo alla stazione dei bus. Ed ecco che arriva anche un altro ragazzo, Brian che è cinese, ma vive negli Stati Uniti. Siamo lì, come ti dicevo, e vediamo che è possibile andare pure in Ucraina a Leopoli. E allora ci diciamo: ehi, okay, sono 40 euro, andiamo!».
Ed è a questo punto del racconto che io invece levo lo sguardo dal telefono su cui sto digitando appunti e mi dico: questo è davvero partito a rutto per andare in un paese in guerra? Nessuno ci crederà mai. «Posso registrare?», domando. Nessun problema, mi risponde. E io pigio subito su rec.
«Con i miei occhi»
Simon riparte da dove si era fermato: la stazione dei bus, i compagni di avventura, la lotteria della meta. «Brian nemmeno lo conoscevo per davvero fino a quel momento: lo avevo giusto incrociato in un bar a Cracovia, che ballava come un pazzo, facendo ridere tutti… Beh, Brian fa: voglio andare là, in Ucraina, per vedere con i miei occhi. E io dico: anch’io». Simon, per un attimo, si fa incerto. Si vede che un po’ gli dispiace dirmelo in faccia, visto il lavoro che faccio. Ma poi spara: «Non ho fiducia nei media. Le persone al potere li controllano. Ora non voglio dire che non ci sia anche tanto giornalismo scomodo, ma…». Lo interrompo: tanto credo di aver capito. Gli domando, secco, però, cosa è che voleva venire a vedere esattamente qui a Leopoli. «La città – mi risponde -, la gente… Come è la situazione qui, insomma». Di nuovo esita, un secondo: «Volevo vedere se la storia era come mi era stata raccontata». In certo qual modo volevi vedere la guerra, insomma. «In qualche modo, sì. Non direi che sono un “turista della guerra”, non sono così, non sono interessato alle armi, ma… Cioè, non so se è una cosa sbagliata, ma è anche una esperienza che ti capita una volta nella vita, quella di poter andare con diverse persone in un posto così».
Seguire la corrente
Mentre Simon parla, mi domando se lui e i suoi amici si rendano veramente conto dei rischi che stanno correndo. In questi giorni Leopoli è tranquilla e la vita scorre quasi normale: ristoranti, bar, negozi, musei sono tutti aperti; le strade di nuovo affollate. Ma non è sempre stato così e non è detto che continui così. Da tre mesi sto in Ucraina e faccio base qui: ci sono state settimane migliori; altre un po’ più complicate. Ma a Leopoli, per parlarci chiaro, ogni tanto arriva qualche missile. Quando, dove, come: non si sa. Ma arriva. Il futuro, inteso come di qui ad un’ora, è semplicemente imprevedibile. E poi c’è sempre il coprifuoco; ronde di soldati armati; gli allarmi antiaereo.
Glielo dico senza tanti giri di parole. E lui mi risponde, con grande onestà, che in effetti non è che avesse proprio una idea precisa di quel che l’aspettava: «Ho amici in Ucraina, ad Odessa, quindi un po’ di cose le so. Ma non avevo davvero controllato nulla prima di venire qui, non avevo guardato neppure il sito del mio ministero degli Esteri», che va da se il viaggio lo sconsigliava alla grande. «Ma io – mi dice – sono così. Non sono uno che si mette lì seduto a fare piani. Semplicemente, seguo la corrente».
Al club di spogliarello
La corrente, a furia di scorrere, lo aveva portato a incontrare, in Polonia, anche un soldato ucraino in libera uscita: «Stavo in un strip club, a Cracovia, okay? E c’è questa ragazza che balla e si dimena davanti a me. A fianco, però, avevo questo ucraino, un soldato che intanto mi faceva vedere un video: lui e altri dieci suoi compagni che facevano esplodere una bomba, bum! Cioè questa faceva la lap dance e lui che diceva: Poi torno a fare sta roba, torno a fare sta roba! Ecco, io e Joe, di gente così, di ucraini che stavano a Cracovia, ne abbiamo conosciuti e siamo usciti a bere e…». E insomma, anche questi incontri ti hanno fatto venire voglia di vedere il paese? «Esatto», mi risponde. E alla fine è saltato su quel benedetto pullman.
