Trasporti
Ustica, l’Itavia e un’estate del 1980
L’estate 1980 fu terribile. Cominciò malissimo. Faceva caldo già a giugno, proprio come quest’anno, e nelle aule dove stavo per dare l’esame di licenza media, professori e bidelli stavano con le orecchie attaccate alla radio. Un anno più tardi, l’insegnante di applicazioni tecniche teneva banco, in quanto ritenuto competente, su come estrarre il piccolo Alfredo Rampi incastrato a Vermicino in un pozzo artesiano che due giorni più tardi sarebbe diventato la sua tomba.
La mattina del 2 agosto una bomba esplose nella sala di attesa di seconda classe della stazione di Bologna: morirono 85 persone e altre 200 rimasero ferite. Quel giorno ero in viaggio verso la Calabria e ci andai con uno zio, partendo dalle Marche, con una macchina che, come tutte all’epoca, era senza aria condizionata, ma potevamo tirare giù i finestrini, almeno fino in Puglia. Da Foggia in poi no, se mettevi la mano fuori ti scottavi.
La scelta del viaggio in auto non era stata casuale. L’opzione dell’aereo da Bologna era stata scartata dopo il 27 giugno, quando il DC-9 della Itavia si era inabissato al largo di Ustica e nessuno in famiglia voleva prendersi il rischio di mettere un ragazzino di 13 anni su un mezzo di trasporto ritenuto poco sicuro. Del resto in famiglia nessuno prendeva l’aereo abitualmente: un po’ per i costi elevati dei biglietti, un po’ per cultura, era il treno il mezzo di elezione in casa.
Ora non vi rifarò la storia della strage di Ustica, sarebbe presuntuoso e supponente condensare in poche righe 39 anni di indagini, misteri e processi, di tracce radar sparite, di incidenti quanto meno sospetti in cui hanno perso la vita alcuni dei testimoni e protagonisti di quella vicenda, come radarista Dettori trovato impiccato nel 1987 o i piloti Naldini e Nutarelli in volo su F104 la notte del 27 giugno 80 e morti nell’incidente di Ramstein nel 1988. Per chi volesse approfondire l’argomento esistono siti web specializzati, quello dei familiari delle vittime o stragi80.it con i tracciati audio di quella tragica notte, le relazioni dell’Aeronautica, la corposa documentazione processuale; c’è il Museo della Memoria a Bologna, con i resti del DC-9. Ci sono libri, film e un’infinità di inchieste giornalistiche. Una delle ultime, firmata due anni fa dalla trasmissione Le Iene, racconta delle firme false del presidente Pertini e dell’allora ministro della Difesa Spadolini sul decreto di radiazione dell’ufficiale dell’Aeronautica Mario Ciancarella, che subito dopo l’incidente aveva cominciato a raccogliere informazioni e dati.
Volevo invece scrivere qualche nota su Itavia, la compagnia aerea che pochi mesi dopo l’incidente rinunciò alla licenza di trasporto e terminò ogni operazione di volo. Per inciso, andò in amministrazione controllata e non fu mai chiusa, tanto è vero che nei diversi processi ha ottenuto il risarcimento di 256 milioni di euro dai ministeri delle Infrastrutture e della Difesa per il danno subito in seguito alla strage. La decisione è stata confermata a dicembre 2018 dalla terza sezione della Corte di Cassazione.
