Trasporti
La ‘rivolta’ dei pendolari e il lavoro che cambia
In tutta Italia si moltiplicano i disagi e le proteste di chi ogni giorno usa treni e mezzi pubblici per andare al lavoro e a scuola, affrontando viaggi sempre più lunghi, costosi e stressanti. Un fenomeno che ha radici in un mutamento dell’economia che investe la geografia urbana e sociale delle nostre città e persino sulla distribuzione del consenso alle forze politiche.
Da Torino a Milano, da Roma a Napoli entrano in agitazione i pendolari italiani. Il 16 novembre a Roma alcune centinaia di pendolari della Ferrovia Roma-Viterbo, più nota come Roma Nord – circa 75.000 passeggeri (accertati) al giorno – insieme a una delegazione di pendolari della Roma Lido (65.000 passeggeri) e alcuni rappresentanti dei lavoratori dell’ATAC hanno manifestato contro i disservizi, i tagli alle linee, il degrado dei mezzi e delle stazioni. Qualche giorno prima da Milano era arrivata la proposta di un gruppo di pendolari di Trenord di organizzare lo ‘sciopero generale dei pendolari’ per il prossimo marzo, non acquistando abbonamenti né biglietti per l’intero mese ma continuando a usufruire dei treni, perché ‘attualmente viaggiare in treno è sempre più un incubo e non si ha mai la certezza né di partire né di arrivare’.
L’8 novembre era stata la CGIL del Canavese a denunciare i disagi dei pendolari della Canavesana e della Rivarolo-Chieri, gestite dalla GTT Torino (ma la Canavesana, così come la Torino-Ceres stanno per passare a Trenitalia). E l’8 novembre il Quotidiano Piemontese raccontava una storia che ha dell’incredibile: ‘150 famiglie della zona di Rivara, Forno e Busano che non avevano a disposizione pullman per accompagnare i figli a scuola si sono uniti e li hanno noleggiati facendosi di fatto promotori di un servizio totalmente assente’.
Nuove norme sulla sicurezza
A questa situazione di ordinario disservizio da qualche mese si è aggiunto un ulteriore colpo derivante dall’applicazione della legge 172/2017, che, a seguito della tragedia ferroviaria di Andria-Corato del luglio del 2016, che causò oltre 20 morti, ha trasferito le competenze in materia di sicurezza sulle cosiddette ‘reti funzionalmente isolate’ (cioè non collegate alla rete nazionale) dall’USTIF (Uffici Speciali Trasporti a Impianti Fissi) all’ANSF (Agenzia Nazionale per la Sicurezza Ferroviaria), l’organo che si occupa della rete ferroviaria nazionale. A seguito dell’approvazione della legge l’ANSF ha ricevuto il compito di individuare le norme tecniche e gli standard di sicurezza applicabili alle singole linee e a tale scopo ha avviato un iter che prevedeva la pubblicazione delle nuove regole a cui gli operatori devono uniformarsi per ottenere la certificazione dell’idoneità all’esercizio, un periodo di consultazione degli operatori stessi e infine una terza fase in cui gli operatori dovevano comunicare gli interventi di messa a norma o eventuali misure ‘mitigative’ (l’italica arte dell’eufemismo non finisce mai di stupire) o compensative, ad esempio la riduzione della velocità o il secondo macchinista per ‘mitigare’ la temporanea deroga agli standard indicati dall’Agenzia.
Una delle mitigazioni a cui si è ricorsi più di frequente è la riduzione della velocità: in Campania, ad esempio, per la Circumvesuviana e la Cumana (100.000 passeggeri al giorno) si prevede il passaggio rispettivamente da 90 a 70 e da 70 a 50 km/h. La riduzione della velocità, allungando la durata del viaggio, comporta non soltanto un’immediata penalizzazione dei passeggeri, ma spesso anche una riduzione della frequenza delle corse. E’ quanto è accaduto sulla tratta extraurbana della Roma-Viterbo, dove ATAC è dovuta intervenire con bus sostitutivi, trasformando la ferrovia in una ‘gommovia’ – per usare la formula del Comitato dei Pendolari della Roma nord – e intasando ulteriormente la Flaminia, una delle consolari che collegano la Tuscia e Roma nord al centro e alla metropolitana della Capitale.
