Turismo

Tepui Project, in Venezuela si riparte dall’alpinismo

10 Aprile 2018

Articolo di Fabrizio Goria, tratto da Alpinismi.

Ricostruire un Paese tramite l’arrampicata è possibile. Anche se questo Paese è sull’orlo di una guerra civile. Il condizionale è d’obbligo, perché stiamo parlando del Venezuela. Ma l’obiettivo di Tepui Project è tanto ambizioso quanto realizzabile. Spingere sul turismo sostenibile legato all’universo della scalata al fine di rilanciare l’economia di una intera nazione. Ripartire dalla wilderness, per continuare a preservarla e far comprendere al mondo che il Venezuela esiste ancora.

Siamo tutti a conoscenza di quale sia la situazione domestica del Venezuela. L’inflazione è a quattro cifre, gli scontri nelle strade di Caracas sono all’ordine del giorno, il cibo è razionato, mancano medicinali e la popolazione sta soffrendo condizioni ai limiti dell’umanità, a cominciare dalla carestia. I venezuelani che potevano lasciare il Paese lo hanno fatto, ma non hanno dimenticato parenti e amici rimasti in quella che è la loro casa, nonostante le difficoltà quotidiane e un futuro incerto. E questo il caso dei fratelli Moser (Leo, Gustavo, Eduardo) che, con Jose Garcia, Gabriela Aguerrevere, François Montalant e Federico Pisani, hanno dato vita a Tepui Project. Un’iniziativa che vuole contribuire alla ricostruzione del Venezuela partendo da una delle zone più remote della nazione, la regione dei tepuis. Come? Promuovendo turismo sostenibile e accessibile alla comunità dei climber di tutto il mondo.

I tepuis sono formazioni rocciose, quasi tutti composti da arenaria, decisamente particolari. Se avete presente l’Ayers Rock in Australia, siete sulla strada giusta. Si tratta di incredibili vette che si elevano dalle foreste pluviali, lungo un altopiano che crea un ambiente naturale, e una biodiversità, quasi unico al mondo. Sono montagne piatte, e il loro nome significa “Casa degli dei”. Sono infatti luoghi sacri per le popolazioni indigene. E, altra peculiarità, si trovano soltanto in quella fascia che va dal Venezuela al Brasile, lambendo anche la Guyana. Non hanno un’altezza elevata, posso arrivare al massimo a sfiorare i 3,000 metri, ma hanno pareti che si adattano al meglio all’arrampicata. Come nel caso del Roraima, che ha visto protagonisti Kurt Albert, Holger Heuber e Stefan Glowacz in una spedizione ai limiti dell’immaginabile. Lì hanno aperto Behind the Rainbow, una splendida via di circa 16 tiri, fra il nono e il decimo grado, più o meno un 8b sulla scala francese. E poteva essere solo l’inizio, perché dei 115 tepuis, solo pochi sono stati scalati. La stragrande maggioranza sono ancora intonsi. A mettersi di mezzo fra i sogni degli scalatori e la bellezza dei tepuis, il governo venezuelano. Sì, perché la crisi in cui è sprofondato il Paese ha impedito ogni genere di iniziativa turistica. Ma ora l’isolamento potrebbe essere solo più un lontano ricordo. Grazie a un manipolo di giovani climber venezuelani, basati nel Paese e fuori.