Ma torniamo al 1980. A luglio, nelle settimane che seguirono l’incidente, sulla stampa e in Parlamento si stava accreditando l’ipotesi del cedimento strutturale dell’aereo e si rafforzava nell’opinione pubblica l’idea che Itavia operasse con delle carrette vecchie e prive di manutenzione. Una percezione, bisogna dirlo, non molto lontana dalla realtà, anche se il presidente della compagnia aerea calabrese – Itavia aveva la sede legale a Catanzaro – il marchigiano Aldo Davanzali, fu il primo proprio a luglio a dire che il velivolo fosse stato abbattuto da un missile. L’ipotesi del cedimento strutturale era avvalorata dalla provenienza dell’aereo. Il McDonnel Douglas DC-9 immatricolato I-TIGI era nella flotta Itavia dal 1972. Nei sei anni precedenti aveva volato per Hawaiian Airlines compiendo migliaia di cicli di volo (il periodo tra l’accensione dei motori prima del decollo e il loro spegnimento dopo l’atterraggio) in ambiente e aria salmastra. Inoltre, come rilevato da relazioni parlamentari successive all’incidente e in seguito da alcuni componenti della commissione stragi, la compagnia versava in cattive acque e la manutenzione veniva assicurata attraverso la ‘cannibalizzazione’ di aerei non più in uso perché non aveva le risorse per acquistare pezzi di ricambio.
Itavia nasce nel 1958 come Società di Navigazione Aerea Itavia con base operativa l’aeroporto di Roma Urbe. La fusione tra Alitalia e Lai, completata due anni prima, aveva liberato alcune quote di mercato e nel 1959 la nuova compagnia comincia a volare con un De Havilland 104. Nel 1960 gli aerei diventano sei nella versione DH114 e vola regolarmente su Siena e Genova. Uno di questi il 14 ottobre 1960 si schianta sull’isola d’Elba. La perdita di immagine subito dopo l’incidente fu notevole, tanto che la società interruppe l’attività. Nel 1962 la compagnia, riprende l’attività di volo cambiando la propria denominazione in AEROLINEE ITAVIA, subentra al socio fondatore Donati il principe Caracciolo. La flotta è composta dai bimotori Douglas DC-3, dei Dakota militari riconvertiti a uso civile. La base delle operazioni viene spostata sullo scalo di Roma Ciampino.
L’avvocato Aldo Davanzali, subentra nel 1965 al principe Caracciolo come socio di maggioranza e presidente amministratore delegato. Subito pianifica il potenziamento della compagnia aerea, i vecchi DC-3 vengono sostituiti da 5 bimotori turboelica da 50 posti Dart Herald. Nel 1969 il passaggio ai più moderni reattori con l’acquisto di alcuni Fokker F28 nuovi e successivamente nel 1971 i primi Douglas DC-9. Alcuni anni dopo con la dismissione degli ultimi Herald la flotta era composta esclusivamente da velivoli a reazione F28 e DC9.
Nel decennio fino al 1980, si verificarono tre incidenti di cui uno grave con 38 vittime a Torino, il velivolo I-TIDE a causa della nebbia l’1 gennaio 1974 impattava in atterraggio 2 miglia prima della pista.
Gli altri due incidenti senza vittime, il primo il 4 novembre 1971 all’Herald I-TIVE che si danneggiava gravemente in atterraggio, l’altro all’F28, I-TIDA che stallava durante il decollo dall’aeroporto di Bergamo il 9 aprile 1975, distruggendosi.
Davanzali, morto nel 2005 a 83 anni, è uomo spregiudicato. Nel 1972 sposta la sede della società a Catanzaro per beneficiare degli sgravi fiscali e delle agevolazioni previste dalla Cassa del Mezzogiorno. A dir poco disinvolta la doppia posizione di controllato e controllante emersa durante il dibattimento in Corte di Assise del processo Ustica quando è stata resa nota la sua appartenenza al Consiglio di Amministrazione R.A.I. (Registro Aeronautico Italiano). La relazione di minoranza della Commissione stragi accende un faro sul modo in cui l’avvocato marchigiano con solidissime coperture politiche (era amico di Forlani) conduceva gli affari della compagnia aerea.
