Infrastrutture

In metrò aspettare l’arrivo del treno è un’arte, ed è diventata pure una scienza

27 Gennaio 2016

L’attesa è una condizione esistenziale, e nel corso del Novecento ha ispirato alcuni capolavori letterari, come Waiting for Godot di Beckett o Il deserto dei Tartari di Buzzati. Ma la verità è che a nessuno piace aspettare, per lo meno quando si tratta di questioni più prosaiche, come la coda in posta e al supermercato, o l’attesa del prossimo bus. Giusto a proposito di mezzi pubblici, le società che progettano e gestiscono metropolitane hanno contribuito allo sviluppo di una vera e propria scienza della sosta in banchina.

La gente comune, quella che timbra il biglietto e fissa la galleria scura sperando di veder apparire i fanali del treno, misura ogni minuto di indugio in assalti crescenti di ansia, o in complessità degli improperi – e solo quando va meglio, in passaggi a livelli superiori di videogame o in pagine lette. Invece, per gli ingegneri che pianificano nuove linee o che ottimizzano quelle esistenti, la parola chiave di questa branca di studi è headway: è l’intervallo di tempo o di spazio sullo stesso percorso fra due veicoli di linea consecutivi. La nozione può essere estesa a tutti i sistemi di trasporto, e si connota come «più corta» la headway associata al servizio di passaggio più frequente: quella dei treni locali si misura in ore, quella dei metrò in qualche minuto, quella delle macchine in autostrada in un paio di secondi.

L’intervallo tra i veicoli emerge da un algoritmo in cui vengono messi in correlazione i tre elementi essenziali della «capacità di percorso», ovvero il numero di automezzi che possono transitare per un certo tratto di strada in un arco predefinito di tempo (di solito coincidente con 1 ora), il numero di passeggeri per veicolo, la velocità massima della loro motrice. Si è cominciato a processare questo calcolo per mettere al riparo i passeggeri dal rischio di incidenti tra due treni che corrono in successione sullo stesso binario.

Lo spazio di frenata infatti è in generale superiore a quello che viene coperto dal veicolo dall’istante in cui il macchinista a occhio può percepire una sosta non prevista del convoglio che lo ha preceduto. L’urto diventa inevitabile, a meno che non si provveda in anticipo a ritmare le partenze dei treni a distanze di sicurezza (la h), e a dislocare punti di controllo per verificare la conservazione degli intervalli di cautela lungo il percorso. Storicamente questi checkpoint erano costituiti da torrette presidiate da agenti umani: spettava a loro il compito di verificare la puntualità del passaggio dei convogli, segnalando via telefono l’insorgenza di problemi agli altri presidi sulla tratta.

Oggi le operazioni di vigilanza sono gestite da dispositivi automatici, che seguono comunque la stessa logica, facendo scattare segnali di stop ai blocchi di controllo precedenti lungo il percorso. Le equazioni che analizzano la capacità di percorso sono necessarie per identificare le headway di partenza dei treni, valutando oltre alla loro velocità, anche i tempi di frenata e quelli di reazione dei conducenti.

La diffusione dei metrò che viaggiano senza un conducente umano ha accresciuto l’importanza di queste informazioni, dal momento che la salvezza dei passeggeri è affidata in via esclusiva ai servomeccanismi del sistema tecnologico. Oltre al tema della sicurezza, alcune varianti degli algoritmi sono diventate il volano per l’equilibrio scientifico tra ottimizzazione dei costi e rilascio della migliore esperienza possibile di viaggio per i clienti.

Il traffico deve essere governato con un bilancio che abbatte le spese economiche del gestore e il costo dell’ansia – misurato in turpiloquio, anche solo mentale – dei passeggeri. Un esempio di questa prospettiva è il cosiddetto Cityringen di Copenhagen, la linea di metrò che correrà in anello attorno al centro della capitale danese, trenta metri sotto il piano della strada, e sarà realizzata dal gruppo italiano Salini Impregilo.

Cityringen Copenhagen

Il tracciato del Cityringen prevede una lunghezza complessiva di 17,4 chilometri, e un’articolazione di 17 stazioni. L’aspetto dirompente del piano,  è che i treni si muoveranno con un governo privo di conducente umano 24 ore al giorno, passando ogni 1oo secondi e assicurando la mobilità di 130 milioni di passeggeri all’anno.

Da molti anni l’Imperial College di Londra raccoglie dati provenienti da diverse linee metropolitane distribuite nel mondo, al fine di valutare l’impatto di diversi fattori sul calcolo di una headway ideale. Rientrano nelle valutazioni dei ricercatori la durata della sosta nelle stazioni, il numero di passeggeri in attesa, la quantità di porte e il tempo della loro apertura, i posti a sedere – spingendosi fino a stimare gli effetti della struttura architettonica delle fermate. La loro constatazione è che non esistono distinzioni significative tra il comportamento dei passeggeri del mondo occidentale e dei Paesi orientali. I parametri che mostrano un nesso causale con le prestazioni del servizio di mobilità sono le differenze nell’architettura delle banchine, quelle del design dei treni e il grado di affollamento dei viaggiatori all’interno dei vagoni.

In altre parole, l’ansia dell’attesa e la scienza sono uguali dappertutto. Daniel Boyle ha stabilito una legge di correlazione tra l’arco di tempo richiesto ad aspettare alla fermata e la quantità di utenza dei mezzi pubblici. Il fattore di conversione è 1,5: se per esempio la headway diminuisce da 12 a 10 minuti, il tempo medio di attesa di un passeggero decresce in media di 1 minuto. L’espansione dell’utenza si calcola con la formula 1 x 1,5+1, ottenendo un incremento del 2,5 per cento. Nel nostro destino tecnocratico sembra disegnarsi un uso sempre maggiore dei mezzi pubblici.

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In copertina, foto di Davide Gambino, CC

Data di prima pubblicazione: 8 dicembre 2015

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