Salute mentale
Corea del Sud. L’invenzione del carcere antistress
A due ore da Seul, nella contea di Hongcheon, si tende a prendere sul serio lo stress, molto sul serio, anche troppo sul serio, ci si stressa nel bonificare lo stress. Da quelle parti, le palline da strizzare, gli attrezzi ginnici destinati alla polvere, le conversioni religiose ad interim, il gangnam style o altri rimedi arrugginiti, non godono più di una buona reputazione.
L’approccio terapeutico vuole rinnovarsi, dimostrarsi all’altezza del compito. Un compito gravoso, considerando lo stressatissimo contesto socio-culturale coreano, assuefatto a una ritmica lavorativa serrata e concimato dallo spirito di competizione. Un compito che, tuttavia, da qualche mese, può fare affidamento sull’intuito di due coniugi sensibili al tema e ideatori di una soluzione piuttosto fantasiosa, per non dire bizzarra: l’incarcerazione volontaria.
L’iniziativa, intitolata “Prison Inside Me”, permette, a chiunque voglia usufruirne, un’esperienza di prigionia “realistica” all’interno di un carcere finto: isolamento, dieta frugale, divieto di qualsiasi contatto con l’esterno e con gli altri detenuti, celle da sei metri quadri munite esclusivamente di tappetino da yoga, bollitore e taccuino. Ottanta euro a notte.
Un osservatore poco pratico di sovraffaticamento psicologico e ostile agli stratagemmi controintuitivi, insomma, un pacato rompipalle, tenderebbe a pensare che la toppa, sebbene sbalorditiva, sia peggio del buco. Il passare dal punto A (l’urgenza di quiete) al punto Z (la reclusione autoindotta) gli sembrerebbe un azzardo, essendoci un intero alfabeto di mezzo. Eppure, il carcere antistress, almeno in termini di adesioni e recensioni, sta funzionando.
Forse, proseguirebbe il rompipalle sulla via del pentimento, perché non ci si rende conto di quanto siano stressati i coreani: fondata eventualità che darebbe credito allo sfortunato detto “stressato come un coreano”. O, forse, perché il giocare al carcerato per qualche giorno, anche a parità superficiale di condizioni, non si avvicina affatto all’esserlo: per la serie, la galera è figa, ma non ci vivrei.
Viene da chiedersi, a questo punto, se per lo stressato cronico il giusto grado di isolamento sia ottenibile solo ficcandosi in una situazione ai limiti dell’aberrante, se siano davvero indispensabili dei sorveglianti in carne e ossa affinché questi riesca a conferire durata e consistenza alla propria tranquillità. D’altronde, la morsa quotidiana delle pressioni lavorative e della sindrome da iperconnessione non molla la presa facilmente. Circostanza che, a veder bene, renderebbe i guardiani della quiete e della solitudine figure professionali imprescindibili nel percorso di disintossicazione, e non meri espedienti folkloristici per dare credibilità all’ambiente.
Sloterdijk, ad esempio, sottolinea la forte interdipendenza tra stress e libertà. Una linea di pensiero in base alla quale il consegnarsi a un’autorità superiore, il rinunciare all’autonomia, il non essere costretti a compiere delle scelte, il deresponsabilizzarsi, il distacco dal mondo esterno, potrebbero favorire senz’altro l’avvento del relax nel breve periodo.
Anche Rousseau, nella sua “Quinta passeggiata”, abbraccia un’idea di tranquillità in termini di “estasi” solitaria radicalmente post-mistica, come fuga individuale da ogni campo di stress sociogenico. E i pareri autorevoli “a sostegno” non finirebbero qui.
Ciononostante, questa versione per claustromani della “vacanza dalla vacanza”, questo eremitaggio carcerario, trattandosi di un’esperienza provvisoria, artificiosa ed eterodiretta, non sembra spostare granché sotto il profilo terapeutico. Uno stop and go non corrisponde a un rallentamento, non cambia le sorti della disumanità. Almeno così sentenzierebbe il rompipalle, una volta tornato su piazza in gran forma.
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