Trasporti

Fabio Scavone: «Moby Prince, la verità storica non è ancora stata raggiunta»

10 Aprile 2023

Per il raggiungimento della verità è necessario avere una cooperazione piena da parte di Agip e di Eni per avere a disposizione l’intero carteggio relativo alle loro indagini interne

Erano le 22.25 del 10 aprile 1991 quando, nella rada del porto di Livorno, il traghetto passeggeri Moby Prince della compagnia Navarma, appena partito con direzione Olbia, e la petroliera Agip Abruzzo, all’ancora nella rada del porto, entrano in collisione.
La prua del traghetto squarcia una delle cisterne del greggio trasportato e si scatena un incendio.
Nonostante la vicinanza al Porto, l’incendio fuori controllo provoca ingenti danni sia alla petroliera sia al traghetto. Nessuna delle trenta persone di equipaggio a bordo della petroliera riporta danni fisici. Tragico è invece il bilancio sul traghetto Moby Prince: delle 141 persone a bordo, 65 membri dell’equipaggio e 76 passeggeri, vi è un solo superstite.
In quello che ancora oggi è definito il più grave incidente della marineria italiana in tempo di pace, muoiono 140 persone.

Trentadue anni dopo restano aperte ancora troppe domande, da causa, dinamica dell’incidente e, non ultima, sull’ora di ritardo nei soccorsi. Ne abbiamo parlato con il dottor Fabio Scavone, oggi procuratore aggiunto alla Procura di Catania e membro delle due commissioni parlamentari d’inchiesta che si sono occupate del “caso Moby Price”.

Procuratore, all’inizio di marzo è stato comunicato che si procederà alla formazione di una nuova commissione parlamentare d’inchiesta per, come descritto nel documento istitutivo, terminare l’opera di ricostruzione storica dell’evento. Se dovessero chiederle ritiene che possano convocarla come consulente?

«Sicuramente ho il vantaggio di essermi accostato al problema da diversi anni, avendo partecipato sia alla prima commissione, quella del Senato, in cui il lavoro è stato più serrato, anche perché si partiva da zero mentre la seconda commissione ebbe il vantaggio, partendo da una posizione già consolidata con il compito di approfondire e limare certi aspetti. L’ho fatto con spirito volontaristico ed è stato, per me, un impegno part-time. Inoltre, avendo fatto il servizio militare in Marina, possiedo quel minimo di nozioni nautiche e marinaresche le possiedo e la mia esperienza investigativa e giudiziaria, avendo sempre lavorato in Procura, costituiscono un bagaglio che mi ha permesso di affrontare in passato il compito. In realtà non mi è ancora stato chiesto nulla. L’ho fatto per passione, per contribuire alla ricerca della verità».

Ritiene che ci possano essere ulteriori sbocchi dal punto di vista giudiziario?

«Purtroppo no. Entrambe le commissioni sono approdate, come risultato conclusivo, all’escludere che ci possa essere stata una volontà deliberata e quindi, quando si ricade sulle varie ipotesi colpose, queste sono ampiamente prescritte. Non si tratta, però, di un lavoro sterile e fine a se stesso. I lavori di una commissione permettono di capire cosa è possibile fare perché alcuni accadimenti non accadano più. Si tratta, inoltre, di una sorta di risarcimento morale perché i familiari delle vittime hanno il diritto di sapere il motivo per cui hanno perso i loro congiunti in quella tragica notte».

Sono emersi elementi indiretti di cui è necessario tenere conto?

«Sì. Nel corso di questi anni è emerso che a Livorno, in quel contesto storico, questa vicenda era di gran lunga superiore alle capacità strutturale di una procura circondariale. È necessario, e il suggerimento è stato dato, che questi reati devono essere affrontati da realtà così piccole e, a volte, impreparate. Oltre al caso della Moby Prince, le ricordo il caso di Viareggio, del Mottarone. Si tratta di vicende che hanno dato la misura di come, in concreto, queste Procure e la Polizia Giudiziaria del posto, abbiano difficoltà ad affrontare il problema. La stessa struttura dell’allora Capitaneria di Porto non aveva, contrariamente a oggi, le necessarie capacità operative. Oggi sono disponibili elicotteri e motovedette di nuova generazione, in grado di affrontare il mare in qualunque condizione. Si pensi anche che le indagini furono condotte da un solo ”sostituto”, con tutte le difficoltà che si sono presentate. Si pensi che, per le autopsie, nella banchina del porto fu approntato un capannone in cui effettuarle e costituita ad hoc un’equipe medica che ha dovuto fare una selezione dei corpi su cui svolgere l’esame autoptico. Anche questo è un elemento messo in evidenza dalla commissione perché, se fosse stato possibile effettuare quest’esame a tutte le salme, si sarebbero potuto raccogliere elementi idonei a una ricostruzione più dettagliata della dinamica del disastro».

Qual è stato il compito della prima commissione?

«Quello di rivisitare, in maniera pressoché totale, la verità processuale che aveva attribuito la responsabilità a una concomitante serie di fattori causali, riconducibili soprattutto alla presenza della nebbia, che aveva impedito una navigazione sicura che non permise al Moby Prince di intravedere la nave e andare in rotta di collisione e poi collidere. A questo si somma una cosiddetta navigazione allegra, con l’alone della leggenda che tutti stessero vedendo la partita, anche se in realtà questo non successe. Negli anni si affastellarono ulteriori mistificazioni come una battaglia tra servizi palestinesi e israeliani, un traffico d’armi e altre spy story ma, in realtà, il lavoro della commissione ha sgombrato il campo da questi scenari. Poi si stabilì, grazie a elementi fattuali, rilevati sia da un aereo in volo sia da terra, che non c’era la nebbia. Ci fu sicuramente la cortina di fumo denso e nero che frenò l’efficienza e la tempestività dei soccorsi, indubbio fattore di difficoltà ma è stato usato, anzi abusato, per sostenere che non ci fosse alcun ritardo».

