Turismo
Srebrenica vuole ripartire, “Da museo del macabro a città della speranza”
«Quando mi chiedono da dove vengo rispondo “Bosnia”, se poi la domanda successiva è “Da quale città?” dico “Srebrenica”. Ed è a questo punto che si crea un silenzio imbarazzato e colpevole». E’ un’esperienza comune a chi da quella città è stato costretto a fuggire durante l’assedio dell’esercito della Repubblica serba di Bosnia negli anni ’90 e a riparare in Europa. Come Irvin Mujčić, 29 anni oggi, ne aveva 5 quando è approdato in Italia. Da due è tornato a vivere nel suo paese d’origine «l’unico luogo in cui mi sento bene e posso dormire tranquillo». Il suo progetto è stravolgere la reazione che segue quando pronuncia il nome del posto in cui è nato. E con l’associazione Prijatelji Prirode vuole costruire una Casa della natura, un posto low cost immaginato per i viaggiatori che scelgono di immergersi nelle bellezze naturali della Bosnia: i boschi, le terme, il fiume Drina, il canyon. Determinante è stato l’incontro con gli Amici della natura, un’associazione che affonda le sue radici nel 1895, nata per offrire occasioni di villeggiatura in armonia con l’ambiente a prezzi economici. «Mi è piaciuto molto il loro spirito, al quale ho mescolato un po’ di quello balcanico, ci siamo trovati e abbiamo deciso di collaborare».
La storia ha inizio nel 2014. «Sono venuto qui per la marcia della pace – racconta a Gli Stati Generali – e ho visto che in sette anni non era cambiato niente, tutto era ancora distrutto». Quello che ha trovato è un paese bloccato al luglio del 1995, quando vennero uccisi oltre 8000 bosniaci musulmani. Oggi Srebrenica è spaccata in due: da un lato i ragazzi che vogliono andare avanti e scrivere un nuovo capitolo della storia, dall’altro gli anziani, ingabbiati nel dolore. « Per loro il genocidio ha segnato un break point – spiega Mujčic – la loro vita è cambiata per sempre e non vedono nessun futuro».
Irvin Mujčić, invece, lo vede ben chiaro e insieme ai suoi compagni chiede che il paese torni a vivere, anche per dare valore a chi, come suo padre e suo zio, nel 1992 ha deciso di restare e morire per difendere «non solo la città, ma la sua anima e maniera di vivere». Per farlo ha lanciato un crowdfunding sulla piattaforma Produzioni dal basso (qui il link). Servono 15mila euro per mettere in piedi una casa in pietra e legno, nello stile tradizionale di Srebrenica. Il progetto prevede una struttura di 140 metri quadri in grado di ospitare 15-20 persone. Costi accessibili a tutti: 15 marchi (7,50 euro) a notte più 5 marchi (2,50 euro) per la guida. E’ previsto anche il pernotto al lago, sempre a 15 marchi, «siamo d’accordo con un’associazione che ha rimesso a posto una scuola», aggiunge Mujčic. L’idea è di organizzare escursioni, percorsi a piedi e a cavallo.
«Ho cominciato a camminare nelle valli – continua il giovane – e sono rimasto sorpreso dalle meraviglie naturali che abbiamo e che non vengono apprezzate. Mentre passeggiavo vedevo le montagne, percorrevo i sentieri che portano nei boschi e arrivano al lago Perucac e da lì mi sono arrampicato fino al canyon della Drina che è il secondo più alto d’Europa, uno strapiombo di montagne di 50 km con il fiume verde in mezzo. Così mi è venuto in mente di lavorare sul turismo ecosostenibile». Di questo patrimonio fanno parte anche le terme, ora in stato di abbandono, dove scorrono acque «ricche di minerali – spiega ancora l’animatore del progetto – specifiche per alcune malattie, come quella per combattere l’anemia mediterranea che prima della guerra veniva imbottigliata e venduta non solo in ex Jugoslavia ma anche in tutta Europa e negli Usa, un’altra contro la psoriasi e un’altra ancora per uccidere i parassiti nell’intestino. Al momento manca l’equipe di medici che somministrava queste terapie».
Sono ricchezze che rischiano di essere fortemente danneggiate. «Nella ex Jugoslavia – dice ancora Mujčić – c’erano i pionieri di Tito che si occupavano della pulizia delle foreste, potavano, piantavano fiori e alberi». Oggi nessuno se ne prende più cura. «Si è perso il senso dei beni comuni e ognuno pensa solo al proprio giardino», aggiunge. Non aiuta la mancanza di servizi, «soprattutto nei villaggi più lontani, e quindi la gente butta i rifiuti nella foresta».
La casa della natura sorgerà sulle macerie di quella dei nonni di Mujčić, distrutta durante la guerra. In attesa di edificarla è stato costruito un tipi insieme a Cecil Cross indiano lakota che lo scorso anno ha visitato la città con il gruppo italiano degli Amici della natura. «Il nostro sarà un progetto partecipativo, per questo abbiamo scelto il metodo del crowdfunding, chi dona diventa parte della casa», sottolinea Mujčić. Fondamentale sarà l’apporto dei contadini della zona «persone che vivono a stretto contatto con la natura e il cui lavoro vogliamo valorizzare». Quello di Bojo, ad esempio, un signore serbo che produce farina. «Suo padre acquistò il mulino da un musulmano negli anni 50, poi durante la guerra Bojo andò a Belgrado e il figlio dell’ex proprietario usò il mulino, tenne il libro mastro, aggiunse i pezzi che mancavano. Quando Bojo tornò trovò tutto funzionante, allora si informò, andò a cercare il ragazzo e diventarono amici. Oggi il mulino è ancora attivo e nella proprietà ci sono anche alveari naturali».
Valorizzando le persone e il loro lavoro si vuole dare un nuovo impulso all’economia del posto. Sono molti i giovani interessati al progetto, che mettono a disposizione le proprie abitazioni per quando la Casa della natura sarà al completo. «Dal 10 al 17 giugno verranno circa 50 persone dall’Italia, che saranno ospitate da abitanti di Srebrenica». Un modo per coinvolgere i cittadini e renderli parte attiva nella ripartenza del paese. Che passa dal turismo ecosostenibile, inteso anche come risposta al turismo del macabro. «L’anno scorso a Srebrenica – spiega ancora Mujčić – sono venuti in 500mila, ma il problema è che il 90-95% di queste persone arrivano a Potočari, il villaggio dove c’è il memoriale, visitano le tombe e poi vanno via». Un po’ come accade ad Auschwitz. «E’ un turismo che non porta nulla a noi e mostra sempre il volto tetro di Srebrenica». Una sorta di pellegrinaggio per placare il senso di colpa di chi, in quegli anni, era a pochi chilometri di distanza e non ha visto quanto accadeva. Il rischio che si corre oggi è di continuare a tenere gli occhi chiusi, a fissare la morte senza vedere la vita che ancora c’è. «Non vogliamo che Srebrenica sia un museo del macabro a cielo aperto, ma una città della speranza». Data dal fatto che oggi, mentre la politica persegue la strada dei nazionalismi, bosniaci e serbi vivono insieme, escono a bere un caffè, giocano a calcio. «Se siamo in grado di farlo noi dopo tutto quello che è successo – conclude Mujčić – e mi riferisco non solo ai musulmani trucidati nel 95 ma anche ai civili serbi ammazzati negli anni precedenti, possiamo dimostrare al mondo che la convivenza è l’unica via possibile, l’unica sana». Basta trovare il coraggio e la volontà di percorrerla.
(La foto in copertina è di Ado Hasanovic)
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