Nel caso della Roma nord, dove la sicurezza si basa ancora sul sistema del giunto telefonico (come sulla Bari-Barletta dove avvenne l’incidente di Andria-Corato), al rallentamento si aggiunge un’ulteriore prescrizione per i conducenti, quella di rallentare a passo d’uomo a ciascuno degli oltre 100 passaggi a livello non custoditi, la maggior parte privati, presenti sulla linea. A settembre la dirigenza ATAC ha scritto sbrigativamente ai comuni comunicando che 57 di questi passaggi avrebbero dovuto essere chiusi entro un mese, ma tutto è rimasto come prima, perché farlo significherebbe stravolgere la viabilità senza avere il tempo di predisporre delle alternative. Insomma tra ritardi dell’ANSF (il primo decreto è arrivato 16 mesi dopo l’entrata in vigore della legge) e ritardi (decennali) delle amministrazioni, che in questi anni hanno ricevuto meno trasferimenti dal Fondo Nazionale Trasporti e, di conseguenza, hanno tagliato risorse alle proprie aziende, senza intervenire sugli sprechi, il sistema si avvicina pericolosamente al collasso. E a Roma, quando, dopo mille peripezie, i pendolari riescono a raggiungere il centro comincia l’avventura del trasporto urbano, con le scale mobili rotte, le stazioni chiuse, i bus che prendono fuoco.
Il contesto: sviluppo a due velocità
Sono oltre 5 milioni e mezzo di persone – secondo i dati di Pendolaria 2018, il rapporto annuale di Legambiente – che ogni giorno in Italia prendono il treno per andare a lavorare o a scuola. Di questi circa 2,9 milioni utilizzano i treni regionali, metà circa (ma sono in crescita) le linee gestite da Trenitalia e metà invece le ferrovie ex concesse (750.000 Trenord in Lombardia, 205.000 CTI in Emilia-Romagna, 190.000 ATAC nel Lazio, 145.000 EAV in Campania). Accanto a questi ci sono 2,7 milioni di utenti delle linee metropolitane, 40.000 degli intercity e 170.000 dell’alta velocità. E si tratta di un fenomeno in crescita, legato anche all’evoluzione della divisione del lavoro in atto nell’ambito dei paesi europei.
Secondo il rapporto EU Jobs Monitor 2019, Shifts in Employment Structure at a Regional Level, basato sui dati provenienti da 130 regioni europee appartenenti a 9 paesi-membri dell’UE (tra cui l’Italia), col passare degli anni lo sviluppo economico in Europa ha evidenziato una tendenza crescente alla differenziazione tra le grandi città e il territorio circostante. Tra il 2002 e il 2017 l’occupazione nelle città capoluogo delle regioni analizzate è cresciuta del 19% contro una media del 10%-12% nel resto del territorio. A questo aspetto quantitativo si sommano alcuni fattori qualitativi, come ad esempio la forte concentrazione del terziario nelle grandi città. Se infatti il 79% dell’occupazione nelle regioni considerate è concentrato nei servizi, nelle città capoluogo questa percentuale cresce fino a superare l’85%. Secondo il Rapporto le metropoli europee inoltre riproducono in modo fedele una tendenza alla polarizzazione del mercato del lavoro che vede da una parte l’espandersi di una piccola quota di lavoro molto qualificato e ben retribuito, dall’altra una forte crescita del lavoro sottopagato a scapito delle retribuzioni medie: ‘Le città capoluogo – spiega Eurojobs – appaiono un vettore rilevante della polarizzazione del lavoro. Dispongono di quote straordinariamente alte di occupazione altamente qualificata e ben retribuita nel settore dei servizi ad alta intensità di conoscenza, ma nel periodo esaminato anche le percentuali di occupazione a basso reddito sono cresciute nella maggior parte dei capoluoghi’.
La politica del trasporto ferroviario
A fronte di una crescente richiesta di mobilità dei lavoratori e degli studenti la risposta data dalla politica è stata seguire le tendenze del mercato e quest’ultimo, pur in modo contraddittorio, ha mostrato due linee di sviluppo dominanti: da una parte investimenti e concentrazione di capitale nei settori a maggiore redditività (alta velocità, fusione Trenitalia-Alitalia e acquisizione di quote di trasporto pubblico locale da parte di FS). Dall’altra semaforo verde al trasporto su gomma: emblematico, per quanto riguarda il trasporto passeggeri, il caso Flixbus, che più che un concorrente di Trenitalia si presenta come l’erede di un segmento di clientela a bassa velocità e basso reddito a cui le FS non sono più interessate.