Noi abbiamo incontrato Leo Moser a Washington, dove si trova con la moglie per motivi di studio e lavoro. «Il mio sogno più grande è quello di aprire una palestra d’arrampicata a Caracas. Pensa: non ce n’è neanche una. Eppure, il movimento dei climber venezuelani è vivo e vegeto», ci dice, lasciando trasparire che per lui la capitale statunitense non è altro che un passaggio della sua vita. «Io voglio tornare a casa. Io voglio tornare in Venezuela. E dare una mano con quello che mi piace di più: arrampicare», spiega. E di conseguenza, ha creato insieme alla moglie e al fratello una società non-profit, col l’obiettivo di far conoscere la regione della Gran Sabana, ove si trovano i tepuis, in giro per il mondo. «Non abbiamo mai smesso di pensare al nostro Paese, e questo è solo il primo passo di una lunga avventura. Non vogliamo fermarci, ma continuare a fare ciò che ci piace», afferma. Secondo lui «è possibile aiutare il Venezuela anche tramite progetti come questo, perché la comunità dell’arrampicata è molto coesa, quindi questo è un surplus». Moser è consapevole che non mancano le difficoltà, per è sicuro di una cosa: «Se qualcuno può dare una mano, questo qualcuno è il mondo del climbing». E di tutti gli appassionati della natura e della wilderness in generale. La zona è quella descritta da Arthur Conan Doyle nel suo “Il mondo perduto”. Ma è anche quella in cui trova il Salto Angel, ovvero la cascata col maggior dislivello al mondo, che letteralmente precipita dal Auyantepui, chiamato dai locali “Montagna del diavolo”. Ma di diabolico queste pareti hanno ben poco. Sono infatti un paradiso di arenaria ancora intoccata dalle mani di un essere umano. E non aspettano altro che essere scalate.

Il primo viaggio di Tepui Project, nonostante la precaria situazione politica interna, inizierà il prossimo 17 aprile (qui il fundraising su GoFundMe), ma molti altri ne sono in programma. Lo scopo è quello di incentivare il turismo sostenibile nell’area dei Tepui, sia per ripristinare l’immagine del Paese sia per sostenere la popolazione locale. Ma non solo. Tepui Project può diventare anche uno strumento di opportunità per le famiglie dell’area. I motivi sono diversi. In primis, perché se nella regione iniziano ad arrivare climber di fama internazionale per aprire nuove vie, il riscontro mediatico potrebbe portarne altri e altri ancora, alimentando il turismo. Secondo, perché si porterebbero all’interno del Paese aiuti sotto forma di cibo, medicinali e valute più forti di quella domestica. Terzo, perché si potrebbe contribuire a rallentare il circolo vizioso delle miniere illegali che si è creato negli ultimi anni. La zona della Gran Sabana è ricca di giacimenti auriferi, e la destabilizzazione del Venezuela ha contribuito alla diffusione di tale fenomeno. La naturale conseguenza è che sono sorte miniere di oro del tutto clandestine che stanno contribuendo a distruggere l’ecosistema circostante. E tramite il turismo, questa pratica potrebbe terminare, o quantomeno essere limitata.

Le potenzialità dell’area sono molteplici. Dall’arrampicata al bouldering all’escursionismo all’ornitologia. E per far sì che sia possibile, Tepui Project sta partendo da un film, che sarà a breve disponibile. La visione esclusiva che ci è stata permessa lascia intravedere tutta la bellezza di una regione con contrasti incredibili. Da un lato la foresta pluviale e la savana venezuelana, dall’altro i tepuis. E nel mezzo una popolazione che vuole ritornare a vivere. Ecco perché il progetto dei fratelli Moser punta alla creazione di un movimento sempre più grande, composto da venezuelani e stranieri. Per gli abitanti della zona, spiegano i fondatori dell’iniziativa, questa è forse l’unica opportunità seria per ritrovare la serenità perduta.

Tuttavia, c’è un aspetto significativo di Tepui Project che potrebbe essere assimilato anche altrove. Oltre al lato esplorativo e a quello arrampicatorio, è proprio la sostenibilità del turismo a essere il cuore centrale dell’operazione. Vale a dire, turismo non di massa, avvicinamenti a piedi o con animali, ma non con mezzi motorizzati, e minimo impatto ambientale, secondo i principi “leave no trace”. Un turismo specializzato, in gran parte, ma non solo. Perché fra gli obiettivi c’è anche l’escursionismo, che può essere praticato da un largo numero di persone. «Vogliamo che Tepui Project diventi un movimento, non mi stancherò di ripeterlo», ci ha ribadito Leo Moser. Un movimento che ha le proprie ragioni in un territorio sacro, come ci spiega. E gli indigeni vogliono il turismo, vogliono far conoscere questa parte del Venezuela, vogliono che il mondo apprezzi – e rispetti – i tepuis. Una ricetta, quella del turismo sostenibile, che può essere insegnata anche altrove. La preservazione degli ambienti naturali e delle culture locali può dunque andare a braccetto con il turismo? Tepui Project vuole dare una risposta affermativa a questo dilemma.

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