“Sul settimanale «Panorama» del 16 febbraio 1981 viene svelato un altro capitolo oscuro sull’Itavia. Un gruppo di dipendenti della compagnia denuncio’ Aldo Davanzali per la truffa del Fokker 28 (I-TIDA), uscito di pista all’aeroporto di Bergamo il 9 aprile 1975. Secondo l’esposto presentato al sostituto procuratore Giorgio Santacroce l’avvocato Davanzali, grazie a quell’incidente, imbastì una speculazione di miliardi. «I danni riportati [dal Fokker] precisava «Panorama» risultarono talmente gravi che nessun tecnico se la sentì di consigliarne la riparazione. Per questo, nel giro di poche settimane, l’aereo fu completamente demolito e le parti ancora utilizzabili, come i motori e le strumentazioni di bordo, finirono in magazzino come pezzi di ricambio per gli altri Fokker 28 della flotta Itavia».
“Ma «la caccia ai miliardi comincio’ subito con l’ingente richiesta di danni alle Assicurazioni Italia (piu’ nota come Assitalia), compagnia statale del Gruppo Ina, che aveva assicurato il Fokker 28 I-TIDA per due miliardi 800 milioni. E il colpo ando’ a segno meglio del previsto: a tempo di record l’Assitalia liquido’ infatti un miliardo 295 milioni, appena 22 milioni in meno dell’indennizzo richiesto». Questa, in realta’, sarebbe stata solo la prima fase di una complessa operazione. Davanzali sempre stando a quanto riportato da «Panorama» il 3 maggio 1976 avrebbe ottenuto il rinnovo della copertura assicurativa, da parte dell’agente generale di Ancona dell’Assitalia (tal Alessandro Tamaro, vecchio amico del presidente dell’Itavia, il quale assunse nella sua agenzia il genero di Davanzali, Roberto Enrico), non solo per l’intera flotta della sua compagnia, ma anche per il Fokker 28 uscito di pista. In sostanza, «con una serie di polizze biennali, l’Assitalia ha continuato a garantire un aereo che ormai non esisteva piu’». Non solo. «Il valore assicurativo (tre miliardi e mezzo) risul- tava addirittura superiore a quello riconosciuto dalla medesima compagnia appena un anno prima, al momento dell’incidente di Bergamo (due miliardi 800 milioni)».
Ma l’ultima fase di questa complessa vicenda e’ di certo la piu’ interessante: «Utilizzando come pezze d’appoggio le polizze dell’Assitalia – concludeva il settimanale Davanzali e’ riuscito piu’ d’una volta a dare in garanzia alle banche l’aereo distrutto a Bergamo, ricevendone in cambio ingenti prestiti. Il loro elenco, nella denuncia presentata alla Procura di Roma, e’ dettagliatissimo: tre miliardi del Banco di Santo Spirito nel 1977, un miliardo 145 milioni dell’Istituto Mobiliare Italiano (IMI) nello stesso anno, altri due miliardi del Banco di Santo Spirito e 600 milioni dell’Italcasse nel 1978, infine quattro miliardi 500 milioni del solito Banco di Santo Spirito elargiti il 25 giugno 1980». Due giorni prima del disastro dell’I-TIGI. Qualcosa di simile venne ideato per l’aereo distrutto la sera del 27 giugno 1980. L’Itavia riuscì, infatti, a farsi indennizzare dall’Assitalia il disastro del DC9, «benché su quell’aereo non vantasse piu’ alcun diritto». Infatti, l’I-TIGI precipitato in mare risultava coperto da quattro ipoteche: McDonnell Douglas, IMI, Italcasse e Banco di Santo Spirito. Stranamente, la sola che rivendico’ il proprio diritto di vincolataria fu l’americana McDonnell Douglas, che incasso’ circa 500 milioni. «Il resto della somma, oltre tre miliardi, e’ finito nelle tasche di Davanzali poiché tre banche pubbliche (IMI, Italcasse e Banco di Santo Spirito) hanno rinunciato al loro diritto di precedenza». Perché? Questa e’ un’altra delle grandi zone d’ombra del caso Ustica.