«Superfelice di essere qui»
Quello che il soldato, tra un ballonzolare di chiappe e l’altro, forse non ha raccontato a Simon è che cento ragazzi in divisa come lui muoiono ogni giorno in questo paese. Mentre donne, uomini, bambini – a migliaia e migliaia – non hanno più una casa, a causa dei bombardamenti martellanti dei russi. Ma il dramma dei rifugiati Simon, poi, lo ha toccato con mano, stringendo quella di un rifugiato che è arrivato qui da Kharkiv, una delle città, nell’Est del paese, più martoriate dai bombardamenti russi. «Sta qui anche lui all’ostello – mi racconta Simon – perché ha una casa là, nella sua città, ma non ci può tornare. Faceva il corriere, ma ora deve cambiare lavoro: sta imparando a programmare, però è complicato. Dice che tutto quello che ha visto, come la morte del marito di una amica, gli ha incasinato la testa. Non ero venuto per vedere cose così, ma sono esperienze che rimangono con te, che ti cambiano la vita. In un certo modo, io sono superfelice di essere qui, proprio per questo…».
«Un’esperienza che ti cambia»
Più parla e più mi rendo conto che sì, disorganizzato, imprudente – e pure un po’ cazzone – Simon lo è. Ma nel suo caos, c’è anche altro. Quando, in una delle sue mille digressioni, parla di musica, il suo mestiere, si illumina e mi illumina, mescolando cantanti trap e Bach, concerti pop e Liszt, e facendosi capire pure da me, che nel campo delle sette note, quando apro bocca, paio il Razzi di Crozza. Quando parla degli ucraini, poi, lo fa con il cuore: «Siamo stati accolti in maniera fantastica, da tutti. E per quel che posso, aiuto: anche quando vado al ristorante, lascio sempre buone mance. Questa esperienza mi ha cambiato. Pensavo solo a fare festa, e ora invece…».
Già, e adesso? Piani Simon non ne ha mai fatti e non ha intenzione di farne neanche stavolta, mi dice. Potrebbe lasciare subito l’Ucraina, per andare in Cecoslovacchia: «C’è un concerto di Smokepurpp, là; conosco uno dei suoi producer; mi piacerebbe lavorare con lui». Oppure potrebbe andare a trovare un amico ad Odessa. «Ma non penso lo farò, perché se mi succedesse qualcosa, lui non se lo perdonerebbe mai». Chissà. I suoi compagni di viaggio, invece, hanno già praticamente deciso: prenderanno un treno, vogliono vedere altre parti dell’Ucraina.
Guerra? Quale guerra?
Simon e i suoi amici non sono casi unici e nemmeno i più, per così dire, particolari. Per capirlo mi basta fare un piano di scale e parlare qualche minuto con Anastasia Kutsa, la ragazza che lavora alla reception del Dream Hostel. Da dietro il suo bancone di legno, piazzato proprio all’ingresso delle camere, Anastasia, che ha 20 anni e lavora qui per pagarsi gli studi in turismo all’università, si vede passare davanti, ogni giorno, un tornado di facce. «Il nostro è l’ostello più grande in città. Su cento persone – mi spiega – più o meno cinquanta sono rifugiati o comunque viaggiatori ucraini. Trenta saranno invece volontari stranieri… I turisti? Mah, più o meno il dieci per cento, anche se non posso dirlo con certezza, perché statistiche non ne facciamo». Ma che vengono a fare esattamente in un paese in guerra? Anastasia scrolla le spalle: i motivi del viaggio, come è ovvio, mica li chiedono. Ma mi racconta anche la storia, a tratti surreale, di un viaggiatore italiano che una ragione tutta sua ce l’aveva: «E’ venuto qui che sarà stato aprile o maggio. Era un pochino filo-russo – e Anastasia sottolinea quel “filo russo” scuotendo la testa incredula -. Lui non credeva neppure che qui ci fosse davvero la guerra». No? «No. Tra l’altro in quel periodo, sarà stato aprile o maggio – avevamo gli allarmi antiaereo che suonavano e addirittura alcuni bombardamenti. Comunque lui non ci credeva: suonava l’allarme e lui non andava nel rifugio».