FIGURA 1: Collegamenti ferroviari per numero di treni (Fonte: Pendolaria 2019)
In questo quadro si inseriscono anche alcune partite economiche (e geopolitiche) a livello europeo. L’Italia finora ha protetto la propria rete ferroviaria, procrastinandone di fatto l’apertura agli operatori stranieri. Con l’eccezione di Italo, di recente acquistato da un fondo americano, il Gruppo FS ha anzi rafforzato la propria posizione di sostanziale monopolio e da alcuni anni sta facendo shopping di società del trasporto pubblico locale. Nel 2012 ha comprato l’ATAF di Firenze, privatizzata dal sindaco Renzi, e figura tra i partner industriali del progetto Milano Next, annunciata privatizzazione senza gara del trasporto pubblico di Milano e di una parte della Lombardia (GliStatiGenerali280719). La ragione di questa politica è in larga misura che le aziende di trasporto pubblico locale delle grandi città, che di solito gestiscono anche tratti di ferrovie ex concesse, per i grandi concorrenti europei (come la francese RATP e la tedesca Arriva) rappresentano un cavallo di Troia per inserirsi non tanto nel trasporto pubblico locale italiano, che, salvo eccezioni, non è un affare redditizio, quando piuttosto nella nostra rete ferroviaria. E per FS costituiscono un ‘ventre molle’ da proteggere dalle incursioni straniere a difesa della propria posizione sul mercato. A Torino l’acquisizione delle ferrovie da GTT è arrivata dopo una serie di capovolgimenti di fronte che hanno portato la cordata formata da Arriva e dalla stessa GTT prima a concorrere poi a ritirarsi dalla gara. A Roma è noto l’interesse nutrito, almeno fino a qualche tempo fa, da RATP per la Roma-Lido. Così come non è un caso che a Firenze l’acquisizione di ATAF da parte di BusItalia (Gruppo FS) sia arrivata dopo che sempre RATP si era aggiudicata la gestione della tramvia che collega il centro cittadino alle sue periferie. Mentre a livello regionale la gara per l’assegnazione del trasporto pubblico toscano ha scatenato una vera e guerra di carte bollate tra RATP, che si è aggiudicata la gara e Mobit, che riunisce tutte le aziende di trasporto locale della regione, in testa ATAF e, dunque, BusItalia-FS, che ha impugnato l’aggiudicazione (perdendo).
Un disastro in cifre
I dati forniti dal rapporto di Legambiente e da altre fonti riflettono la politica attuata negli anni passati dagli stessi partiti che oggi improvvisamente hanno scoperto il Green New Deal, in clusi quelli compresi nell’attuale coalizione di governo in testa. Nonostante la forte crescita della domanda di trasporto pubblico, in particolare da parte dei pendolari, infatti dal 2010 al 2017 l’offerta di treni regionali è aumentata dello 0,2%, quella di intercity è diminuita addirittura del 42%, mentre è cresciuta del 114% l’alta velocità. Nel complesso però dal 2000 la rete ferroviaria italiana, nonostante la costruzione delle nuove linee ad alta velocità, ha perso 1.120 chilometri di binari cancellati definitivamente e 300 di tratte temporaneamente inattive per ragioni varie. Nel frattempo la rete autostradale è cresciuta di 1.200 chilometri e quella delle strade statali e provinciali di 11.500 chilometri. Nella legislatura 2013-2018 le linee ferroviarie nazionali e regionali hanno perso 205 chilometri di binari, l’alta velocità è cresciuta di soli 62, le autostrade di 217, le strade nazionali di 1.825 e quelle regionali e provinciali di 2.080. La logica conseguenza di queste scelte è che in Italia solo il 6% delle merci viaggia sui vagoni ferroviari, mentre l’85% viaggia su TIR, spesso controllati da imprenditori che non di rado gestiscono anche terminal portuali e concessioni autostradali. Parallelamente una quota rilevante del traffico passeggeri si è spostato dal treno all’autobus e l’Italia è diventata il secondo mercato per Flixbus, già citato operatore leader nel settore dei viaggi in bus a lunga percorrenza in Europa, che dopo avwerli introdotti Germania pensa di esportare in Italia i Flixtrain. Se poi consideriamo il trasporto urbano osserviamo che il 58,6% degli spostamenti in Italia avvengono grazie al mezzo privato e Roma ad esempio ha una densità di 70 auto ogni 100 abitanti, contro le 32/100 di Madrid e le 35/100 di Berlino. Del resto non è un’esclusiva italiana: anche l’Europa che invita Greta Thunberg ai suoi summit costruisce più strade che binari.