Questo, quindi, fu il patrimonio che si trovò in dote la seconda commissione…

«Partendo da tutto ciò, la seconda commissione ha lavorato su cosa avesse causato la collisione. Si è cercato di capire se l’Eni avesse proceduto o meno a un’indagine interna, quesito non risolto. Grazie alle moderne tecnologie fu effettuata una ricostruzione in 3D dell’evento in quello spazio. Questo ha permesso di capire che Moby Prince non attraversò l’Agip Abruzzo come una freccia uscendone in fiamme ma si trattò di diverse manovre nel tentativo di disincagliare i due scafi e si protrassero per molto tempo. Fu colpita, nell’impatto la stiva che conteneva il greggio, una stiva sotto pressione. Questo generò un’uscita sotto pressione di elevata potenza. Le scintille generate dalle manovre di disincaglio della nave hanno determinato l’accensione del greggio. Altro aspetto analizzato è quello che si riferisce ai soccorsi, che dovevano pensare anche alla petroliera che aveva un carico pericolosissimo. Solo una parte del carico fuoriuscì e prese fuoco. Se tutto il carico di greggio avesse preso fuoco lo stesso equipaggio non sarebbe sopravvissuto e ci sarebbero state disastrose conseguenze ecologiche catastrofiche per tutto il litorale e un inevitabile coinvolgimento dei mezzi di soccorsi. Nel complesso, relativamente all’Agip Abruzzo, le operazioni di soccorso furono ritenute soddisfacenti».

Alle 22:49 di quella notte, una comunicazione radio in inglese viene registrata sul canale 16. Si tratta di quella della nave Theresa, che comunica il suo allontanamento dal luogo del disastro. Si può trattare della “bettolina” di cui parla il comandante Superina sul canale 16?

«L’altro dato che è emerso che, in quel tratto di mare, c’era un’ulteriore nave civile che trasportava munizioni e che si è allontanata. È intuitivo che una nave che trasporta munizioni è la meno idonea a portare soccorso, anzi è importante che si allontani a “tutta forza”. Lo snodo in cui la conclusione della commissione è possibilista, non avendone certezza, è che, vista la qualità e la competenza dell’equipaggio della Moby Prince e al contempo dell’equipaggio dell’Agip Abruzzo, è quello di cosa possa aver determinato la collisione. Una delle verità ulteriori accertate dalla commissione è che l’Agip Abruzzo, seppure per poco, era alla fonda in una zona non consentita. Si deve però tenere conto della catenaria dell’ancora e di uno scarrozzamento dovuto al vento. Si è ipotizzato che un altro natante abbia interferito con la rotta del Moby Price indicendo il comandante a una manovra di emergenza, nel tentativo di sfilarsi e che invece l’abbia fatto collidere con l’Agip Abruzzo. Ironia della sorte, quella di aver colpito la stiva piena di greggio, visto che le due adiacenti erano vuote. Della presenza di questo misterioso natante non abbiamo una testimonianza che riporti la sua presenza salvo un dato suggestivo generato da un’affermazione del comandante Superina che comunicava la presenza di una “bettolina”, ossia una piccola imbarcazione. È evidente che le dimensioni del Moby Prince fossero superiori a quelle dell’Agip Abruzzo ma la stessa petroliera era di dimensioni considerevoli e quindi non identificabile con una “bettolina”. Da qui nacque il sospetto che portò nel campo delle probabilità, ossia che ci fosse una “bettolina” che stesse svolgendo attività non si sa a quale titolo, si suppone illecita e che si sia allontanata dopo l’accadimento. Per astratto, la presenza di un ulteriore natante rappresenta la ragione plausibile per una rotta immediatamente deviata che determina la collisione. L’ipotesi bomba a bordo e le relative congetture sono state scartate perché, a  seguito degli esami condotti dai tecnici nominati dalla commissione, non aveva nessun appiglio tecnico, nessun dato oggettivo. Furono ritrovati oggetti personali delle vittime integri, molte vittime erano nel punto di raccolta con il bagaglio e giubbino salvagente, dato fattuale in contrasto con la tesi “è arrivata la palla di fuoco e sono morti tutti in pochi secondi”, perché è evidente che fu diramato l’allarme e che la gente ordinatamente raggiunse nel punto di raccolta. Alcuni morirono per asfissia, non per ustioni. Questo smentisce la tesi che tutti morirono nel breve lasso di tempo di 5-10 minuti, tesi che giustifica, implicitamente, il ritardo inammissibile dei soccorsi».

Cosa servirebbe, oggi?

«Avere una cooperazione piena da parte di Agip e di Eni per avere a disposizione l’intero carteggio relativo alle loro indagini interne. È evidente che hanno subito un notevole danno non solo economico ma, e questo vale anche per Navarma, c’è stato un grande danno d’immagine ma ciò non toglie che la loro collaborazione porterebbe a un grande contributo per il raggiungimento della verità. La via privilegiata è stata quella di risarcire le vittime, anche se la maggior parte delle vittime non si è costituita parte civile e si sono acquietate con l’offerta loro proposta».

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