Sempre nella relazione di minoranza della Commissione Stragi si leggono vari passaggi presi da giornali dell’epoca:
“Dall’anno della sua costituzione, l’Itavia subisce quattro incidenti di volo gravi: 14 ottobre 1960, un aereo De Havilland cade nei pressi dell’isola d’Elba (15 morti) 30 marzo 1963, un DC3 precipita nei pressi di Sora nel basso Lazio (sette morti) 1° gennaio 1974, un Fokker 28 precipita in fase di atterraggio a Torino (38 morti) e infine il 27 giugno 1980 il DC9 I-TIGI precipita tra le isole di Ponza e Ustica (81 morti).
Il settimanale «L’Europeo» del 5 luglio 1980 – scriveva: «Ogni volta, tranne forse per l’incidente di Torino nel ’74, tra le cause dei disastri e’ stata sempre ipotizzata la scarsa o non completa manutenzione degli aerei dovuta a una gestione certamente non brillante e a difficolta’ finanziarie». «L’Espresso» del 22 marzo 1981 sottolineava che «l’Itavia, al 31 dicembre 1979, aveva gia’ accumulato debiti per 41 miliardi di lire». Sempre secondo il settimanale di via Po a Roma, nel carnet di Aldo Davanzali «non vi sono solo le vecchie e chiacchierate amicizie come quelle del suo conterraneo Arnaldo Forlani, del cementiere Pesenti o di alti prelati. Sfogliando a caso la sua corrispondenza si scopre infatti che Davanzali puo’ contare su un vastissimo giro di conoscenze ad alto livello: Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Luigi Preti, Antonio Bisaglia, Carlo Donat Cattin, Benigno Zaccagnini, Oddo Biasini, Oscar Luigi Scalfaro, Angiolo Berti, giornalista faccendiere socialdemocratico, implicato nello scandalo dei falsi danni di guerra».
La requisitoria di Gualtieri sull’Itavia fu devastante. «Io ho il ricordo aggiunse il senatore repubblicano di un volo inaugurale drammatico, e conosco voli avventurosi, dirottamenti su aeroporti notturni, attese esasperanti, persone ridotte alla disperazione in aeroporti in cui ci si fa sostare anche per 10-12 ore di seguito. Questo e’ volare Itavia, signor Ministro». Nel corso della 23^ seduta (29 giugno 1989) della Commissione stragi dedicata all’audizione dell’ex ministro dei trasporti, Rino Formica (PSI), l’allora presidente Libero Gualtieri (PRI), riferendosi al cedimento strutturale, sostenne che la certezza relativa a questa precisa ipotesi «l’avevano tutti». O meglio, «i tre quarti del Parlamento».
Nel giugno del 1980, come rilevo’ lo stesso Ministro dei trasporti, Rino Formica l’Itavia (ancor piu’ di altre compagnie) risentiva di una serie di difficolta’ che gravavano su tutto il settore del trasporto aereo. Difficolta’ che nascevano dalla stretta dipendenza delle compagnie aeree dalla grave crisi economica che stava colpendo il nostro Paese, strangolato dal vertiginoso aumento del prezzo dei prodotti petroliferi, la cui incidenza ha gia’ raggiunto e superato il 25 per cento delle spese di esercizio».
Formica confermo’ anche che l’Itavia risentiva di una preoccupante serie di disservizi: «Una difficolta’ nell’approvvigionamento delle parti di ricambio e’ stata constatata. Cio’ puo’ aver prodotto riflessi negativi sulla regolarita’ dei servizi».
Il Ministero dei trasporti il 12 dicembre 1980 revoca all’Itavia le concessioni per l’esercizio dell’attività su rinuncia della stessa compagnia.
Le vicende giudiziarie legate alla strage di Ustica si protrarranno fino al nuovo secolo e si chiudono per la parte penale nel gennaio 2007 quando la Corte di Cassazione assolve con formula piena i generali dell’Aeronautica Lamberto Bartolucci e Franco Ferri imputati di alto tradimento.
A 39 anni dall’abbattimento dell’aereo e la morte di 81 persone non ci sono responsabili.
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