«Arriveranno i cacciatori di rovine, come a Chernobyl»
Provo a chiedere ad Anastasia cosa ne pensa dei turisti che sono come attratti dal fatto che questo sia un paese in guerra. E lei mi da una risposta che un po’ mi spiazza: «E’ un po’ come Chernobyl, credo, dove negli anni Ottanta ci fu una catastrofe nucleare e che è diventata la meta di tanti turisti, qui in Ucraina».
In effetti, l’area attorno alla centrale, che si trova a cento e rotti chilometri a nord di Kiev, a partire dal 2011, quando è stata riaperta al pubblico, è diventata sempre più popolare. Il boom vero è proprio è arrivato tre anni fa: nel 2019, la rete televisiva americana HBO ha realizzato una serie per raccontare la tragedia; il numero di turisti si è moltiplicato; e il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyy, ha approvato un decreto ad hoc per trasformarla in vera e propria meta turistica (con tanto di tour guidati). Da allora e fino allo scoppio del conflitto con la Russia è stato un crescendo, con tanto di selfie sfondo rovine postate sui social da visitatori. Certo Chernobyl dimostra che ci sono persone attratte dal mix morte, distruzione e pericolo. Ma finirà davvero così? Che chi magari vede un palazzo colpito da una bomba lo fotografa pure per metterlo sui social? Secondo Anastasia, sì: «Penso – mi dice – che in futuro, a guerra finita, potrebbe succedere lo stesso con i villaggi e le città distrutte dalla guerra».
E i turisti “normali”?
Mi chiedo: ma quelli che vogliono semplicemente visitare chiese e comprarsi palle di vetro con la neve da nascondere in qualche cassetto? Avranno ripreso a venire pure loro, quest’estate? Esco dall’ostello e me ne vado in piazza Rynok. Gente con il naso all’insù, a guardare i palazzi e a bere e mangiare come se avesse attraversato il deserto a piedi, ce n’è. Ma chi sono esattamente? «Questa città ha alcuni dei monumenti più importanti in Ucraina e fino a prima del Covid avevamo visitatori che arrivavano praticamente da tutto il mondo: sopratutto polacchi e bielorussi, perché sono paesi vicini; ma anche tanti americani e canadesi. Adesso, però, il turismo per così dire regolare quasi non esiste», mi spiega Taras Hordiyenco, un sorriso di rassegnazione dipinta in faccia.
Lo incontro a fianco delle Cattedrale Latina, una delle più famose della città, mentre aspetta dei clienti. Dal 2015, usando un piccolo trabiccolo elettrico, lui e il suo socio portano in giro persone per le strade medievali della Leopoli vecchia; tra i palazzi del quartiere stile Liberty costruito a fine Ottocento; nei viali del cimitero monumentale. Gli affari avevano tutto sommato tenuto botta perfino in pandemia. «Ma ora – mi spiega – abbiamo un terzo del lavoro di prima e lavoriamo soprattutto con ucraini: sono rifugiati o persone che si sono trasferite qui per lavoro e vogliono conoscere la città». I turisti veri e propri, invece sono proprio pochi, anche se, dice Taras, qualcuno c’è.
Mentre discutiamo, i minuti scorrono via veloci. Il prossimo tour sta per partire. C’è però una domanda che gli voglio proprio fare: ma questi turisti, appunto, non hanno paura della guerra? «Se vengono qui, evidentemente no». Rilancio e un po’ lo provoco: anzi, qualcuno, gli dico, magari è venuto apposta. Taras non si scompone: «Persone un po’ a caccia di di avventure ce ne sono sempre».