Dunque in Italia – per usare l’espressione di Pendolaria – c’è ‘voglia di treno’, ma si tagliano i binari, non si investe in treni (l’età media è di 16,8 anni), non esiste una politica nazionale del trasporto pubblico, per cui in Lombardia e in Puglia si spende quasi l’1,2% del bilancio per il servizio ferroviario regionale, mentre il Veneto si ferma allo 0,26%, il Lazio allo 0,20%, il Friuli addirittura allo 0,04%, però in Friuli i mezzi hanno un’età media di 8 anni, mentre la Puglia è in cima alla classifica coi treni in servizio da oltre 20 anni. E dal punto di vista di passeggeri? In Friuli tra il 2011 e il 2017 il numero dei passeggeri dei servizi regionali e locali è diminuito del 3%, in Campania addirittura del 33%, in Veneto e nel Lazio è rimasto sostanzialmente immutato, mentre è aumentato del 15% in Lombardia, del 30% in Puglia e addirittura dell’80% nelle Marche e in Emilia-Romagna. La relazione tra peggioramento del servizio e diminuzione degli utenti è diretta: la Roma-Lido e la Circumvesuviana, che da anni – secondo Pendolaria – sono le due peggiori linea ferroviarie d’Italia, hanno perso 60.000 passeggeri al giorno. E, come testimoniano i dati, in tema di trasporto regionale non basta la questione meridionale a spiegare il disastro. Il vero problema è aver delegato la politica dei trasporti al mercato e alla nuova conformazione che esso assume sul territorio.
Un fenomeno anche sociale
Per collocare la questione nella giusta prospettiva c’è anche un altro aspetto da non sottovalutare. La fisionomia delle nostre città in questi anni è andata modificandosi non soltanto dal punto di vista urbanistico, ma anche in termini sociali come conseguenza della nuova dislocazione dell’economia e del lavoro indicata dal citato rapporto di Eurojobs. I centri urbani stanno diventando sempre più dei quartieri-vetrina, luoghi di rappresentanza, sedi aziendali (in particolare nell’ambito dei servizi) e ciò contribuisce di fatto a snaturarli, svuotandoli dai residenti, con l’eccezione di un’esigua minoranza che può ancora permettersi di pagare affitti equivalenti allo stipendio di un metalmeccanico. I lavoratori che di giorno fanno funzionare le città e gli studenti spinti verso i centri urbani perché il numero delle scuole di periferia va riducendosi affrontano quotidianamente viaggi sempre più lunghi, costosi e stressanti per raggiungere il luogo di lavoro o di studio o con l’auto (chi può permetterselo) oppure usando i mezzi pubblici. Parallelamente alla più generale riduzione delle retribuzioni i tagli al sistema di trasporto pubblico, così come gli aumenti o le nuove tasse sui carburanti, rappresentano un attacco a quello che un tempo si chiamava salario indiretto, cioè i servizi pubblici, che costituiscono di fatto un’integrazione della busta paga.
E’ un fenomeno che, per essere compreso a fondo, va analizzato in termini generali, anche collocandolo in un contesto che oltrepassa i confini nazionali. In Francia un anno fa la rivolta dei gilet gialli francesi è stata innescata dall’aumento dei carburanti, così come sta succedendo in Iran e qualche tempo prima era successo in Ecuador. In Cile il detonatore della protesta popolare è stato l’aumento delle tariffe del trasporto pubblico così come era avvenuto qualche anno fa in Brasile. In Italia il divario sociale tra centri e periferie non è paragonabile a quella delle metropoli sudamericane né a quello che separa le banlieu parigine agli elitari arrondissement del centro. Ma il cammino che va in quella direzione è ormai avviato e persino i risultati elettorali riflettono la trasformazione sociale in atto, coi centri città trasformati in riserva indiana dei partiti della borghesia liberale e delle fasce superiori del ‘ceto medio intellettuale’, mentre in periferia e nelle province sfondano i partiti dei sedicenti ‘avvocati del popolo’. E’ per questa ragione che la questione dei trasporti dalla periferia al centro e il suo intreccio col mondo del lavoro stanno diventando uno snodo politico centrale e che una soluzione al problema può essere trovata solo mobilitandosi a partire da una visione generale del problema e da una politica di alleanze tra i lavoratori e gli studenti pendolari e le organizzazioni che li rappresentano nei posti di lavoro, a scuola e nelle università, ma anche, allo stesso tempo, tra i pendolari delle maggiori città italiane.
Articolo tratto dalla newsletter di PuntoCritico.info del 19 novembre.
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