Il missile peluche e i tour guidati
Anche i negozi di souvenir sembrano essersi accorti che la guerra, a suo modo, tira. In una vetrina affacciata su piazza Rynok c’è perfino il peluche di un missile Javelin e tazze che al posto del cuore rosso, hanno il disegno della Molotov. Entro. La commessa Irina Moskiak non mastica benissimo l’inglese, ma grazie a Google Translate e a un po’ di buona volontà riusciamo a capirci lo stesso. «Stranieri? Non se ne vedono tanti: 5 o dieci al giorno». E cosa comprano? «Ah, tutte cose legate o ai colori dell’Ucraina oppure alla guerra». Tipo il missile? Irina fa segno di sì con la testa e poi mi accompagna a vedere un altro articolo che va per la maggiore: in un angolo del negozio c’è un muro intero di spillette a tema patriottico. Non c’è che dire: guerra e gadget magari non faranno rima, ma fanno soldi.
Del resto online si è già andati molto oltre. Su Ebay, per esempio, non c’è solo chi si limita a comprare armi peluche, ma un vero e proprio mercato di trofei di guerra: la maglietta (autentica) di un soldato russo costa 45 dollari; una sciarpa, 20; mentre per una giacca mimetica ce ne vogliono 200. La notizia è già rimbalzata sui giornali americani. Nessuno si scandalizza più di tanto. Tanti invece continuano a comprare.
Non solo. VisitUkraine, una piattaforma turistica ucraina, oggi propone dei veri e propri tour delle “città coraggiose”, cioè posti colpiti da bombardamenti o dove si è combattuto, tipo Sumy o addirittura Kharkiv, che oggi si trova non lontanissimo da dove si combatte. “Abbiamo capito che l’Ucraina incuriosisce e ha un forte potenziale di attrazione turistica. Da circa due mesi siamo visitati da oltre 1milione e 300mila persone al mese di ogni parte del mondo. Nell’ultimo mese la nostra piattaforma è stata cliccata tra gli altri da oltre 70mila tedeschi, quasi 25mila italiani. oltre 30mila americani e 23 mila inglesi. Abbiamo capito che l’Ucraina incuriosisce e ha un forte potenziale di attrazione turistica”, ha spiegato con grande nonchalance Anton Taranenko, l’amministratore delegato di VisitUkraine all’Adnkronos.
«Niente foto, per favore»
Racconto tutti i pezzi di questa storia, appoggiato al bancone del mio bar preferito. Il barista si chiama Vadim Chilickin, ha poco più di 20 anni, e anche lui lavora, come Anastasia, più che altro per pagarsi gli studi all’università. «Turisti, ne ho visti anch’io, certo», mi spiega mentre mi mette sotto il naso un espresso. «A volte chiedono anche informazioni: come faccio ad andare a Kiev? Oppure: c’è un modo veloce per andare ad Odessa, visto che il treno ci mette dodici ore?». Ma tu consiglieresti a questi turisti di mettersi a girare il paese di questi tempi? «No, ovvio – mi risponde Vadim -. Prima della guerra ero il primo a raccomandare a tutti i miei amici stranieri di venire. Ma ora è diverso. Solo oggi, vicino Odessa, la città dove sono nato, sono caduti sei missili, tanto per fare un esempio».
Rischi a parte, il turismo di chi, per così dire, viene a vedere un paese in guerra piace poco a Vadim. «Come ucraino – e mi sembra di percepire una punta di incazzatura nella voce – non mi va di essere considerato interessante perché vivo in un paese dove si combatte. Piuttosto vorrei che la gente si interessasse alla nostra cultura, alla musica, alla letteratura. Ma a chi viene, comunque, vorrei dire: fate le cose da turisti: bevetevi il caffè, magari un bicchiere di vino, ma non andate per favore a fotografare palazzi distrutti dai bombardamenti, c’era gente che viveva lì. Ho già sentito storie del genere e non è divertente». Vuoi dire che turisti così ti fanno sentire come un animale allo zoo? «Esatto, non siamo allo zoo».
Punto di domanda
Ecco, appunto. Quello che mi chiedo io da quando ho incontrato Simon e i suoi amici per le strade di Leopoli è: ha senso in un momento come questo viaggiare in Ucraina? E cosa è giusto fare o non fare in un viaggio del genere? Capisco – lo dico non per dire, ma perché proprio capisco – il desiderio di avventura. Lo trovo, anzi sano. Come scriveva Antoine de Saint-Exupery nel suo libro più bello che non è “Il piccolo principe”, ma “Terra degli uomini”: «Misurandosi con l’ostacolo l’uomo scopre se stesso». Ma andando in un paese in guerra ci andiamo a misurare, a confrontare anche – mi verrebbe da dire: innanzitutto – con il dolore e la sofferenza degli altri. Ha senso, dunque, andare a vedere queste cose, a fare queste esperienze da viaggiatore, da turista, cioè semplicemente osservando? Si può visitare un luogo di dolore – come la stessa piazza Rynok, a Leopoli, dove accanto ai tavolini dei bar, ci sono esposte le foto dei caduti – un po’ come fosse la torre di Pisa? Mi verrebbe da dire di no. Poi, però, penso a luoghi come Auschwitz, che attirano milioni di persone ogni anno e a quanto sia necessario che esistano ancora e che siano aperti al pubblico. Perché per capire il male, bisogna guardarlo in faccia. E allora capisco che no, la questione non è poi così semplice.
«Non esiste un posto sicuro, qui»
Chiedo a Vadim dove si trova l’università. Voglio provare a girare tutte queste domande a un esperto: Maria Paska, che guida il dipartimento Hotel, ristoranti e catering alla Facoltà di Turismo dell’università di Leopoli. Il suo approccio è molto pragmatico: «Se venite e spendete denaro qui, sostenete il paese. Ma in questo momento in Ucraina non c’è un posto del tutto sicuro». Perfino Leopoli, che pure si trova lontanissima dai campi di battaglia, non è a rischio zero, dice la professoressa Paska: «Ci sono stati momenti in cui, per gli allarmi aerei, non abbiamo dormito tre notti a fila. Il confine con la Bielorussa è a 200 chilometri…». E i rapporti con questo paese, che è un alleato della Russia, non sono esattamente distesi. Certo per l’economia perdere quasi completamente un settore, come il turismo, è stato ed è una mazzata: «Solo qui, a Leopoli, l’anno scorso, nonostante il Covid, abbiamo avuto oltre 2 milioni di presenze.Tenga conto che una persona, per fare un tour organizzato in centro città spendeva 400 grivnia (circa 12 euro, ndr). Per visitare uno dei castelli fuori città, 900 grivnia (circa 27 euro, ndr). Basta fare due conti…» e non dimenticare che in Ucraina lo stipendio medio è di 500 euro per capire che si tratta di un mucchio di soldi. Mentre la professoressa parla, mi tornano in mente, le parole di Anastasia e di Vadim sulle rovine dei bombardamenti e sui turisti. Così chiedo un parere anche a lei: cosa ne pensa di chi magari cerca o cercherà di visitare questi posti? «Ora andare a vedere le rovine, innanzitutto, è pericoloso». In effetti, ci possono essere crolli, per esempio. Se si è combattuto lì vicino, ci possono essere ancora in giro delle mine. «Comunque quello è “turismo di guerra”, io amo la pace», precisa la professoressa. E in futuro? Questi luoghi andranno conservati per conservare la memoria di quanto successo, diventeranno meta di turisti? «E’ una domanda difficile. La mia opinione è questa: magari alcuni. Ma il paese va ricostruito. E i turisti devono venire per vedere cose positive, non per le rovine, per scoprire per esempio la nostra cultura anche in campo gastronomico». Il Borscht, la celebre zuppa ucraina, è appena diventata patrimonio dell’umanità. E’ un buon inizio almeno per cominciare ad immaginare un futuro diverso da questo presente di sangue.
Alla scoperta di Irpin
Mentre lavoro per sbobinare le interviste e dare una forma al pezzo, i giorni volano letteralmente via. Che fine hanno fatto Simon e gli altri? Cerco di seguire le loro avventure sui social. Di Simon perdo le tracce. Brian rispunta dopo un po’ con una raffica di stories su Instagram: è in Moldavia; poi in tenda in Romania; poi ancora su una bici a noleggio a Londra. Nessuna sorpresa, in fondo: prima di partire mi aveva detto che si stava girando l’Europa, l’Ucraina per lui era solo una meta di passaggio. Joe invece arriva fino a Kyiv, altra città sempre nel mirino dei missili russi, che infatti mentre lui è lì viene puntualmente di nuovo colpita. Per un po’ posta foto da vacanza. Poi arrivano stories di macerie, palazzi colpiti dai missili russi, auto distrutte: è a Irpin, uno dei sobborghi di Kyiv dove russi e ucraini si sono combattuti all’ultimo sangue.
Vedo che finisce a lavorare come volontario assieme ad altri ragazzi. Il suo viaggio – sempre sotto l’occhio vigile dello smartphone e del popolo di Instagram – insomma, prende una svolta. «Sto dando una mano per sistemare un po’ il casino che i russi si sono lasciati dietro. E poi distribuiamo cibo e altre cose. E’ tutto un po’ disorganizzato e non sono riuscito a fare tutto il lavoro che speravo, ma non ero venuto qui con l’ambizione di fare il volontario, ci sono un po’ capitato in mezzo», mi scrive in un messaggio.
«Americani, svedesi, danesi, giapponesi…»
Gli spiego il pezzo a cui sto lavorando e che gli vorrei fare qualche domanda. Joe – che di cognome fa Greer, ha 26 anni ed è di Leicester – non si tira indietro. Mi racconta che la compagnia qui in Ucraina non gli è mancata: «Se ho incontrato altri viaggiatori venuti per vedere il paese? Sì, ho passato molto tempo con persone provenienti un po’ da tutto il mondo: americani, svedesi, danesi, giapponesi…». Che il viaggio in Ucraina, tra i viaggiatori in cerca di avventura, stia diventando una specie di moda? A questo punto un po’ lo provoco: leggendo questo articolo qualcuno sicuramente dirà che persone come voi che si sparano un viaggio così sono un po’ matte; che gli rispondi? «Che probabilmente hanno ragione, ma questo non significa che non sia possibile». Ma perché, gli chiedo, ha deciso di venire in Ucraina? «Ho fatto autostop, ho seguito soprattutto il mio impulso per arrivare fin qui. Ma è fantastico e sto trovando difficile andarmene. Ogni persona che ho incontrato è interessante, ognuno ha una sua storia; e il cibo è fantastico. E’ davvero un momento molto interessante per visitare il paese». Gli faccio notare che qualcuno potrebbe dire esattamente il contrario: il paese è in guerra, non è un viaggio sicuro. Joe se ne rende perfettamente conto: «Certo c’è una guerra, ma è un rischio calcolato, il mio, okay? Non sono andato più a Est di Kyiv e non ho sperimentato pericoli». D’accordo, ma come si è visto nel bombardamento a Vinnytsia – che non sta a Est, ma nel centro del paese e dove sono morte 20 persone tra cui 3 bambini – è molto difficile capire dove i russi colpiranno. «Sì, non c’è una logica in quello che fanno i russi…», ammette. E allora perché dici che vale la pena andare ora? Perché non aspettare la fine della guerra? «Perché i soldi dei turisti aiutano la causa ucraina ed è anche importante che le persone vedano che non tutto il paese è zona di guerra, che ci si può ancora vivere». Joe insomma giura di avere le sue ragioni. E nessuna intenzione di andarsene, almeno per il momento: «Per quanto rimarrò ancora? Sono qui da un mese, non lo so…». Chissà dove la corrente o l’impulso finiranno per portarlo. Qualunque sia la sua meta, spero solo che il dio dei viaggiatori, se ne esiste uno, non lo perda mai di vista.
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